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Pangolinorchestrà
By“Il pangolino è un mammifero ma sembra tutt'altro: un misto fra carciofo, ananas, formichiere, armadillo e bradipo se può bastare. La Pangolinorchestrà rappresenta bene questo mix di somiglianze, dove nessuna di queste calza a pennello.”
Con queste eloquenti parole si apre la presentazione del loro concerto all'Area Sismica. E dice già tutto.
In effetti si tratta di uno dei parti più bizzarri e improbabili della musica italiana alternativa/sperimentale (tanto per capirci) degli ultimi tempi: un essere proteiforme e sfuggente che assume di volta in volta tratti simili (ma non del tutto aderenti) a una banda da processione del sud Italia, una fanfara balcanica, una big band free jazz, o più semplicemente un manipolo di soggetti stralunati. Senza tralasciare una buona dose di attitudine allo sberleffo e all'autoironia.
Della formazione - che ha da poco pubblicato l'ottimo Ex-perimento #5 - fanno parte alcuni prolifici agitatori musicali underground nostrani di quella zona grigia che sta a cavallo tra free jazz, noise rock e altri sperimentalismi, come i polistrumentisti Jacopo Andreini e Andrea Caprara (in questa occasione ai sax), un veterano dell'improvvisazione radicale italiana come Edoardo Ricci (al sax e al trombone), Gi Gasparin, ex cantante-chitarrista del gruppo veneto avant-rock Gi-Napajo, l'improvvisatore elettronico romano Roberto Fega, i batteristi Lucio Bonaldo e Stefano Porro, il bassista Giorgio Manzato, e poi Adalberto Bresolin ancora al sax, Enrico Antonello alla tromba, Tuia Cherici al clarinetto e infine la voce sui generis di Giuliano Tremea.
Una musica ebbra e febbrile, posseduta da uno spirito dionisiaco; una forte sintonia collettiva, che si estrinseca nella condivisione di un'etica dello stare sopra le righe, in attesa dei momenti propizi per romperle. Un'orgia di fiati selvaggi, una proliferazione percussiva, una chitarra un po' straniata e sovente rumorosa, voci tendenzialmente sgangherate. Insomma, non ci si aspetti da questi combattenti votati alla causa dell'eccesso nessuna concessione al manierismo, al culto dell'ordine, all'estetica dell'equilibrio, della misura e della perfezione. Qui si bada al sodo, si punta alle viscere, all'istinto, nei momenti di grazia magari anche al cuore, ma poco alla testa. E per fortuna, perché l'effetto c'è e il risultato è convincente.
Non è forse casuale che gli elementi del gruppo provengano almeno in parte da un retroterra politico-culturale anarchico. La politica non fa parte direttamente dei contenuti della loro musica, ma è presente sullo sfondo, anche in senso letterale: sul palco, alle spalle del gruppo, c'era un manifesto contro l'allargamento della base Nato di Vicenza... E in continuità con la weltanschaung anarchica, oltre che con la lezione del free jazz, la formazione esprime appieno il suo potenziale e la sua forza d'urto nei momenti di libertà totale dove ognuno è libero di esprimersi senza regole e dove, al di là dell'apparente caos, quella che si crea non è una deriva individualistica (ognuno fa quello che gli pare), ma in realtà una forte identificazione dei singoli nell'entità collettiva.
O forse è proprio la libertà di esprimere la propria individualità senza sottomettersi a regole sovraordinate che rende possibile la creazione di un'identità collettiva più grande.
Ciò non vuol dire che dal gruppo non emergano individualità musicali con una propria fisionomia e ruoli riconoscibili. Per quanto l'improvvisazione e anche l'invenzione estemporanea abbiano largo spazio, tutti i pezzi hanno il loro nucleo di partenza in composizioni di Gi Gasparin e Adalberto Bresolin. Inoltre sul palco Gi Gasparin e Jacopo Andreini si ritagliano a turno il ruolo di direttori e si occupano d'incanalare il magma della spontaneità collettiva all'interno di un'idea compositiva: regolano il flusso delle masse sonore, le dinamiche fra pieni e vuoti, decidono gli spazi per l'improvvisazione solitaria dei singoli.
Ognuno quindi ha un ruolo, ma è continuamente incoraggiato a debordare dal suo spazio, a prendersi le libertà che più gli aggradano; e del resto non c'è bisogno di incoraggiamenti, perché tutti i musicisti sono perfettamente in armonia in quell'etica di ebbrezza collettiva di cui si è detto prima.
Melodie che evocano la tradizione bandistica nostrana; alcune reminiscenze balcaniche; accenni all'America latina; caotici momenti d'improvvisazione collettiva o brevi excursus solitari in stile free; derive nel noise-rock; interventi elettronici in stile elettro-acustico che a volte sottolineano i passaggi più enfatici, altre hanno un effetto decontestualizzante e straniante.
In certi momenti veniva quasi da pensare che se le fosse capitato in sorte di trovarsi a New York nel 1978, avrebbe potuto essere lei l'unico esemplare vivente di big band no-wave.
Foto di Claudio Casanova
Altre immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.
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