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Intervista ad Arrigo Cappelletti

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Arrigo Cappelletti è pianista, compositore, scrittore e saggista dalla curiosità innata, alimentata da una visione artistica aperta che supera i dualismi e riesce a conciliare mondi apparentemente distanti tra loro. Primo in Italia a formare un gruppo di tango jazz si è ripetuto qualche anno dopo con il fado portoghese. Vanta un rapporto privilegiato con le cantanti, soprattutto se di provenienza non jazzistica, ma non si sente un accompagnatore. Ama il silenzio ma non quello rarefatto e pseudo-mistico di molte produzioni ECM. Considera l'improvvisazione un'arte per difendersi dal banale e dal predefinito, free compreso, ma deve essere sorretta da una componente melodica e discorsiva. In questa intervista, Arrigo Cappelletti ci racconta di questo e di molto altro.

All About Jazz: Partiamo da Metamorphosis il tuo ultimo disco pubblicato. Un lavoro che si intrufola nell'estetica della Leo Records con un lirismo e un senso melodico dell'improvvisazione piuttosto insolito per l'etichetta inglese...

Arrigo Cappelletti: Dall'epoca del mio LP in trio Reflections, venticinque anni fa, sostengo l'idea di un free discorsivo e melodico, fondato sulla frammentazione dei materiali e sulla loro ricombinazione inedita. Il modello, prima ancora di Paul Bley, era Ornette. Non mi sono mai piaciute le ammucchiate atonali o modali, gli urlatori, il fregarsene della narrazione, la coazione a ripetere di certo free che non a caso, sentendosi insicuro, sente il bisogno (inutile) di auto-definirsi "creative music."

AAJ: In Metamorphosis è presente Matt Maneri, grande interprete e teorico del sistema micro-tonale. Come ti sei rapportato con lui e con la sua visione musicale?

A.C.: Tutto è partito dalla collaborazione con Andrea Massaria, chitarrista di grande originalità, colpevolmente sottovalutato in Italia. Con lui cercavamo un violino o una viola per creare un ensemble cameristico ma non algido e rarefatto come in certe produzioni ECM. Lo abbiamo trovato con Mat Maneri, uno dei pochissimi nel jazz a saper usare poche note su quel tipo di strumenti, capace di impiegare il sistema micro-tonale in modo parco e intelligente e di farne risaltare le radici nel blues (non vi appartengono forse le blue-notes?). L'integrazione fra i tre strumenti con l'aggiunta dell'amico batterista Nicola Stranieri ha sorpreso noi stessi e, credo, anche Maneri, che non ha quasi mai suonato in un contesto così fortemente melodico.

AAJ: Sempre in Metamorphosis vi è un brano intitolato "Hendrix". E' un omaggio al grande chitarrista?

A.C.: La citazione è abbastanza ironica e provocatoria, visto che è uno dei brani più rarefatti e puntillisti del CD. Senza nulla togliere al grande Jimi.

AAJ: Parlando di musiche altre vi è il tuo incontro con il tango prima e con il mondo da noi piuttosto sconosciuto del fado portoghese poi. Come si inseriscono all'interno del tuo percorso artistico queste esperienze?

A.C.: Quella per il tango è stata nell'89 una autentica 'cotta.' Avevo perso totalmente la testa e per me in quegli anni il jazz non era pensabile se non a partire dal tango. Sono stato il primo in Italia a costituire un gruppo di jazz-tango (il "New Latin Ensemble") invitando a parteciparvi il fisarmonicista Gianni Coscia, il saxofonista Giulio Visibelli, il violinista Maurizio Dehò e il contrabbassista zurighese Haemi Haemmerli e registrando con loro l'album Pianure. Ma non ero soddisfatto. Cercavo un bandoneon e lo trovai a Parigi con Olivier Manoury. Nel frattempo però la passione per il tango si era un po' attenuata e del tango mi erano rimasti i colori, l'uso di certe progressioni armoniche, un fraseggio 'alla Piazzolla' nelle ballads, una tendenza poco comune nel jazz a far sentire il down-beat. Non a caso intitolai il mio primo CD in duo con Giulio Visibelli Freetango, per marcare la distanza ma anche il debito. La stessa storia si è ripetuta dieci anni dopo con il fado portoghese, a stretto contatto con musicisti portoghesi di fado, non di jazz. Attualmente suono ancora occasionalmente con Custodio Castelo (chitarra portoghese) e con la cantante triestina Alessandra Franco le canzoni che scrissi dieci anni fa su testi portoghesi e che registrai a Lisbona nell'album Terras do risco.

AAJ: Nel periodo 1991 - 1994 hai collaborato con Mia Martini. Cosa ricordi con piacere di quel periodo ?

A.C.: La personalità di Mimì, la sua visceralità e il suo anticonformismo. Voleva realizzare con me un progetto su Tom Waits. Purtroppo non ne ha avuto il tempo.

AAJ: In generale qual è il tuo rapporto con le cantanti?

A.C.: Da quando nell'86 ho incontrato l'americana Pamela Fries, ho collaborato con molte cantanti, soprattutto all'estero come le portoghesi Alexandra e Ana Moura e la russa Polina Runovskaya. Mi interessavano soprattutto quelle di provenienza non jazz, che mi lasciavano inevitabilmente più libero di 'guidarle.' Non sono mai stato un tipico accompagnatore. Le uniche cantanti italiane per cui ho fatto una eccezione sono state la siciliana Gioconda Cilio negli anni '90 e la talentuosissima cantante triestina Alessandra Franco ora. Ma si tratta di due cantanti jazz atipiche, molto aperte nei confronti delle musiche 'altre' ed entrambe amanti della libera improvvisazione.

AAJ: Nel 2005 hai registrato In New York in trio con John Hebert e Jeff Hirshfield, due tra i maggiori protagonisti della scena newyorchese. Che impressioni hai ricevuto dalla realtà musicale della grande mela?

A.C.: Di una grande vitalità e voglia di cambiare strada rispetto ai modelli mainstream e free preesistenti, evidente soprattutto a Brooklyn nell'area del Center for Improvisational Music, diretto da Ralph Alessi, trombettista con il quale ho suonato e inciso e che stimo moltissimo. Registrando il CD in trio con Jeff e John ho avuto la strana impressione di essere io a 'fare l'americano' mentre loro guardavano molto di più all'Europa. A New York con il jazz ormai è difficile vivere e forse per questo molti musicisti praticano strade nuove. Perso per perso... tanto vale darsi alla ricerca! E' un percorso che conosco benissimo...

AAJ: In oltre venti registrazioni come leader ne compaiono solo due per piano solo, una dimensione che sembrerebbe invece assai in sintonia con la tua estetica musicale...

A.C.: Hai ragione. Ma per un musicista introspettivo come me, abituato a guardarsi dentro, gli altri sono indispensabili per sottrarsi alla tirannia dell'io. E poi suonare con gli altri è molto più divertente che suonare da soli. Se volessi essere cattivo (con me stesso) direi anche che è molto più interessante far suonare gli altri come si vuole che non suonare noi stessi come non si vuole. Ma la verità è che l'improvvisazione ha bisogno di stimoli 'esterni' per evitare il rischio della coazione a ripetere.

AAJ: Oltre che comporre e suonare ami scrivere, articoli, saggi, libri. Il primo libro pubblicato, "Il Profumo del Jazz" (Ed. ESI-1999) tratta temi cari a ogni studioso della musica improvvisata (scrittura, improvvisazione, interplay, didattica, etc ). Ritieni che siano categorie ancora valide per una riflessione sul jazz del nuovo millennio? In particolar modo come intendi il rapporto tra scrittura e improvvisazione?

A.C.: Scrivere di musica mi aiuta a fare chiarezza su che tipo di musicista voglio essere. Ritengo inoltre che l'approccio analitico e quello storico- musicologico alla indagine jazzistica abbiano fatto dimenticare un approccio più globale e filosofico. Visto che i filosofi di professione continuano a disinteressarsi del jazz (con l'eccezione dell'amico filosofo americano Arnold Davidson e di pochi altri) non resta che a noi musicisti, per cui l'improvvisazione è una questione vitale, farci carico delle tematiche filosofiche legate al jazz e all'improvvisazione. Quanto al rapporto fra scrittura e improvvisazione, è una di queste tematiche. Ho sempre lavorato a una integrazione fra i due momenti, che miri a una scrittura di tipo fluido e aperto e a una improvvisazione fornita del rigore e dell'organizzazione della scrittura. Qualcosa di simile trovo nell'attuale panorama Chicagoano (terza generazione dell'AACM).

AAJ: Il secondo libro: "Paul Bley: La Logica del Caso" (Edizioni Lepos - 2004) riguarda un musicista a te caro, maestro del non detto, dell'allusione, del non convenzionale, del silenzio. Che importanza riveste tutto ciò nella tua musica?

A.C.: Paul Bley è per me un padre e un maestro. Ho scoperto la sua musica nel '78 e da allora sono sempre rimasto fedele alla sua idea di un superamento degli opposti in musica. Per lui la musica è sintesi: fra tradizione e avanguardia, tonalità e a-tonalità, scrittura e improvvisazione, blues e dodecafonia, free e tango (ma forse qui ci metto del mio...), Puccini e fiordi norvegesi, silenzio e rumore. E a proposito del silenzio, stiamo attenti a non farne un feticcio. Il silenzio è punteggiatura, ordine del discorso, lasciare spazio all'immaginazione. La poetica ECM ne ha distorto il significato dando al silenzio un carattere solenne, rarefatto e pseudo-mistico che non ha nulla a che vedere con la freschezza e la vitalità del jazz.

AAJ: Sei docente di jazz al Conservatorio di Venezia. Cosa ne pensi dell'insegnamento nei Conservatori di una musica che è nata e si è sviluppata in ambienti assai lontani da quelli accademici? Non vi è una sorta di contraddizione?

A.C.: Insegnare jazz è un ossimoro ma estremamente fruttuoso. A patto che non si consideri il jazz come un codice (sistema di regole) chiuso ma come una musica in costante divenire fondata sull'improvvisazione e quindi sul costante ribaltamento delle regole. Può essere una ottima occasione per svecchiare i conservatori ed in effetti è quello che sta già accadendo in alcuni di essi.

AAJ: Col passare degli anni sono proliferate anche le scuole di musica che hanno sfornato e continuano a sfornare tanti musicisti ottimamente preparati ma solo pochi con una vera urgenza espressiva. Tanti dischi ma pochi con qualcosa di nuovo da dire. Qual è il tuo pensiero in proposito?

A.C.: Sono assolutamente d'accordo. In molte scuole di musica si stanno formando tanti replicanti, in grado di suonare tecnicamente bene ma mortalmente noiosi. Persino Monk hanno fatto diventare accademia! Figuriamoci Charlie Parker, il cui linguaggio in effetti è più facile ricondurre a un codice. Forse bisognerebbe insegnare non regole ma strategie. E' una nozione più ampia e ha il vantaggio di evocare la metafora della guerra, molto utile per comprendere l'improvvisazione, che in effetti è una guerra per difendere se stessi dal banale, dal pre-definito, dal vergognosamente kitsch.

AAJ: Rimanendo in ambito didattico, nel passato hai vissuto il rapporto insegnante/allievo per la filosofia, ora per la musica jazz. Qual è la chiave per entrare in comunicazione con i giovani e farne uscire le infinite risorse spesso sopite?

A.C.: Ho sempre creduto nell'instaurarsi di un rapporto personale con l'allievo. Perché questo avvenga è indispensabile scendere dal piedestallo e mettersi in gioco, confrontandosi con lui a tutti i livelli. Bisogna ammettere di avere molte cose da imparare sul piano musicale anche dall'allievo e non disconoscere i propri limiti. D'altra parte che cos'è l'improvvisazione se non riuscire a lavorare in modo intelligente sui propri limiti? C'è poi il bisogno di non imporre all'allievo, purché dotato, modelli pre-costituiti ma aiutarlo a seguire le proprie tendenze. Si torna in sostanza alla maieutica socratica e anche questo è un modo di riconoscere i propri limiti.

AAJ: Filosofia e musica, un binomio solo curioso o elemento fondamentale per la tua figura di musicista a 360° gradi?

A.C.: La filosofia mi è indispensabile per conoscere me stesso come musicista. Quello di filosofia e musica non è dunque un binomio curioso ma un modo per uscire dalle gabbie, quella dell'astrazione per il filosofo e quella del professionismo specialistico e ottuso per il musicista.

AAJ: Progetti attuali e futuri ?

A.C.: Sicuramente di portare avanti il progetto Metamorphosis con Maneri, sia in trio sia (senza batteria) sia in quartetto, sia con l'amico scrittore e disegnatore satirico Furio Sandrini (alias Corvorosso) in qualità di voce recitante. Poi quello di far meglio conoscere il mio quartetto con il saxofonista napoletano Giulio Martino con cui abbiamo appena pubblicato l'album Mysterious per la Leo Records, insieme al contrabbassista Roberto Piccolo e al batterista Nicola Stranieri. Non vorrei poi abbandonare del tutto il mio progetto portoghese con Alessandra Franco (voce), Custodio Castelo (guitarra portuguesa) e Fausto Beccalossi (fisarmonica), fondendolo con la mia passione per la libera improvvisazione. Ma, siccome la mia tendenza è sempre più quella si suonare su strutture aperte e mobili, non posso escludere di tornare a una collaborazione con quei musicisti americani (Ralph Alessi e John Hebert su tutti) con i quali mi riesce di realizzare una interazione senza confini pur mantenendo i piedi ben piantati nel jazz e nel blues. Magari mettendoli in contatto con i musicisti italiani con i quali in questi ultimi anni ho realizzato un solido e duraturo scambio: Giulio Visibelli, Giulio Martino, Andrea Massaria.

Foto di Dario Villa (la prima e la quarta).


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November 2011

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