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Metastasio Jazz

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Teatro Metastasio e Teatro Fabbricone - Prato - 28.01-11.02.2013

Programma succosissimo, a dispetto delle ristrettezze economiche, per la diciottesima edizione di Metastasio Jazz, che nelle tre serate principali, tutte di lunedì, ha messo in scena cinque concerti con alcuni artisti di primissimo piano e una paio di nuovi talenti alla prima uscita italiana. Il tutto dopo la straordinaria anteprima autunnale, che aveva visto sul palcoscenico pratese l'Echo Echo Mirror House di Anthony Braxton (clicca qui per leggere la recensione del concerto).

La prima serata, il 28 gennaio al Teatro Metastasio, doppio concerto con il Chicago Underground Duo e l'Alexander Hawkins Ensemble.

I primi, Rob Mazurek e Chad Taylor, hanno ormai una collaborazione rodatissima anche all'interno di formazioni allargate e l'hanno dimostrato nel corso di un concerto scoppiettante, a tratti molto intenso, nel quale l'intesa svolgeva una funzione centrale. Il cornettista ha una volta di più confermato le sue doti espressive (che gli hanno appena fruttato il riconoscimento nel Top Jazz italiano), mentre il batterista è parso un capello al di sotto delle (alte) aspettative. Così come non ha convinto del tutto l'impiego dell'elettronica, forse eccessivo e, soprattutto, non particolarmente originale nelle forme.

Interlocutorio il concerto del sestetto inglese, composto ritmica più chitarra, violino e clarinetti: musicisti interessanti e giovanissimi, che hanno messo in campo composizioni di indubbia complessità strutturale. Di contro, però, tale complessità è parsa spesso fine a se stessa, astratta e rarefatta, così da lasciare poca traccia di sé all'ascolto se non una sensazione di ridondanza. Ciò va forse in parte addebitato alle individualità del gruppo, perlopiù un po' immature a esclusione del leader, interessante anche alla tastiera, che il giorno precedente aveva incontrato il pubblico per un'intervista- concerto.

Più emozionante la seconda serata, il 4 febbraio al Teatro Fabbricone, che a visto di scena Roscoe Mitchel in splendida solitudine (il direttore artistico Stefano Zenni, la mattina precedente, aveva proposto un'interessante conferenza dedicata appunto al solo di sax nella storia del jazz) e il trio statunitense Big Gurl, capeggiato da Darius Jones.

Mitchell, attesissimo, ha eseguito cinque brani e un breve bis: meno di un'ora di musica, però intensissima, densa, personale e complessa. Tutto questo a dispetto di (o grazie proprio a) un approccio in parte limitante le possibilità espressive, allo scopo però di aprirne di nuove. Il primo brano, per contralto e di quasi venti minuti, si è articolato su numerose modalità sonore tra loro strutturate: note lunghe, silenzi, note distorte, abbozzi di temi meditativi, una lunga e ipnotica respirazione circolare, sovracuti che si aggiungevano alle note esplicite. Insomma, gran parte di ciò che uno dei massimi esploratori del solo di sax ha messo a punto in quarant'anni. A seguire Mitchell ha inanellato tre brani al soprano, questi incentrati maggiormente sulla respirazione circolate e i sovracuti, ma anche sull'effetto di raddoppiamento prodotto dal rapido accostamento di note alte e note basse. Ne è scaturisto un flusso sonoro coerente e affascinante, ancorché certo di fruibilità non immediata, anche per l'apparente ripetitività - per disconfermare la quale è indispensabile un ascolto attento a ciascun dettaglio. Complessivamente un concerto di grande interesse, ipnotico, conferma del rigore della ricerca di un grande delle ance.

Certo non dello stesso livello e tuttavia interessante il concerto successivo, con tre musicisti da noi non molto noti e al primo tour italiano. Il leader Darius Jones, un colosso nero, ha un originale e potente modo di suonare il contralto, al quale mette a frutto molteplici eredità e una certa varietà stilistica. Ma nel concerto pratese è soprattutto emersa la struttura della musica: il trio, anzitutto, è parso autenticamente tale, privo di vere gerarchie, tanto che Jones si è assentato spesso, lasciando da sola la giovane ritmica, senza che la musica languisse. Adam Lane, il contrabbassista, ha mostrato una enorme energia e un suono potente, spingendosi spesso in improvvisazioni ardite - forse talvolta anche un po' troppo; Jason Nazary, il batterista, ha assecondato ora l'uno, ora l'altro partner, con sensibilità e varietà di scenari. Ritmi blues appena accennati, note lunghe del sax per aprire spazi alla ritmica, riff minimali e monocorde hanno caratterizzato i brani, penalizzati solo da una qualche (voluta?) incompiutezza. Gruppo interessante e da seguire in futuro.

La serata conclusiva, l'11 febbraio di nuovo al Teatro Metastasio, era la sola a concerto unico e vedeva di scena il musicista italiano dell'anno, Mauro Ottolini, con l'ultimo progetto del suo apprezzatissimo gruppo Sousaphonix: Bix Factor, dedicato all'attualizzazione della musica di Bix Beiderbecke.

Il concerto ha seguito la falsariga dell'apprezzato doppio CD omonimo, riprendendo anche parte delll'esilarante e onirico suo libretto fantascientifico, alcuni dei cui brani sono stati recitati da Ottolini. Rispetto al lavoro registrato il concerto a permesso di percepire meglio le dinamiche tra i ben dodici elementi della formazione e, soprattutto, di apprezzare alcuni aspetti scenici con conseguenze anche sulla struttura della musica: la funzione teatrale delle due cantanti, Vanessa Tagliabue Yorke e Stephanie Ocean Ghizzoni, ben diverse tra loro; l'esuberante e pirotecnica verve creativa di Vincenzo Vasi; la modalità informale e inusuale in cui Ottolini dirige il gruppo. Unica, lieve pecca di un autentico e originalissimo omaggio al grande jazz di un grande protagonista come Bix, sono sembrate alcune rarefazioni, forse troppo prolungate e perciò tali da figurare come pause. Dettagli, peraltro, di un concerto globalmente divertente, appassionante e a momenti travolgente, che ha chiuso più che degnamente il festival.

Foto, di repertorio, di Claudio Casanova (la prima), John Sharpe (la seconda), Copenhagen Jazz Festival (la terza), Maurizio Zorzi (la quarta).

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