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Festival Jazz di Bruges

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5/8.10.2006

Giunto alla terza edizione, il Festival Jazz di Bruges è un appuntamento irrinunciabile per quanti si attendono dalla musica percorsi non convenzionali. Per la gioia di un pubblico colto ed esigente, si è evitata l’inutile parata di stelle statunitensi per puntare tutto su una spiccata progettualità. L’obiettivo degli organizzatori è rimasto quello di sempre: fare del festival un trampolino di lancio per talenti emergenti ed impreziosirlo con qualche nome di gran richiamo. Ampio è il raggio di stili sonori proposti, che spaziano dall’improvvisazione più libera a soluzioni orchestrali di grande impatto. Sono queste le tessere di un affascinante mosaico, che si è via via arricchito di tanti, preziosi segni.

Oltre alla cornice incantevole (la città di Bruges), una terza carta vincente del festival risiede in una proposta estremamente diversificata: diciannove concerti con artisti provenienti da tutto il vecchio continente; documentari dedicati al jazz belga; una mostra fotografica. E come ciliegina sulla torta, marchin’ band e jam session notturne hanno completato una kermesse musicale votata alla multimedialità, che non ha certo deluso le aspettative dei palati più esigenti.

A cominciare dal concerto inaugurale, pervaso dall’ invidiabile freschezza inventiva dell’alto-sassofonista belga Ben Sluijs e del suo eccellente quartetto. Che è composto da musicisti brillanti ancorché congeniali all’estroversione del leader: Jeroen Van Herzeele al sax tenore, Manolo Cabras al contrabbasso e Marek Partman alla batteria. Un campionario sonoro tradizionale è il terreno di base di una cifra espressiva aperta all’imprevisto e all’indeterminazione, che integra in forme assai diverse composizione ed improvvisazione. È questa una formazione davvero eccellente, meritevole di essere apprezzata su larga scala dal pubblico europeo. Diverse sono le frecce al suo arco: sopraffina tecnica di base; versatilità; dinamismo. Quanto al leader, è ammirevole la sua capacità di rileggere la tradizione con il suo graffiante sax, per arricchirla con l’estemporaneità e la leggerezza dell’improvvisatore.

È stata poi la volta delle orchestre, formate con musicisti di diversa estrazione, per affrontare partiture scritte appositamente per i membri che le compongono. È una musica sapientemente costruita per esaltare le rilevanti potenzialità individuali, tutte eccelse negli Astronotes: tra tutte le molteplici risorse della chitarra di Paul Pallesen; la potenza e la sottigliezza di Jan Willm; la fantasia di Tobias Delius, impegnato al sax tenore e clarinetto. Il repertorio della formazione olandese spazia senza limitazioni di sorta dal jazz al repertorio rock e funkeggiante, ma sempre affrontato in una prospettiva afroamericana. Grazie alle brillanti partiture allestite dal trombonista Joost Buis, l’orchestra adotta soluzioni estemporanee di grande freschezza improvvisativa, coinvolgente e ludiche. Tutti tratti in cui è chiaramente riconoscibile l’eredità mingusiana, che ha elevato a regola l’apertura e l’indeterminazione delle forme del jazz. Eccellente si è rivelata la prova di Buis sul triplice fronte del solismo, la composizione e la guida di questa formazione, che ha sviluppato un rapporto dinamico, aperto con la tradizione afroamericana.

Nel cui alveo si muove maggiormente la Chris Joris/Bob Stewart Band. La varietà e l’ampiezza di esperienze di Chris Joris come arrangiatore si è rivelata fondamentale per rileggere le mille sfumature di un repertorio fresco e brillantem, che è stato rivisitato con un tocco estremamente personale, grazie ad un sapiente uso di modalità tipicamente africane all’interno di un swingante percorso jazzistico. Le strategie di arrangiamento hanno giocato a tutto tondo con le dinamiche ed i contrasti delle sezioni, per liberare a pieno la forza comunicativa di una formazione molto ben assortita. Temi danzanti e vagamenti obliqui nelle armonie hanno costituito il cuore pulsante di un progetto dall’avvincente tensione ritmica, pervaso da un sound di gruppo condotto all’insegna dell’eclettismo. In questo excursus attraverso i ritmi della zona africana sub-sahariana ha giganteggiato Baba Sissoko, capace di fornire la necessaria patina di autenticità al progetto, in cui inspiegabilmente ha poco spazio la tuba di Bob Stewart, chiamato per lo più a raddoppiare le linee ritmiche del basso elettrico.

La dimensione concertistica è sicuramente il modo migliore per cogliere la cifra artistica dei Soweto Kinch, il cui obiettivo è quello di tradurre in musica la rabbia ed il disagio delle classi subalterne nel mondo contemporaneo. Una vibrante espressività ha caratterizzato la prova di questo vivace sestetto, che ha dato vita ad un set trascinante, il cui filo conduttore è dato dai ritmi delle metropoli di oggi. Che sono stati sapientemente inseriti in un contesto policentrico, in cui hanno diritto di cittadinanza varie linguaggi: le asprezze del rock e del rap; la spigolosità dei ritmi funky; il jazz degli anni ’80. E a dispetto di quanto possano pensare i puristi, questa composita miscela di stili riesce meglio di un mainstream jazz ad esprimere la frenetica vita dei nostri tempi.

Una musica fluida per esaltare il collettivo e l’interpretazione improvvisata. È questo il filo conduttore di un set molto ludico e coinvolgente, di cui si è reso protagonista il gruppo francese Tous Dehors. Già l’articolazione timbrica del suo tessuto strumentale la dice lunga sugli imprevedibili, gustosi percorsi su cui si muovono gli undici elementi guidati dal sassofonista Laurent Dehors: fiati a profusione; bandoneon; marimba; canto; ampio dispiegamento di chitarre; l’uso della doppia batteria; l’incedere quasi chitarristico del contrabbasso. Il tutto per costruire un percorso orchestrale avvincente, che si fonda su alcuni parametri quali l’indeterminatezza elevata a regola d’arte; la costruzione paritetica di un sound goioso e dinamico, in cui tutti gli strumenti concorrono con pari dignità allo sviluppo solistico; una costruzione estremamente democratica degli strumenti per dissacrare i confini naturali delle forme jazzistiche. È questa la carta vincente di una formazione eccellente, cui piace costruire semi-improvvisati giochi polifonici tra sezioni diverse. Per poi condire il dinamico andamento concertistico con effetti di accelerando, o ancora slittamenti tra tempi binari e ternari più tipici del jazz orchestrale. Ed in più, il gusto di rivisitare la tradizione con l’autoironia, che da sempre caratterizza l’avanguardia nordeuropea del jazz.

Due tromboni (Konrad e Johannes Bauer) e due chitarre (Helmut Sacche e Uwe Kropinsky), per rivitalizzare l’estetica jazzistica alla luce di trasversali concezioni armoniche. Fondati su un tessuto non lineare, i loro intriganti brani si discostano spesso dalla classica esposizione jazzistica (esposizione tematica, sviluppo e improvvisazione e ritorno al brano) per reggersi su una struttura contrastante a più armonie. Fortemente radicato nella pratica contemporanea europea, lo stile del gruppo si avvicina al jazz grazie alla pratica dell’improvvisazione, condotta con assoli di rara visceralità. Altre ancora sono le caratteristiche di fondo di questa interessante formazione: gli assoli fulminanti dei tromboni, gli squarci ironici e dissacratori delle chitarre; la carica prorompente del collettivo.

Il tessuto polifonico; la stratificazione dei temi; una pratica musicale libera ed aperta. Sono queste le chiavi di lettura del set di Sylvain Kassap. Clarinettista dalla voce vociferante, Kassap ha proposto un pecorso di non facile leggibilità e a tratti monocorde, che lascia ampio spazio a soluzioni minimaliste. Il tutto affrontato con un perizia sopraffina, che sintetizza i risultati del free jazz storico con le suggestioni della musica accademica contemporanea. Composizione ed improvvisazione convivono senza soluzione di continuità in un percorso dall’andamento circolare, in cui ha il meritato spazio la voce scura, d’austero rigore formale del violoncellista Didier Petit.

Lontano dalla provocatoria imprevedibilità dei gruppi già citati, il sestetto del trombettista lussemburghese Ernie Hammes ama esplorare i territori più sicuri ma non meno suggestivi dello swing. Su un tessuto musicale ricco di variazioni contrappuntistiche nei tre fiati, spicca la tromba calda del leader e la tecnica superlativa del pianista Pierre Alain Goualch, già messa al servizio di ragguardevoli incisioni a suo nome.

Non ha nemmeno vent’anni, ma il tenor-sassofonista ungherese Gabor Bolla è già un apprezzato solista della Vienna Art Orchestra. La sua bravura è ben percepibile dalla scioltezza con cui dipana messe di figure ritmico-melodiche. Come già detto per altri giovani talenti in erba, anche Bolla deve abbinare all’indubbia maestria tecnica una adeguata cifra stilistica personale, che data la giovanissima età ancora non si intravede. Intanto si muove su eccellenti livelli mainstream il suo quartetto ungherese, che asseconda al meglio il fraseggio ricco di sfumature timbriche del leader.

Su buoni livelli il set del sassofonista belga di origini italiane Pierre Vaiana, alla guida di un quintetto in cui spiccava la presenza del percussionista Baba Sissoko. Volto ad una colta ricognizione di vari linguaggi etnici che spaziano dall’Africa alla Sardegna, il suo progetto trova la sua chiave di volta in un tessuto percussivo a 360 gradi, che esalta la straordinaria abilità del nostro Carlo Rizzo e del già citato musicista del Mali. Parimente azzeccata è la proposta del trio tutto portoghese TGB, anche per via dell’inedita formula con tuba, chitarra e batteria. Provenienti da esperienze legate al jazz tradizionale degli anni ’20, i tre musicisti privilegiano la dimensione collettiva di una pratica musicale gioiosa, intessuta interamente della esperienza postboppistica. Un’altra chiave di lettura di questa performance va ricondotta alla percepibile voglia di interagire gioiosamente su un terreno estremamente godibile, a tratti arricchito da armonie chitarristiche di marca friselliana. Niente prove muscolari ad effetto per privilegiare la chiarezza espositiva di una musica di grande fascino, che rivive magnificamente grazie a tre musicisti di talento ma discreti: Sergio Carolino alla tuba, Mario Delgado alla chitarra e Alexandre Frazao alla batteria.

Senza infamia e senza lode la prova del trio danese Koppel/Andersson/Riel. Imperniata sui voli sassofonistici di Koppel, il loro set è scivolato via senza molta fantasia tra una sequela di standard e brani originali non trascendentali. Dei tre si è messo maggiormente in evidenza Alex Riel, grazie a costrutti percussionistici dalla logica ferrea e solida. Costituitosi nel 2004, il duo formato da Nathalie Loriers e Karim Baggili si distingue in virtù di una raffinatissima ragnatela di melodie. Due musicisti dalla diversa formazione trovano il loro comune esperanto nei suoni del bacino del Mediterraneo, debitamente riarmonizzati da questo avvincente gioco contrappuntistico tra oud e pianoforte. Un duo che ama continuamente mettersi in gioco, alla ricerca di nuovi orizzonti da esplorare. Tratti per lo più da un loro recente disco in quintetto (L'arbre pleure, i brani in scaletta assumono inevitabilmente un andamento cameristico, che si proietta su vari orizzonti: il linguaggio modale della tradizione mediorientale; gli innesti dell’improvvisazione jazzistica; l’estatica, sognante atmosfera di armonie balcaniche. La loro è una poetica libera ed aperta, per realizzare un ponte d’incontro tra vari metacodici, che si nutre di un legame incessante con la tradizione e che valorizza al massimo il sentire individuale di due artisti estremamente creativi e disposti al rischio.

Incolore il set del duo Jeff Neve/Pascal Schumacher, condotto sulla scia di un raffinato elegante tappeto sonoro, che ricalca stancamente il modello Burton/Corea degli anni ’70. E pur essendo tecnicamente preparati, i due jazzisti sono stati - almeno qui - passivi dispensatori di moduli stilistici ampiamente codificati, senza mostrare una personalità forte e definita. Di ben altro livello è stata la prova della coppia italo-inglese, costituita dalla nostra Rita Marcotulli al piano e Andy Sheppard al sax tenore. L’eccelsa tecnica individuale e la consumata abilità nel destreggiarsi a tutto tondo tra diverse atmosfere hanno fatto la differenza rispetto alla deludente prova del duo belga-lussemburghese, rendendo questo incontro qualcosa di diverso rispetto ad un elegante deja-vù jazzistico.

Una scoppiettante kermesse destrutturante affidata al libero gioco dell’estemporaneità. Si potrebbe definire così il concerto di Misha Mengelberg, ancora una volta protagonista di una prova maiuscola ancorché aperta alle soluzioni più disparate: il mondo delle dissonanze monkiane; l’accademia europea ripresa nei temi ma letteralmente destrutturata alla luce di colorazioni jazzistiche degli anni ’30. E poi c’è sempre il mondo rarefatto, classico della sua formazione musicale fatto a pezzi con fioriture di ostinati e virate improvvise, che tengono sempre sul chi va là l’attenzione dell’ascoltatore. Il tutto condito da una sapienza tecnica che ha reso questo concerto davvero memorabile. A fronte di tanta genialità, è stato difficile ascoltare le altre prove pianistiche in programma. A cominciare da quella di Bobo Stenson, apparsa un po’ stucchevole dall’alto del suo rigore formale, in cui nulla è fuori posto. Atmosfere rarefatte e cristalline per comporre un itinerario di grande nitore, in cui la melodia ha la meglio sul resto delle componenti musicali. Un’olimpica perfezione molto piacevole ma poco coinvolgente, che alla lunga sfocia in una noiosa meccanicità. Consigliabile a chi soffre di insonnia, al posto della camomilla.

Messo a confronto con la distesa forza melodica di Stenson, più vario è l’universo musicale del pianista Jean-Micheal Pilc, emergente artista di punta della Dreyfus. I suoi temi sono costellati di piccoli frammenti che si avvolgono a spirale lungo un asse verticale molto frastagliata. Che partendo inevitabilmente dal modello monkiano, sfocia in una cifra stilistica ad “n dimensioni”, ricca di repentine quanto nervose rotture tematiche. Il tutto condito con divagazioni metricamente complesse ed imprevedibili.

Ha chiuso la rassegna il concerto di Stefano Bollani, attualmente il nostro jazzista più popolare ed apprezzato in Belgio, insieme a Paolo Fresu. Tecnicamente ai vertici del piano jazz italiano, Bollani ha messo anche qui in mostra le sue doti di orchestratore, magistralmente sostenute da un prezioso pensiero armonico. Incentrato sulle musiche de I Visionari, il suo progetto si fonda più sull’esplorazione degli impasti fiatistici che non sulle poderose cavalcate pianistiche. Cambiano le dinamiche ma non l’elevata qualità della musica, più attenta alle architetture geometriche ed alle dinamiche di gruppo. E poi c’è la cantabilità tipicamente italiana, come trait-d’union ideale per tenere in equilibrio una ricerca del suono ricca, dettagliata ma mai patinata.

Ma i ricordi più vividi del recensore si dividono tra varie suggestioni sinestetiche: il bel documentario sul jazz belga tra gli anni ’50 e ’90; le tele di Magritte come sfondo ai concerti mattutini, all’interno del Groningenmuseum; i set di Mengelberg e delle straordinarie orchestre sopra citate.

Foto di Jempi Samyn (C.Joris), Bob Meyrick (L.Dehors), Mauriel Valmont (S.Kassap), Claudio Casanova (C.Rizzo, M.Mengelberg, S.Bollani)

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