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Burton Greene: Retrospective 1961-2005: Solo piano, August 18, 2005

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Se chiedete a un accademico del jazz notizie del signor Burton Greene, nato a Chicago nel giugno del 1937, vi sentirete probabilmente rispondere qualcosa del tipo: “seppur misconosciuto, è un pianista di una certa importanza in quanto tentò di coniugare il free jazz con il cool di Lennie Tristano e con la contemporanea di Cage (l’introduzione nel jazz del piano preparato o suonato direttamente nelle corde sembrano essere farina del suo sacco)”...

Se chiedete la stessa informazione ad un ex-hippy dei gloriosi Sixties, meglio se di stanza in Olanda, Germania o Francia, vi sentirete rispondere “un vero prototipo dell’hobo moderno, trasferito da una New York che non poteva capire ad una bella house-boat galleggiante nei canali di Amsterdam”...

Greene può, in breve, essere considerato come un classico contemporaneo da tenere nello scrigno delle cose belle. Quelle fatte della stessa musica “intelligente” di cui erano fatte le migliori filosofie di Marion Brown, Sam Rivers, Gato Barbieri e Alan Silva, quando - a New York - si parlava di avanguardie e di free forms, di arte libera totale e di improvvisazione pensante. Il bello di questo straordinario settantenne di oggi è che egli- accanto alla perfetta tecnica e ad un tocco decisamente “energetico” - riusciva a creare un paradossale festival di happening di cluster, inseriti nelle più impensabili metriche dei canoni del free più vero, sparigliando poi il mazzo con momenti di sdolcinerie totali, giocando come pochi altri suoi contemporanei con il senso di un insieme raro e allo stesso tempo seducente. Il tutto in un connubio di una sorta di protofilosofia “sixties”, fatta di senso e tendenza universale, mistici orientalismi e reiterati incantamenti armonici.

Solo Piano è un terzo esatto della bella decisione della CIMP newyorkese, di rendere omaggio e giustizia a questa sontuosa e poco ricordata icona americana, da più di 40 anni albergata in terra olandese. Il resto della trilogia, assolutamente consigliabile per chi lo volesse scoprire, si chiama Sign of the Times e Ins and Outs, rispettivamente in quintetto e in trio. Il tutto per coprire quasi un mezzo secolo di musica di un autore, a dire il vero, non propriamente prolifico.

Il CD in questione raccoglie un concerto registrato alla Gilbert Recital Hall di Canton (New York), il 18 agosto 2005. Tredici brani ben commentati anche all’interno del libretto del CD che raccontano di blues shorteriani messi all’inizio del concerto “perché è un buon brano per scaldarsi”, composizioni iniziate nel 1961 e finite l’altro ieri perché “riflessive” e quindi bisognose di tempo per decantare, immancabili e doverose “citazioni” di Monk ("Little Rootie Tootie") e pregnanti reiterazioni delle filosofie “in” e “out” che sembrano accompagnare da sempre la carriera di Greene, come nell’onomatopeico “Now You Hear It, Now You Don’t”. Impossibile non omaggiare infine il Mingus secondo Wilbur Morris (“Chazz”) oppure recuperare preziosi manoscritti quali il “Mark IV”, scritto a quattro mani con Jon Winter all’inizio dei Sessanta e poi recuperato in fondo ad un cassetto quarant’anni più tardi, riscoprendolo ritmico e pieno di motivazioni ancora utili.

Credo fermamente che più che citare le forme AABA chicagoane, esaltate negli anni dai vari Alfred Lion, dai fratelli Ertegun o da Teo Macero, che spesso citavano parlando di Greene, sia oggi più utile consigliare un ascolto “intimo”: accendere il lettore, far scivolare il CD e premere il tasto play. C’è mezzo secolo di storia pianistica “intelligente” qui dentro. Dalle forme classicamente più “classiche” agli accenni klezmer, attraverso tutto il sangue del jazz pianistico più nobile. Horace Silver, Lennie Tristano, Bud Powell e Cecil Taylor in pillole. Più Cage e takes che a Ornette Coleman e John Zorn piacerebbero dannatamente.

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