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Keith Jarrett - Gary Peacock - Jack DeJohnette

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Auditorium - Roma - 18.07.2010

Da anni ormai i concerti di Keith Jarrett fanno parlare più per argomenti che poco hanno a che fare con la musica piuttosto che per la qualità della sua proposta artistica. Le intemperanze del pianista, così come gli atteggiamenti del pubblico che le provocano, riempiono le cronache al posto di un'analisi strettamente musicale della performance.

Fortunatamente, al concerto presso l'Auditorium romano, ultima tappa di un breve tour italiano che ha toccato anche Ravenna e Bergamo, inserito all'interno di un gruppo di date in Europa, il pubblico da tutto esaurito (tra i presenti anche Manfred Eicher, patron ECM, in compagnia di Ralph Towner) si è comportato bene, rispettando la volontà di Jarrett di astenersi dal fotografare o riprendere il concerto, ripetuta ossessivamente in italiano e in inglese da un'annunciatrice all'inizio di ciascun set. Sarà anche per questo che il pianista è sembrato sciogliersi abbastanza in fretta nel corso dell'esibizione, proponendo la sua musica in modo ispirato (sempre assistito dai due validissimi partner), e concedendo due bis ("God Bless the Child" e "When I Fall in Love") dopo i due tempi regolamentari di 40 minuti ciascuno che hanno costituito il corpo principale del concerto, con una decina di brani senza sorprese divisi tra ballad e bop (tra questi ultimi, "Now's the Time" e "Joy Spring").

Che dire della musica? Effettivamente, la scelta del formato e del repertorio impostata nel lontano 1983 all'inizio dell'avventura dello Standards Trio limita di molto le possibilità di sviluppo musicale, praticamente assente in tutti questi anni ad eccezione delle sporadiche escursioni nel territorio dell'improvvisazione totale, documentate su dischi come Inside Out e Always Let Me G' (che rappresentano appunto delle eccezioni); anche se ogni concerto nasce e cresce sempre spontaneamente e senza troppe premeditazioni (ogni scaletta è differente) nel tentativo di raggiungere quella dimensione musicale magica data dalla perfezione dell'interazione tra i musicisti e dal continuo affinamento dell'interpretazione tendente a ottenere un distillato purissimo dell'essenza stessa della musica.

Questo è il vero evento dinanzi a cui si pone il pubblico, sperando ogni volta di venire trasportato in quella dimensione insieme ai musicisti, e ciò che lo rende diverso da qualunque altro concerto di piano trio. E' un rito di purificazione estetica cui si prende parte, più o meno consapevolmente, e che non può non lasciare qualcosa agli animi più sensibili e predisposti.

In questo senso, il concerto ha lasciato pienamente soddisfatti. La magia del pianista si è rivelata in tutto il suo splendore catturando il pubblico in un modo che non molti altri musicisti sono in grado di replicare. Da sottolineare la prova maiuscola del batterista Jack DeJohnette, sempre più essenziale nel suo accompagnamento basato principalmente sui giochi ritmici sui piatti, e un Gary Peacock più tonico e prestante nei suoi assoli rispetto ad altre occasioni. Anche chi dovesse pensare che quella di questo trio sia routine, deve riconoscere che i tre si muovono ad un livello che ben pochi artisti si possono permettere con la stessa intensità e continuità, giustificando così il fatto di essere punto di riferimento imprescindibile nella storia del jazz e del piano trio.

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