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Ljubljana Jazz Festival 2013
ByLubiana è città viva, palpitante, ricca di fermenti culturali, di luoghi di incontro e discussione, di happening quotidiani, di artisti di strada, di botteghe artigiane come non se ne trovano più, di contrasti architettonici e urbanistici, di parchi dove è possibile inerpicarsi su dolci sentieri così come visitare la personale di qualche famoso artista. Insomma una città a dimensione uomo, una città appetibile per un soggiorno rigenerante nel corpo e nello spirito. Qui si svolge, dal 1960, un festival jazz che ne rispecchia vitalità, apertura, curiosità, ricerca e che, grazie al contributo di istituzioni, enti, promoter, direttori artistici illuminati, appassionati, associazioni e risorse del territorio, è diventato uno degli appuntamenti da non perdere per tastare il polso della musica improvvisata del nostro tempo.
Se l'edizione dell'anno passato aveva come fil rouge la tromba e presentato diverse generazioni di interpreti, da Peter Evans a Joe McPhee, da Susana Santos Silva a Nate Wooley, quest'anno i direttori artistici Bogdan Benigar e Pedro Costa (patron quest'ultimo della benemerita label portoghese Clean Feed) hanno pensato di allestire il percorso attorno al sassofono e alle sue varie declinazioni. O per meglio dire, con una scelta coraggiosa e controcorrente anche all'interno di un festival che di accomodante e convenzionale ha poco o nulla, di costruire la rassegna attorno alla figura di Peter Broetzmann.
Padre storico del free europeo, autore dell'epocale Machine Gun, album abbattutosi come un uragano sulla scena improvvisativa europea, punto di riferimento imprescindibile per le nuove generazioni di improvvisatori, artista a 360 gradi, Broetzmann ha avuto una sorta di carta bianca per le quattro giornate del festival che lo hanno visto esibirsi in diversi contesti e con diverse formazioni. Con la chicca di una mostra fotografica curata da Ziga Koritnick e di una retrospettiva atta a testimoniare il suo talento grafico attraverso l'esposizione di disegni, acquerelli, stampe, quadri, oggetti, poster e copertine di dischi.
Nonostante il nostro abbia superato le settantadue primavere la sua musica conserva in gran parte l'energia devastante che l'ha resa tra le più riconoscibili e rigorose, refrattaria a mode e cambiamenti. Risultava perciò particolarmente interessante verificare come le diverse combinazioni strumentali potessero interagire e in qualche modo modellare il monolite sonoro del sassofonista di Remscheld. A rompere il ghiaccio - verrebbe da dire a scioglierlo visto il grado di combustione raggiunto dal quartetto - ci ha pensato quella sorta di "doppio duo" completato dall'altro fiato Ken Vandermark, e dalla coppia di batteristi Hamid Drake e Chad Taylor. Al baritono Vandermark crea bordoni ossessivi che sorreggono e alimentano le grida di Broetzmann spesso impegnato al tarogato, mentre quando incrocia il tenore con il contralto del tedesco una colata lavica incandescente si riversa sugli ascoltatori. Sorprendente risulta il contrasto tra la massa di note virata spesso sugli acuti e sovracuti e il tappeto poliritmico molto africano con predilezione dei tamburi rispetto ai piatti, in una battaglia tra chiari e scuri che contribuisce in maniera decisiva al fascino del set.
La sera seguente Madre Africa si manifesta in maniera ancor più palese. Ad affiancare il sassofonista e clarinettista tedesco, oltre al fido Hamid Drake, troviamo lo specialista di guembri - sorta di chitarra basso di origine marocchina - Mokhtar Gania. Le sue linee di basso sono ipnotiche, con reiterazioni tanto semplici quanto efficaci nel portare ad uno stato di trance sul quale decollano gli strumenti a fiato del leader. Ma è la non prevista presenza del vibrafono di Jason Adasiewicz il vero valore aggiunto dell'esibizione con il suo procedere percussivo ed allucinato che la toglie dalle paludi di una noiosa deriva.
E proprio il duo con il barbuto vibrafonista di Chicago, stella ormai splendente non solo dello strumento ma della scena musicale più aperta e creativa, è risultata, a parere di chi scrive, la perla dell'intera manifestazione. La debordante energia degli strumenti a fiato viene convogliata verso forme di grande coerenza espressiva dal rigoroso disordine creato da Adasiewicz. Che alterna momenti di grande impatto fisico, con il vibrafono strapazzato, percosso, quasi maltrattato e dolcezze inusuali in un gioco che sembra sorprendere lo stesso Broetzmann e condurlo alla ricerca di una bellezza che non si concretizza solo nei suoi pensieri ma si manifesta attraverso un canale di immediatezza comunicativa non sempre percepibile in altre esibizioni.
Se i precedenti concerti avevano trovato sede negli spazi del centro culturale Cankarjev Dom con capienza di un centinaio di posti, l'esibizione finale di Broetzmann gode della splendida cornice della Krizanke (arena ricavata nel cortile di un convento seicentesco) e di una platea da concerto rock di oltre mille persone. Ma il nostro non si scompone affatto né cede a compiacenti tentazioni e offre l'ennesimo set di selvaggio furore, ingentilito, si fa per dire, dall'aplomb anglosassone di due maestri del free inglese come il contrabbassista John Edwards e il batterista Steve Noble.
Ma non c'era solo Broetzmann alla 54 esima edizione del Lubiana Jazz Festival. Altri concerti dal peso specifico elevato si sono succeduti nei quattro giorni della kermesse a iniziare dal formidabile trio Side A con Ken Vandermark, Havard Wiik al piano e Chad Taylor alla batteria. Musica di grande spessore compositivo, con prolungate sezioni di stampo cameristico sconvolte da impennate vigorose e da veementi escursioni improvvisative. In Side A troviamo una spiccata attenzione ai dettagli così come alle dinamiche, mentre l'uso privilegiato del clarinetto spinge nella direzione di una sofisticata esplorazione timbrica. Il pianismo atipico di Wiik tra contemporaneità e classicità e la batteria tutta sottigliezze di Chad Taylor risultano gli ingredienti ideali per cucinare il piatto prelibato servito da Mr. Vandermark.
Altro grande set quello che ha visto all'opera il sassofonista e flautista svedese Jonas Kullhamar con i fidi Torbjorn Zetterberg al contrabbasso e Espen Aalberg alla batteria (insieme hanno registrato per Clean Feed lo splendido Basement Sessions - Vol. 1) qui affiancati dal giovane sassofonista norvegese Jorgen Mathisen. La musica si muove tra riff assassini, vampate incendiarie, momenti più meditativi sempre, comunque, sul filo del rasoio. Kullhammar è più vicino alla tradizione del free declinata con uno spiccato senso narrativo, Mathisen introduce una stimolante compostezza nordica, con interessanti risvolti di ricerca timbrica mai banale. Aalberg è implacabile alla batteria, Zetterberg è una vera rivelazione al contrabbasso con il quale alterna poderoso sostegno ritmico e soavi divagazioni di sofferta intimità. Senso dell'avventura, carica energetica contagiosa e organizzazione sonora sono gli ingredienti che esaltano la performance.
Ritroviamo il giovane contrabbassista svedese in duo con la trombettista Susana Santos Silva, già ospite nella scorsa edizione del Festival con l'interessante progetto denominato Lama. Il set si rivela un oasi di pace e di meditazione nel turbinio vorticoso e assordante della maggior parte delle altre proposte musicali. I volumi sono talvolta appena percepibili, il dialogo si sviluppa in atmosfere rarefatte seguendo, più che un riconoscibile filo narrativo, sensazioni e umori, respiri e vibrazioni. È una proposta musicale sofisticata ma anche coraggiosa, ricca di sfumature e di buone idee che con qualche graffio in più potrebbe decollare definitivamente.
Al Festival partecipa pure una sparuta, seppur qualificata rappresentanza italiana. Parliamo del contrabbassista Giovanni Maier e del violinista Emanuele Parrini, membri del quartetto del talentuoso sassofonista sloveno Cene Resnik. I due contribuiscono da par loro, Maier esibendo tecnica e cuore, fantasia e rigore esecutivo, Parrini scatenandosi in una sabba di corde, a volte eccessivo, e comunque entrambi funzionali all'esuberanza del sassofonista di casa, splendidamente "controllata" dal drumming dell'esperto Aljosa Jeric. Musica rabbiosa, a tratti violenta, carica di urgenza espressiva lontana da derive manieristiche e da cliché.
Ancora Portogallo con il Rodrigo Amado Motion Trio + Luis Lopes. Amado è personaggio di riferimento della scena impro lusitana e Lopes è chitarrista atipico e innovativo. Supportati dal genio percussivo di Gabriel Ferrandini e dalla sregolatezza del violoncellista Miguel Mira i quattro danno vita al concerto più devastante della rassegna. Non inganni il tono caldo e vibrante con il quale il tenore di Amado da il là alla cerimonia perché in un batter d'occhio ti ritrovi catapultato in un caos assordante tra bordate di sovracuti e urla lancinanti e letteralmente investito dalla chitarra secca, metallica, trasfigurata da distorsioni impossibili di Lopes. Alla fine una boccata d'aria sulla terrazza del Cancariev Dom si rivela vitale.
Da ricordare brevemente: il trio del batterista sloveno Dre Hocevar, un po' farraginoso e inesperto, incerto tra classicismo, loop ed elettronica ma con un giovanissimo pianista, il belga Bram De Looze, autore di qualche sortita interessante, la fusion piuttosto datata, tra drum 'n' bass e sonorità ottomane, del quartetto di Ilhan Ersahin ed il duo sperimentale, metafisico, tra l'arpa preparata di Eduardo Raon ed il contrabbasso di Tomaz Grom.
Chiusura spettacolare (all'arena Krizanke naturalmente) con più di una strizzatina d'occhio al pubblico - e che diamine non sarà mica un delitto - con l'esibizione del David Murray Infinity Quartet feat. Macy Gray. Il sassofonista di Berkeley, noto per la sua militanza nel World Saxophone Quartet, e autore di notevoli album per Black Saint, ha incrociato sax tenore e clarinetto basso con la voce (davvero originale) e la presenza scenica (da vera diva del soul) di Macy Gray. Lo show ha portato all'entusiasmo le oltre mille persone presenti con tifo da stadio e call and response tra la Gray e il pubblico, omaggiato con tanto di bis al termine di due ore che hanno lasciato da parte i percorsi tortuosi dell'improvvisazione per un liberatorio sabba finale.
Foto di Nada Zgank / Ljubljana Jazz Festival.
La logistica del reportage da Lubiana è stata resa possibile dall'ufficio Turizem Ljubljana.
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