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Brda Contemporary Music Festival 2022

Brda Contemporary Music Festival 2022

Courtesy Tone Stamcar

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12. Brda Contemporary Music Festival
Šmartno, Slovenia
Hiša Kulture
17-19.9.2022

Arriva alla dodicesima edizione il Brda Contemporary Music Festival, rassegna di musica creativa e improvvisata organizzata e diretta da Zlatko Kaućić a Šmartno, piccolo e delizioso paesino sloveno appena aldilà della frontiera con il Friuli. Il festival ha anche quest'anno conservato la propria identità—tre giorni di musica e un workshop aperto a tutti, gratuito e con concerto finale, stavolta affidato al tubista svedese Per Åke Holmlander— nonostante abbia rischiato di non svolgersi per un inopinato taglio dei fondi ministeriali, poi parzialmente compensato da finanziamenti locali.

L'apertura era affidata a un concerto per soprano solo del sassofonista Jure Pukl, nella sala esposizioni della Casa della Cultura, poco dopo l'inaugurazione della mostra del fotografo Janko Lipovsek. L'artista sloveno ha scelto una modalità piuttosto aggressiva per interpretare il difficile genere di performance, "riempiendo" spesso fittamente di note i quaranta minuti di musica e producendosi più volte in passaggi drammatici, ricchi di distorsioni e di grande intensità. Il percorso drammaturgico che ne è scaturito è stato piuttosto convincente, ma forse un po' troppo univoco, tal che i pochi, ma azzeccatissimi momenti in cui Pukl ha rallentato tempi e dinamica, concedendosi pause riflessive e una valorizzazione del silenzio, sono risultati anche quelli più toccanti della sua narrazione. Un concerto interessante, dunque, ma forse da perfezionare nella sua globalità.

Nella stessa serata, a seguire, si sono poi svolti altri due concerti, che vedevano in scena il trio sloveno capitanato dal batterista Gal Furlan e il quartetto italo-sloveno EjEj-OjOj-Wauuu 4tet.

La prima formazione, completata da Gašper Piano alla chitarra e Andrej Kobal a sintetizzatore ed elettronica, ha sviluppato una musica molto libera, interattiva, quasi affatto priva di temi lineari e decisamente incentrata sull'inventiva del leader, che suonava in ginocchio su un set di percussioni e "oggetti" vari. Attorno a lui, il chitarrista intersecava i suoni variandoli molto in intensità e toni, ora frammentandoli, ora producendoli percussivamente con oggetti, ora invece spingendosi su linee più prolungate e dinamicamente intense, mentre Piano, anch'egli con gli strumenti a terra e perciò in ginocchio, svolgeva un compito simile, risultando però meno incisivo e convincente. Il tessuto musicale complessivo, tuttavia, è rimasto nitido e discorsivo, perfettamente e piacevolmente percorribile all'ascolto: un buon esempio, perciò, di improvvisazione riuscita.

Il quartetto che ha chiuso la serata, simpaticamente battezzato EjEj-OjOj-Wauuu, era una formazione che—come piace al direttore artistico—non aveva mai suonato assieme prima: univa infatti gli sloveni Žiga Ipavec alla batteria e Anton Lorenzutti alla chitarra con gli italiani Francesco Ivone alla tromba e Piero Bittolo Bon al sax contralto, quest'ultimo ospite speciale del festival. Anche in questo caso, centrale era il ruolo del batterista, che disponeva di una molteplicità di strumenti non solo percussivi—campanelli, gong, ma anche fischi, trombette e molto altro. Attorno suo lavoro dinamico e creativo si organizzavano i suoni dei compagni: con continuità quelli di Lorenzutti, che assieme a Ipavec costruiva la tessitura della musica; più liberamente e discontinuamente i due fiati, che intervenivano a ondate, spesso in coppia, per disegnare linee più distese, sebbene raramente liriche. Pur mai caotico, qui il discorso complessivo è parso meno nitido e coerente, così come è parso mancare qualcosa che facesse scoccare la scintilla capace di far brillare la scena, rimasta perciò illuminata soprattutto dalla performance di Ipavec.

Nel primo pomeriggio del giorno successivo, venerdì, è iniziato anche il workshop diretto da Holmlander, che è culminato nel concerto finale della rassegna, il sabato sera, e del quale parleremo più avanti. I concerti hanno invece preso il via alle 18,00, con il solo di Bittolo Bon, impegnato al sax contralto e all'elettronica. Chi si fosse aspettato una più o meno tradizionale perfomance per sassofono sarà stato deluso, perché l'artista veneziano ha dato vita a un concerto davvero unico e sorprendente: grazie a un apparato di percettori inseriti al suo interno e al sintetizzatore cui erano collegati attraverso una complessa serie di apparati elettronici, il sax era infatti stato trasformato in tutt'altro strumento, capace di emettere sia suoni premendo i tasti anche senza l'emissione di fiato, sia altri suoni, mutevoli a seconda delle registrazioni della parte elettronica, nel caso che quest'ultima si verificasse—cosa peraltro avvenuta solo a momenti e sempre senza l'uso del bocchino e dell'ancia. Ne è scaturita una musica singolare, forse un po' astratta e certamente incentrata sull'aspetto ritmico, che ha molto colpito gli ascoltatori non foss'altro che per la sua innovatività, anche a dispetto di un "incidente" tecnico avvenuto a un certo punto (uno dei componenti elettronici ha smesso di funzionare) che ha limitato le possibilità espressive di Bittolo Bon, obbligandolo a scegliere in corso d'opera soluzioni diverse. Un esperimento molto interessante, del quale merita seguire i futuri sviluppi.

È poi seguito quello che, per chi scrive, è stato il miglior concerto dell'intera rassegna e che vedeva in scena il trio composto dal trombettista berlinese Axel Dorner, dal contrabbassista sloveno Tomaž Grom e da Kaučič. Anche in questo caso, una formazione alla sua prima assoluta, sebbene basata sull'intesa dei due connazionali, che hanno all'attivo due eccellenti album come The Ear Is the Shadow of the Eye (2020) e Raztrgana Folklora Spomina (2022). Dörner si è collocato tra i due con grande sensibilità, costruendo assieme loro un discorso estremamente mutevole ma sempre rigoroso. Se quest'ultima qualità dipendeva dall'attenzione e dalla cura che i tre protagonisti mettevano tanto nell'ascolto reciproco, quanto nella produzione dei suoni, la prima era invece dovuta alla molteplicità di stilemi che ciascuno dei musicisti ha squadernato, senza peraltro mai cadere nel facile errore di farne un "elenco." Se è ben nota la spontaneità con cui si produce in una molteplicità di sonorità e figurazioni Kaučič—qui con un tradizionale set batteristico, arricchito da pochi altri oggetti —, hanno invece stupito sia Grom, sia Dörner: il primo ha non solo alternato pizzicato e archetto, ma soprattutto ha suonato in modo ora nitido e discorsivo, ora rumoristico e concitato, adattandosi alle trame collettive; il secondo, invece, è forse stato dei tre colui che maggiormente ha insistito su stilemi espressivi frammentari e parossisitici, ma lo ha fatto anch'egli senza eccessi e inserendo anche fraseggi più distesi e ricchi di silenzi. Complessivamente, l'ora di musica è risultata bellissima, e ci auguriamo di poterla riascoltare su disco visto che tutto il festival è stato registrato da Ajz Vemrec.

La giornata, la più intensa delle tre, è comunque andata avanti con altri due concerti. Il primo, singolarissimo, vedeva di scena lo sloveno Samo Kuti, che suonava una ghironda "preparata" e integrata da due tamburelli, e il francese Pascal Battus, alle prese con un cilindro metallico ruotante sul quale faceva sfregare ogni sorta di oggetto—scatole di plastica, piatti di batteria, oggetti metallici, pietre e quant'altro—producendo suoni sorprendenti. La performance è stata senz'altro interessante—difficile immaginare di poter produrre musica con due "strumenti" così strani—e tuttavia si è scontrata con due limiti: in primo luogo la scarsa coerenza che, alla lunga, ha mostrato il susseguirsi un po' casuale e ripetitivo dei suoni, oltretutto spesso simili, dei due strumenti (non a caso entrambi basati sulla rotatorietà); in secondo luogo la sensazione che la scelta della successione si basasse soprattutto sull'urgenza di mostrarne il repertorio (l'effetto "elenco," appunto). I due limiti, sommati, hanno assai limitato la musicalità di quanto ascoltato.

L'ultimo concerto della giornata, molto atteso prevedeva il trio di tromboni composto dall'americano Jeb Bishop e dai tedeschi Matthias Müller e Matthias Muche, formazione stavolta attiva da molti anni. I tre hanno mostrato grandissime doti tecniche, riuscendo a interpretare lo strumento ciascuno in modo di volta in volta diverso, così da sfruttarne collettivamente le molte sue possibilità espressive, e tuttavia alla fine—pur in un concerto certo non disprezzabile—hanno un po' deluso. Troppi sono infatti parsi i momenti "tecnici," troppo rari quelli in cui i tromboni hanno anche almeno un po' "cantato," soprattutto non convincentemente legate sono sembrate le transizioni (qualche volta persino segnate da esitazioni); cosicché, alla fine, si è avuta la sensazione che i tre potessero fare di meglio. Peccato, ma una serata non al top, in questa musica, non può non capitare.

L'ultima giornata s'è aperta non con la musica, bensì con una intervista alla poetessa Svetlana Makarovič, personalità assai nota in Slovenia per le sue prese di posizione critiche nei confronti della politica e della cultura contemporanee, esempio cioè di impegno civile nell'arte. Musicalmente, però, la giornata era incentrata sulla figura dell'ospite speciale del festival, il tubista Per Åke Holmlander, che prima è andato in scena in trio con il chitarrista olandese Jasper Stadhouders e Zlatko Kaučič, poi ha diretto la formazione composta dai partecipanti al workshop.

Il primo concerto, tuttavia, non è stato all'altezza delle aspettative, per responsabilità soprattutto di Stadhouders. Artista interessantissimo, sia chiaro, ma caratterizzato da uno stile aggressivo e dinamicamente pesante, fatto di continue percussioni sulle corde della chitarra elettrica con oggetti metallici—con effetti sonori che non c'è bisogno di descrivere...—e persino risonanze magnetiche dello strumento con l'amplificatore. Uno stile, ben si capisce, poco compatibile con uno strumento come la tuba, che oltretutto Holmlander tende a suonare facendo prevalere le rarefazioni dei suoni, i soffi, gli scoppiettanti sbuffi espressivi. Così, per gran parte del concerto, lo svedese è scomparso dalla scena, sovrastato dai roboanti suoni della chitarra, con la quale solo il sensibilissimo Kaučič riusciva a interagire, alzando anche i suoi toni per poi cercare di costruire ponti con la tuba, raramente compreso dall'olandese. Tanto che, alla fine di un lungo set che sembrava racchiudere l'intero concerto, proprio Holmlander ha richiesto di proseguire ancora, così da ritagliarsi un contesto nel quale avere più spazio, parte risultata poi la migliore dell'intero concerto.

A concludere il festival è stata poi l'esibizione dei partecipanti al workshop, un momento che sta molto a cuore al direttore artistico, che da molti anni svolge un'intensa attività didattica nella vicina Nova Gorica. La formazione vedeva sul palco sedici musicisti di diversissima esperienza e capacità—basti dire che accanto a due musicisti giovani ma affermati come Marko Lasic e Ziga Ipavec c'era anche un modestissimo dilettante com'è chi scrive... —, oltretutto con un ventaglio di strumenti piuttosto mal assortito: ben tre batterie e tre chitarre elettriche, due bassi elettrici, un contrabbasso, due sintetizzatori, una percussionista, una tromba, un sax soprano e una tuba. Ciononostante il concerto è parso riuscire piuttosto bene (essendo coinvolto sul palco, chi scrive qui lo afferma ovviamente sulla base delle risposte del pubblico presente e di sensazioni ricevute dalla musica, e non di un'analisi rigorosa). E questo in virtù di un lavoro certo necessariamente non approfondito (essendo durato complessivamente neppure sei ore), ma attento e intelligente svolto nel corso del workshop, del quale diamo conto in conclusione.

Nel lavoro didattico Holmlander, dopo una rapida presentazione dei partecipanti e alcune indicazioni generali, ha spiegato alcune possibili, semplici dinamiche da attuare collettivamente: suoni crescenti/discendenti per tono o per intensità, catene sonore partenti da un lato dell'ensemble e giungenti all'altro, con dissolvimento graduale; esecuzioni in più gruppi distinti comandati da segni; partiture grafiche atte a ricondurre in discorso unitario l'alea degli interventi individuali. Alcune di queste dinamiche sono poi state sperimentate nel corso del primo pomeriggio di lavoro, cercando anche di dare uniformità dinamica alle varie voci, spesso così diverse tra loro. La prima sessione di lavoro si è conclusa con l'illustrazione di una complessa partitura grafica di Holmlander, dalla quale sono state tratte alcune parti per il concerto.

Il secondo pomeriggio di lavoro è stato più direttamente dedicato alla messa a punto delle strutture del concerto serale e si è diviso in tre parti: nella prima il docente svedese ha spiegato la struttura generale; nella seconda se ne sono studiate e sperimentate le parti in modo separato; nella terza si è effettuata una vera e propria prova generale, sebbene di durata volutamente ridotta.

La struttura del concerto era al tempo stesso semplice e articolata: un'abbrivo fatto di brevi suoni scoppiettanti per gruppi separati, seguito da un crescendo collettivo che partiva dal "pianissimo" per arrivare al "fortissimo," e quindi da una "catena" nella quale trovavano spazio espressivo volta a volta tutti i musicisti. Al culmine della catena, gli assoli turnati di due batterie facevano da sfondo alla libera espressività dei rimanenti musicisti, divisi in tre gruppi e alternati dalla direzione di Holmlander. L'ultimo assolo di batteria apriva poi su un'improvvisazione collettiva, magmatica e parossistica, eseguita in un crescendo, fino all'interruzione che concludeva il concerto. L'esecuzioni delle diverse parti isolatamente ha permesso ai partecipanti di comprendere meglio le differenze acustiche presenti nell'organico, così da poterle ascoltare con più attenzione e rispettarne le peculiarità, accordandovisi. Con un esempio personale: è emerso la mia limitata capacità di controllare il suono facilmente esuberante del mio sax soprano rischiasse di monopolizzare l'ambiente sonoro, spingendomi perciò, nei momenti di "pianissimo," a evitare l'emissioni classiche e a usare solo soffi, rumori dei tasti e colpi d'ancia. La prova generale conclusiva, invece, ha consentito ai musicisti di prendere confidenza con il contesto globale, facendo loro percepire lo spazio musicale da essi occupato e dandoli l'orientamento necessario a muovercisi dentro con libertà e rigore.

L'esito di un tal lavoro è stato quello di affrontare la prova—di per sé psicologicamente impegnativa, visto che si svolgeva in conclusione della rassegna e davanti a un pubblico esperto—con divertita leggerezza e anche una certa sicurezza (ribadisco che chi scrive era probabilmente il meno "professionista" di tutti i presenti), cosa che ha sicuramente contribuito alla discreta riuscita del concerto, che—pur nei suoi limiti e con le inevitabili sbavature—è stato decisamente apprezzato dagli astanti.

Momenti di questo genere, va detto, sono assai importanti anche aldilà del loro significato strettamente didattico. L'improvvisazione, specie nelle sue forme più estreme e radicali, è infatti una musica diversa rispetto alle altre, persino rispetto al jazz più tradizionale ed "educato" (una semplificazione, questa, che ovviamente va presa cum granum salis) e perciò richiede anche un ascolto altrettanto diverso; la sua "promozione," perciò, non può non passare anche dalla sua pratica—almeno due o tre dei partecipanti al workshop sloveno, incluso il sottoscritto, erano poco più che ascoltatori e non autentici musicisti—o quantomeno dalla fruizione di performances didattiche, capaci di sollecitare negli ascoltatori un approccio diverso: più indulgente e paziente, mirato alla comprensione di quel che sta accadendo invece che all'attesa della cosiddetta Opera d'Arte, come troppo spesso accade invece quando in scena vadano conclamati (o anche solo presunti) Artisti. Sarebbe pertanto assai auspicabile che momenti come quelli descritti—che al Brda Contemporary Music Festival sono la norma fin dai suoi esordi, ormai dodici anni orsono—si estendessero e fossero organizzati anche da festival più ricchi e paludati. Ne va del futuro non solo dell'improvvisazione e del jazz, ma ancher della musica in generale, altrimenti destinata ad appiattirsi sempre più sui ciclostilati generi di consumo.

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