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Intervista a Giovanni Tommaso, enciclopedia vivente del jazz.

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Parlare con Giovanni Tommaso è come sfogliare un'enciclopedia del jazz; si ha solo l'imbarazzo della scelta di quali argomenti approfondire. Nato a Lucca nel 1941, Tommaso ha cominciato a suonare in pubblico alla metà degli anni Cinquanta. Da allora ad oggi il contrabbassista ha collaborato con innumerevoli protagonisti del jazz mondiale ed ha vissuto in prima persona alcune delle tappe fondamentali del jazz italiano. Nella lunga intervista che segue Tommaso rievoca molti di questi momenti, guidato da quella vitalità, passione e senso critico che hanno sempre innervato la sua musica.

All About Jazz: Partiamo dall'attualità. Hai intitolato Bassoprofilo il tuo ultimo CD. Come mai, considerato il significato riduttivo, se non addirittura dispregiativo, che viene comunemente dato a questa definizione?

Giovanni Tommaso: In realtà il titolo del CD è anche il nome del gruppo che ho da poco formato, Bassoprofilo Trio, e non è solo un'allusione al fatto che io suoni il basso, e che l'amico Gabriele si chiami Mirabassi. È anche un "atteggiamento" musicale che parte dal BASSO, senza porsi vincoli o condizionamenti stilistici. Non a caso andiamo da un brano di impostazione contemporanea ad una mazurka, se pur riletta in maniera personale.

AAJ: Potremmo dire che si tratta di un modo di vedere le cose, per poter attingere da tutte le fonti spontaneamente e con leggerezza, senza un pomposo orgoglio, senza pretese di ufficialità?

G.T.: Mi hai rubato la risposta, è proprio così.

AAJ: Mirabassi e Zanchini, anche per le loro esperienze precedenti, si sono dimostrati i partner ideali. Se non sbaglio prima d'ora non avevi mai suonato assieme a loro ed anche fra loro due non c'era stata una frequentazione assidua. Confermi? Se sì, come sei arrivato a scegliere la loro collaborazione?

G.T.: Infatti non avevo mai suonato con loro. Conosco Gabriele da tempo e l'ho sempre stimato: il suo sound e la sua poetica sono doti eccezionali. All'inizio degli anni Settanta ho scritto decine di ore di musica per le colonne sonore dei film muti che la RaiTv mandava in onda. Quell'esperienza mi è servita per la conoscenza di questo strumento così versatile. Con Gabriele abbiamo fatto una prima lettura del repertorio che volevo realizzare ed è nata subito una grande complicità. Gli ho chiesto qualche suggerimento sulla scelta del fisarmonicista e lui mi ha proposto un paio di nomi con una preferenza per Simone Zanchini. Sono andato su Youtube a documentarmi e quando l'ho ascoltato mi sono detto: "Simone Is My Man"! Creatività, energia, humour e carica espressiva sono le peculiarità di Gabriele e Simone, che contribuiscono in maniera determinante a dare a Bassoprofilo l'impronta originale che cercavo: "grazie ragazzi, siete fantastici!"

AAJ: Rispetto alla consistente identità jazzistica che ha sempre caratterizzato il tuo lavoro, questo progetto rappresenta un'evoluzione o un momento di discontinuità? Un episodio, una parentesi giocosa o un cambio di direzione convinto?

G.T.: Tanti sono i temi musicali che riecheggiano nella mia memoria: li amo tutti, anche per la loro forza evocativa. Alcuni sono lontani dalla tradizione jazzistica e comunque poco adattabili all'organico e al sound dei gruppi che ho avuto, per questo non me la sentivo di proporli... puoi immaginarti il brano "Avanspettacolo" del nostro CD suonato dal mio quintetto Apogeo? Oggi con il disinibito Bassoprofilo Trio è arrivato il momento di proporre questo repertorio. Comunque non rinuncio ad Apogeo e a un paio di situazioni musicali che ogni tanto propongo; non sono certo il primo musicista che ha diversi progetti in ballo.

AAJ: Ripartiamo ora dalle tue origini: il Quartetto di Lucca. Quando e come si costituì? Ci puoi ricordare i suoi componenti, il suo repertorio, i suoi successi?

G.T.: Il gruppo si formò verso la fine del 1957 come Quintetto di Lucca: c'erano Antonello Vannucchi al vibrafono, mio fratello Vito al piano, Gaetano Mariani alla chitarra e Gianpiero Giusti alla batteria. Insieme ad altri amici appassionati di jazz riuscimmo con molta fatica ad aprire un Circolo del Jazz. Organizzavamo conferenze monotematiche, jam-session (ogni tanto riuscivamo a coinvolgere anche qualche jazzista americano che prestava servizio militare a Livorno), qualche concerto e a carnevale feste da ballo per tirare su un po' di soldi. Suonavamo sempre noi del Quintetto, naturalmente gratis.

Avevamo un sound piuttosto originale, una via di mezzo tra George Shearing e il Modern Jazz Quartet. All'inizio suonavamo un repertorio arrangiato di standard. Nel 1958 in un concerto al Circolo accompagnammo il clarinettista Bill Smith, che ci volle con lui al Festival del Jazz di Roma, dopo pochi giorni al Teatro Quirino. Alla fine del concerto la giuria doveva consegnare una coppa al miglior gruppo. Vinse il Quintetto Basso-Valdambrini, ma per noi venne inventato un premio come "i nuovi astri del jazz". Questo exploit fece parlare di noi e all'inizio del 1959 fummo invitati al prestigioso festival del jazz di San Remo. Facemmo anche un lungo tour accompagnando Chet Baker.

Il 5 dicembre dello stesso anno partimmo per gli Stati Uniti. Io non ero mai stato fuori dall'Italia e arrivare in nave a New York fu uno sballo totale. Ero determinato ad andarci e fui io a trovare la scrittura che c'impegnava per sei mesi a suonare su una nave durante le crociere nei Carabi. Ogni dieci giorni tornavamo a New York e avevamo due giorni liberi. A detta di tutti la scena newyorchese raggiunse in quel periodo la sua punta più alta. Nei club c'erano sempre due gruppi per sera: ebbi così la possibilità di ascoltare dal vivo il grande quintetto di Davis con Coltrane e compagni, i Messengers di Blakey con Shorter e Lee Morgan, Lennie Tristano con Konitz, Cannonball Adderley e tanti altri ancora. Per me fu come andare all'università.

Quando tornammo in Italia mi si aprì l'opportunità di suonare con alcuni grandi jazzisti americani, che allora arrivavano in Europa senza la propria sezione ritmica. Si era sparsa la voce che c'era un ragazzino italiano che suonava come gli americani (così dicevano) ed ebbi la fortuna di accompagnare artisti del calibro di Sonny Rollins, Dexter Gordon, Johnny Griffin, Gil Evans, Don Byas, Gerry Mulligan, Max Roach, John Lewis, Elvin Jones, Kenny Clarke, Lionel Hampton, Mary Lou Williams, Joe Venuti...

Quando Mariani, il nostro chitarrista, si trasferì a Roma, proseguimmo come Quartetto di Lucca. Vito e Antonello cominciarono a scrivere (anch'io successivamente) composizioni originali molto strutturate e, grazie anche alle estenuanti prove, avevamo raggiunto un grande affiatamento. Ovviamente il sound era simile a quello del Modern Jazz Quartet, ma eravamo riusciti ad ottenere una nostra fisionomia. Molti i concerti e qualche importante riconoscimento, come la vittoria della Coppa del Jazz 1961/62, organizzata da Adriano Mazzoletti per la Radio Rai. Durò fino all'estate del 1966, quando con un po' di travaglio e direi anche con coraggio decisi di lasciare il gruppo. Fu la fine del Quartetto Lucca.

AAJ: Nei primi anni Sessanta hai suonato anche con Gato Barbieri (anzi Lee Gato Barbieri, come si leggeva allora sulle locandine), col quale ti esibisti anche al Bologna Jazz Festival. Puoi rievocare il tuo incontro con Gato, che allora era ancora giovane e sconosciuto?

G.T.: Quando Gato arrivò in Italia suscitò le reazioni contrastanti che prima erano toccate a Coltrane, con l'aggravante di essere criticato come clone del grande Trane. Ci volle del tempo perché ottenesse riconoscimenti, grazie anche alla sua maturazione stilistica.

Conobbi Gato nel 1961 o '62 a Milano, dopo un concerto del quartetto di Coltrane. Qualcuno improvvisò una jam-session al club Santa Tecla, dove il Trio di Amedeo Tommasi, di cui io e Franco Mondini facevamo parte, avrebbe dovuto suonare insieme a Gato alla presenza dei musicisti del quartetto di Coltrane.

Feci il viaggio in macchina seduto accanto a McCoy Tyner, che mi parlò per tutto il tempo di spiritualità. Arrivati al club mi ritrovai seduto accanto a Trane e sua moglie Naima. Un complesso di musica da ballo (allora si diceva così) suonava un repertorio di cha cha cha e latins, ma per John era tutt'altro. Mi disse in un orecchio: "this music has such a strong italian flavor". Che dire, alle sue orecchie suonava così: ricordo che mi fece un po' di tenerezza. Poi qualcuno ci chiamò sul palco e con Gato suonammo un set totalmente improvvisato. Ascoltare Gato suonare una musica che riecheggiava il Coltrane del dopo Miles Davis Quintet mi fece una strana impressione. Guardai in faccia Trane per leggerne la sua reazione, ma non ci riuscii. Comunque fu un successo e con Gato diventammo amici; fu ospite del Quartetto di Lucca in qualche concerto.

Lo ritrovai a Roma al club del ristorante Meo Patacca, dove m'invitò a suonare per qualche giorno. Aveva già il suo sound aggressivo e potente e stava in una fase di transizione, che l'avrebbe portato dal free a quel "latin jazz" che diventò il suo stile inconfondibile. Suonai con lui di tanto in tanto in varie situazioni fino a quando tornò a Roma e venne ad abitare a casa mia per un po.' In seguito ebbe l'occasione che gli cambiò la vita: le musiche di "L'ultimo tango a Parigi". Mi chiamò per registrare la colonna sonora insieme a Charlie Haden (voleva 2 bassi), ma purtroppo io ero occupato. Fortunatamente mi chiamò per registrare la versione discografica delle stesse musiche, ma al posto di Haden c'era Jean-Francois Jenny-Clarke. Tornò a New York dove tuttora vive. Ci siamo incontrati lo scorso anno al festival di San Juan di Portorico (io suonavo con Apogeo): era in grande forma e abbiamo fatto una simpatica rimpatriata.

AAJ: Dieci anni più tardi: il Perigeo. Chi è stato l'ideatore e animatore di questa formazione? Puoi sinteticamente ripercorrere i suoi successi in quella realtà particolare degli anni Settanta?

G.T.: Nel 1971, a trent'anni, venivo considerato un musicista affermato, ma avevo bisogno di uno scossone; finì il mio primo matrimonio, cambiai stile di vita e trovai in me una forte determinazione a rompere gli schemi della musica che avevo fino ad allora suonato, anche se mi aveva dato così tanto... dopo tutto l'aveva appena fatto anche il grande Miles. Buttai giù solo qualche spunto, che provai con Franco D'Andrea e Bruno Biriaco. Quindici minuti furono sufficienti a convincermi che la strada era giusta. Ero su di giri e, tornato a casa, telefonai all'amico D'Andrea. Parlammo per più di un'ora: gli comunicai la mia intenzione di formare un nuovo gruppo e di volermi rivolgere a un pubblico di giovani, senza riguardi per "l'establishment" del jazz. Quando si tratta di scelte musicali Franco è un fondamentalista: se ci crede ha forza e coraggio. Accettò! Biriaco fu il secondo che contattai, poi arrivarono Tony Sidney, chitarrista americano che abita a Firenze, e Claudio Fasoli al sax. Nacque così il Perigeo.

Il nostro debutto ufficiale per presentare l'album Azimut fu di pomeriggio al Piper di Roma, allora il tempio della musica della nuova generazione. Era di moda fare un dibattito col pubblico alla fine del concerto e avemmo l'impressione di trovarci nell'arena del Colosseo in attesa che il pubblico mostrasse il pollice, giù o su? Un ragazzo con l'aria da saputello (era un giovanissimo Marcello Piras, che sarebbe diventato un grande musicologo) ci disse che in fondo suonare un brano in 7/4 (si riferiva alla title track "Azimut") non era poi una grande novità perché l'aveva già fatto Max Roach. Fortunatamente la maggior parte delle altre domande mostravano curiosità nel riconoscere nelle cose che facevamo i parametri del rock, a loro familiari. Certo la matrice rock l'avevano recepita (certi groove, il suono della chitarra nei soli di Tony e forse qualche mio strano intervento vocale), ma erano un po' "spiazzati" su certe progressioni armoniche e sul linguaggio solistico. Comunque dalle domande dei ragazzi capii che c'era voglia di sapere da dove venisse quella musica e questo mi diede la convinzione che il dialogo con la nuova generazione era cominciato! Mai più mi sarebbe capitato di avere una così netta sensazione di trovarmi "nel posto giusto al momento giusto". Il desiderio di aggregazione di quella generazione portò alla nascita dei cosiddetti "raduni" dove confluivano migliaia di giovani (al Parco Lambro di Milano ne stimarono 120.000!). Si poteva ascoltare qualsiasi tipo di musica; esserci con il nostro jazz-rock favorì l'ascesa del Perigeo.

Alcuni eventi fuori dall'Italia ci dettero una visibilità internazionale. In particolare le due settimane al Ronnie Scott's di Londra (venivano ad ascoltarci tutte le sere musicisti della scena londinese), il tour in Europa con i Weather Report (che esperienza!) e anche alcune esibizioni negli Stati Uniti. Subito dopo il nostro ultimo album, Non è poi così lontano, registrato a Toronto e prodotto dalla RCA America, arrivò al 100º posto negli USA (non era così facile come può sembrare). In Italia invece ci piazzammo al 10º posto della Hit Parade (quella del Pop per intenderci). Inoltre apparizioni televisive (per ben due o tre volte anche al TG1), radio, copertine di riviste... tutto fece sì che ai nostri concerti ci fosse spesso il tutto esaurito.

AAJ: E da cosa dipese lo scioglimento del gruppo?

G.T.: Si trattò di una vera beffa; prima tanta fatica per arrivare, poi, quando fu l'ora di raccogliere i meritati frutti della raggiunta popolarità, ecco che arriva la parte più ingiusta e incondivisibile della contestazione giovanile: non pagare il biglietto d'ingresso e provocare danni anche di grande entità. Gli ultimi tour erano autogestiti e il nostro manager si ritrovava a dover rimborsare tutti questi danni per cui alla fine rimanevano solo poche lire da dividerci. Questi colpi bassi alla lunga ci fiaccarono. Inoltre, come sempre faccio, seguii il mio istinto che in quel periodo mi diceva che c'era il pericolo di una flessione di creatività; così, prima che si verificasse, decisi di sciogliere il gruppo nell'estate del 1977.

La dimostrazione che abbiamo lasciato qualche traccia importante nella storia della musica italiana è che dopo ben trentaquattro anni i nostri CD si vendono ancora in tutto il mondo e in qualche semestre i rendiconto segnano punte di quattro-cinquemila copie. Oggi con questi numeri torneremmo nella Top Ten!

AAJ: Nei primi anni Ottanta ci fu anche l'esperienza del New Perigeo, che comprendeva i giovani Maurizio Giammarco e Danilo Rea. Ho l'impressione che questa nuova formazione non ebbe il peso ed il successo della prima edizione del gruppo.

G.T.: La tua impressione è giusta, ma come dico sempre "ogni musica è figlia del suo tempo". Gli anni Ottanta sono stati un periodo di euforia ed evasione, un po' come gli anni Trenta. Nelle mie intenzioni c'era quella di creare uno stile che chiamai "new wave jazz," ma per una serie di fattori (il tour con Cocciante e Rino Gaetano prodotto dalla RCA, qualche scelta sbagliata nel repertorio...) New Perigeo si rivelò poco "entertaining" per i fans dei cantanti citati e troppo poco "impegnato" per i più esigenti. Detto questo, devo aggiungere però che con quei musicisti "gli davamo giù duro!"

AAJ: Cosa risponderesti ad un promoter che ti chiedesse di ricostituire oggi il Perigeo con i membri originari?

G.T.: A dire la verità qualcuno si era già fatto vivo, ma l'unico modo per considerare questa possibilità sarebbe di avere una seria copertura, e non solo economica, che garantisse quel prestigio che con tanta fatica eravamo riusciti a ottenere e che per niente al mondo vorrei pregiudicare.

AAJ: Alla metà degli anni Ottanta suonavano con te i giovani Paolo Fresu e Danilo Rea assieme a Massimo Urbani. Ti chiedo un ricordo di quest'ultimo.

G.T.: Massimo era un cavallo di razza. Nel repertorio post-boppistico era uno dei più forti in assoluto. Ricordo che in quel periodo suonammo a Umbria Jazz e qualche settimana dopo andai in vacanza in California con la mia famiglia (mia moglie Kelly è californiana); leggendo l'edizione domenicale del Los Angeles Times, nella prima pagina dell'inserto dello spettacolo trovai una foto di tre quarti di pagina con il mio Quintetto! Con enorme stupore e orgoglio lessi l'articolo scritto dal grande Leonard Feather: affermava che era molto meglio per lui ascoltare Massimo che i grandi del jazz. Quelli li conosceva bene, ma un talento come Urbani costituiva per lui una grande e piacevole sorpresa.

Il repertorio di quel quintetto comprendeva solo brani di mia composizione; erano etichettati come post-bop, ma alcuni erano decisamente più moderni. In quei casi l'istinto naturale di Massimo lo guidava anche in territori a lui non proprio congeniali. Bastava che sentisse qualche accordo più inusuale per adeguare all'istante il suo fraseggio. Aveva fama di persona poco affidabile, ma con me fu sempre corretto e professionale.

AAJ: Tu hai attraversato più di cinquant'anni di jazz, conoscendo e collaborando con vari maestri stranieri. Quali sono stati gli incontri più positivi e stimolanti?

G.T.: Tutti i grandi musicisti hanno qualcosa da insegnare. Qualcuno di loro mi ha impressionato per le peculiarità musicali, altri per quelle caratteriali, umane, esistenziali, filosofiche, spirituali e anche umoristiche. Non è raro che alcuni di questi posseggano tutte queste doti. Potrei citare Sonny Rollins, Gil Evans, Max Roach, Dexter Gordon... Altri ancora mi suscitavano un grande stupore; per esempio non sono riuscito mai a capire come Don Byas facesse a suonare così bene dopo essersi scolato una bottiglia intera di vodka. Forse faceva come Zoot Sims, che, secondo la barzelletta che mi raccontò Tommy Flanagan, ad un giovane musicista che gli chiede come possa suonare così bene pur essendo così ubriaco risponde: "oh, that's because I practice drunk!"

AAJ: Con alcuni di loro, ci sono stati invece casi di scontro, disaccordo o incomprensione?

G.T.: Posso raccontare per esempio questo fatto. Una volta, prima del concerto in cui D'Andrea, Biriaco ed io (il trio del Perigeo) dovevamo accompagnare Slide Hampton e George Coleman, mentre eravamo a cena Coleman mi diceva che c'erano troppi giovani jazzisti che non conoscevano bene "il linguaggio" del jazz classico e che per essere considerati da lui bisognava essere in grado di suonare "Cherokee" in tutte le tonalità. Dopo un breve silenzio, col caratterino che mi ritrovo osai contraddirlo sostenendo che se così fosse il jazz si sarebbe fermato nel 1949. Lui si arrabbiò e chiese l'approvazione di Slide, che prima esitò, poi disse che forse io non avevo tutti i torti.

Risultato: appena saliti sul palco del Music Inn di Roma Coleman ci disse: "let's play Cherokee, every chorus one fifth up!". Ebbi giusto il tempo di suonare la carica a Franco e Bruno: "ragazzi, spacchiamogli il culo!". Lui staccò un tempo impossibile, uno dei più veloci che io abbia mai suonato. Dopo il suo solo funambolico e muscolare e quello di Slide toccò a Franco, che fece un solo pazzesco, con uno swing bestiale e un fraseggio di una fluidità sorprendente. Poi toccò agli scambi con Bruno e da par suo fece un'ottima figura. Meno male che non fecero fare il solo anche a me. Alla fine ebbi proprio la sensazione che avrei potuto anche dirgli "beccati questa!"; invece con un gesto di pace, girandosi verso di me disse :"and now we can talk about jazz".

AAJ: Cosa ci puoi dire di Apogeo, il quintetto che hai formato nel 2007?

G.T.: Attorno al 2005 stavo maturando l'idea di formare Apogeo, ma ho volutamente atteso il 2007 proprio per iniziare questa nuova avventura nel trentennale dello scioglimento dell'analogo gruppo Perigeo... come se il gioco dei numeri avesse un significato. L'organico, in questo caso "squisitamente" acustico (a parte la chitarra elettrica), è lo stesso, ma con elementi diversi. Questo mi stimolava ancora di più a trovare un sound nuovo: sarebbe stato un vero autogol se avessi cercato di imitare trent'anni dopo un gruppo inconfondibile e non riproducibile come il Perigeo.

Con Apogeo il mio grande impegno è stato di concepire una musica di sintesi che potesse fornire qualche possibile indicazione alla nuova generazione. Molto presuntuoso da parte mia, lo so, ma dopo il nostro debutto, in occasione del live alla Casa del Jazz di Roma, mi sembrava di esserci riuscito (lo scorso anno è poi uscito il nostro secondo CD Codice 5).

Purtroppo facciamo pochissimi concerti, forse anche a causa di alcune difficoltà oggettive (il batterista americano vive a New York e le trasferte costano). Il criterio che mi guida nella scelta dei musicisti è sempre lo stesso: talento, duttilità, spessore umano ed entusiasmo. La mia stima e riconoscenza vanno a questi splendidi musicisti che mi stanno dando così tanto: Daniele Scannapieco al sax, Bebo Ferra alla chitarra, Claudio Filippini al piano, Anthony Pinciotti alla batteria. L'istinto mi ha sempre guidato e forse per questo i miei gruppi hanno resistito a lungo... spero che si verifichi anche nel caso di Apogeo e di Bassoprofilo Trio.

AAJ: Cerchiamo ora di fare il punto sul ruolo del contrabbasso nel jazz moderno e contemporaneo. Oggi ci sono molti contrabbassisti (William Parker, Ben Allison...), che sono validi compositori e leader ancora più che bravi strumentisti. D'altro canto ci sono strumentisti stratosferici: Christian McBride, John Patitucci, Barry Guy, Renaud Garcia-Fons, solo per citarne alcuni di ambiti stilistici molto diversi fra loro (fra l'altro alcuni di questi sono anche grandi innovatori e grandi leader). Riguardo a queste categorie di musicisti-strumentisti puoi darmi un tuo commento?

G.T.: Ai giovani dico che noi bassisti suoniamo sul palco guardando il fondo schiena dei solisti della front-line. Se questo ci crea problemi è meglio cambiare subito strumento. Può sembrare una battuta, ma cerco solo di dire che la nostra gratificazione viene dal contributo che diamo alla musica, e ciò ci dovrebbe bastare. Se questo ruolo ci sembra riduttivo, possiamo sempre provare a formare dei gruppi su misura. Se però diventa un pretesto per fare un sacco di soli si rischia che la musica ne soffra e addirittura diventi un po' noiosa.

Preciso che mi è sempre piaciuto documentarmi sui bassisti virtuosi: come dimenticare Blanton, Slam Stewart, Oscar Pettiford, Ray Brown (il più trascinante), Paul Chambers (la mia grande passione giovanile) e in tempi più recenti i formidabili Christian McBride e John Patitucci! Tra l'altro John ed io siamo da anni diventati amici; quando viene in Italia gli presto spesso uno dei miei strumenti.

La tecnica è una componente importante nel jazz, purché non diventi fine a se stessa. Per esempio Scott La Faro era un virtuoso, ma oltre ad essere uno dei massimi innovatori del linguaggio contrabbassistico era anche un poeta; anni dopo Jaco Pastorius fece un percorso analogo.

Non vorrei dimenticare il sound meraviglioso di un altro poeta come Charlie Haden, "one of a kind". Molti erroneamente credono che non abbia tecnica, invece ne ha, solo che non è appariscente. La cosa più difficile è raggiungere la tecnica che ci serve per esprimerci, niente più di questo. Per esempio Johnny Hodges (l'alto sax di Ellington) e Lester Young erano dotati di una tecnica sofisticatissima, che serviva loro non per fare molte note, ma per raggiungere quella particolare pronuncia ed espressività, con un sound sublime e inconfondibile.

AAJ: In definitiva tu ti ritieni più un leader o un bravo strumentista?

G.T.:Concepire un repertorio per mettere in mostra le proprie doti virtuosistiche è legittimo, anche se la storia del jazz mi dice che ci sono tanti fantastici contrabbassisti e bassisti, ma pochi di questi sono dei grandi leader. Secondo me tre su tutti: Charlie Mingus, Dave Holland e Charlie Haden. Tutti, pur essendo dei giganti nel loro strumento (i primi due in particolare), si ritagliano spazi solistici equilibrati privilegiando l'obbiettivo finale: la Musica! Questo è quello che personalmente ho sempre cercato di fare. Venendo alla tua domanda, non sta a me decidere in quale ruolo io sia più dotato; quello che posso dire è che suonare, comporre e dirigere i miei gruppi rappresentano il mio naturale approccio alla musica. Senza uno solo di questi ruoli non mi sentirei realizzato.

AAJ: Il bebop, il cool, il Soul jazz, il free, il rock jazz, l'etno-jazz... Dopo tutte queste correnti si potrebbe dire che il postmodernismo ha portato ad un jazz di sintesi (etichettiamolo come vogliamo), che in misure diverse intreccia tutti questi precedenti, riproponendoli con disinvoltura?

G.T.: La storia del jazz si è evoluta grazie alle intuizioni innovative di alcuni capiscuola. Come in una staffetta, ognuno di essi ricevendo il testimone correva il percorso più velocemente degli altri. Da tempo sembra mancare un personaggio che abbia quella forza e forse ciò è dovuto al fatto che più si inventa e meno rimane da inventare. Personalmente ritengo il presente estremamente creativo e stimolante perchè ci sentiamo liberi di attingere alle più svariate fonti filtrandole poi con la nostra sensibilità. Non sempre si riesce a fare una musica convincente, ma in alcuni casi qualcuno lascia intravedere che si possa trattare di un "nuovo linguaggio," vedi il quartetto di Wayne Shorter.

AAJ: Secondo la tua esperienza, quando e come il jazz italiano si è riscattato da quello americano e si è imposto a livello internazionale?

G.T.: Da quando i jazzisti italiani hanno capito che saper suonare "bene" il mainstream li avrebbe comunque relegati in serie B. Insieme all'esplosione di nuovi talenti di ottimo livello, la carta vincente è stata la sterzata su territori più informali, attingendo a qualche elemento che abbia maggiori connotati "nostrani" o comunque non statunitensi. Ma attenzione a non fare il jazz "all'italiana," che è tutt'altra cosa. Il jazz ha faticato a diventare un linguaggio universale e ora non dobbiamo coltivare idee "secessioniste".

Foto di JazzInFoto (la prima), Danilo Codazzi (la seconda), Fabrizio Caperchi (la terza), Roberto Ciffarelli (la quarta, la quinta e la sesta)


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