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Degli Angles o del perché questo non è il migliore dei mondi possibili
Ma questo non è decisamente il migliore dei mondi possibili. E viene il sospetto che non sia neanche uno dei meno peggio. Perché in un mondo appena appena decente Martin Küchen e compagni sarebbero transitati almeno una trentina di volte al di sotto delle Alpi. E invece sapete quante occasioni il paese dei festival ha concesso alla band più elettrizzante che ci sia in circolazione? Due. La prima nel novembre scorso, a Gradisca d'Isonzo per All Frontiers, la seconda qualche giorno fa, in coda all'undicesima edizione di Novara Jazz.
Eppure da almeno quattro anni, ovvero da quando Every Woman Is a Tree ne segnalò la presenza come un razzo in una notte senza stelle, è difficile trovare di meglio in giro. E non stiamo parlando di una di quelle robe che piacciono solo ai critici o ai necrofili, quei gruppi che nascono e muoiono nel giro di un disco suscitando il frigido entusiasmo di chi da un pezzo ha spento il cuore. Qui c'è una band che sa prendere una piazza per il bavero, levandola da terra e scuotendola per un'ora e mezza. Senza pietà, aggredendola a suon di calci e schiaffoni, sparando musica che buca i timpani, che fa muovere sederi e piedi, che costringe a ondeggiare testa e spalle. Energia pura, jazz d'assalto e militante che fa drizzare i capelli anche a chi «io di jazz non ne capisco molto».
Per conferme chiedere alla folla che ha stipato fino all'inverosimile il cortile del Broletto di Novara. Un pubblico tendente all'occasionale, attirato più dalla parola "gratis" che dalla fama di un manipolo di scandinavi arrivati da chissà quale fiordo o lago ghiacciato. Gente che di solito sopporta, si annoia o addirittura scappa. Beh, stavolta non si sono visti sbadigli e nessuno ha osato abbandonare la nave fino all'ultimo dei tre bis (chiesti con travolgente ostinazione). Inchiodati agli scranni, la gola secca, gli occhi sbarrati, anche gli spettatori più distratti e svogliati, magari usciti di casa solo per un gelato (non Ray), si sono dovuti arrendere agli Angles in versione "eight" (ce ne sono anche una versione "nine" e una "ten"). Due trombe, Goran Kajfeš e Magnus Broo, due sax, Eirik Hegdal e Martin Küchen, un pianoforte, il giovanissimo Alexander Zethson, un vibrafono, il fenomenale Mattias Ståhl, un contrabbasso, Johan Berthling, e una batteria, Andreas Werliin.
In scaletta le nuove composizioni finite sull'ultimo disco, Injuries, fresco di stampa per la portoghese Clean Feed. Dalla trascinante "European Boogie" alla magnetica "Ubabba"da qualche parte tra Fela Kuti e Dudu Pukwana -, dall'ipnotica "In Our Midst" alla giocosa "Compartmentalization"una festa di colori degna dei Brotherhood of Breath -, dall'ayleriana "Injuries" all'etiopica "Every Woman Is a Tree" (l'ultimo bis estratto dal cilindro a cartucce finite). Tanto jazz e tanta Africa, insomma. Con in più il solito piglio alla Mingus, alla Archie Shepp dei tempi che furono, alla Art Ensemble of Chicago. Rimandi politici e musicali per una band che non ha paura di predicare al popolo, di rivolgersi alle piazze. C'erano zanzare grandi come cormorani, è vero. Faceva caldo, l'acustica non era un granché e il via vai di gente, in un luogo di passaggio aperto ai flussi ciarlieri del sabato sera, ha dato parecchio fastidio. Ma la piazza è la piazza; ha le sue leggi, le sue regole. E quando ribolle di passione per una musica autenticamente di frontiera, è doveroso gioire, esultare persino. Viva la piazza, dunque. E viva gli Angles, che per una sera ci hanno fatto credere che questo sia davvero il migliore dei mondi possibili.
FotoLuca Vitali.
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