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Biennale Musica 2020

Biennale Musica 2020

Courtesy Andrea Avezzù

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Biennale Musica, LXIV edizione
Venezia
Arsenale: Teatro Piccolo, Teatro alle Tese
25.9—4.10.2020

A differenza che nelle passate edizioni, quest'anno Biennale Musica, sotto la direzione artistica di Ivan Fedele dal 2012, non ha ospitato concerti di jazz. Considerazioni tutt'altro che marginali vengono comunque stimolate dalle varie espressioni della musica contemporanea in programma, rappresentata da autori e interpreti di diverse generazioni, da produzioni originali, prime assolute o italiane e lavori multimediali. In nessun altro festival come a Venezia la musica contemporanea è oggetto di un'analisi così sistematica e coerente, in grado di mettere a confronto e rendere comprensibili le varie tendenze dell'attualità.

Non poteva mancare, nel ventennale della sua scomparsa, un omaggio a Franco Donatoni, documentato da composizioni prevalentemente degli anni Ottanta. Non so se il Maestro in quegli anni avrebbe confermato il concetto sintetizzato in una sua frase nell'intervista che mi concesse nella primavera 1971, recentemente pubblicata sul Giornale della Musica: "Certo, del pubblico ne ho bisogno perché altrimenti la risonanza della sala sarebbe cattiva." Frase di un cinismo assoluto, che denotava la sua necessità di racchiudersi in una ricerca intima, rigorosa, insistita sul materiale sonoro, senza sentire il minimo bisogno di finalizzare i risultati del suo lavoro all'ascolto di un fruitore. Eppure oggi la sua musica ci appare non solo leggibile nella struttura, negli andamenti melodici, dinamici, timbrici, ma anche carica di intenti narrativi, di un significato che coinvolge pure la sfera emotiva. Soprattutto la sua musica degli anni Ottanta, eseguita a Venezia, che raggiunge esiti più affermativi e comunicativi, frutto di una ricerca rasserenata rispetto alla chiusura privata, disillusa ed estrema degli anni Sessanta. Bisogna inoltre tenere presente il fatto che oggi la domanda e l'offerta di musica contemporanea, soprattutto dal vivo, è cambiata rispetto a quaranta-cinquanta anni fa ed è sensibilmente aumentata la nostra ricettività nei confronti delle più svariate esperienze musicali.

"Spiri," composto dal maestro veronese nel 1977, prende l'avvio da poche battute di violino e oboe, poi la trama si diffonde agli altri strumenti dell'ensemble innescando un moto leggiadro e carico di sorprese, quasi incantato; emergono via via i vari timbri degli archi, del clarinetto basso, del vibrafono, del flauto. In "Arpège," del 1986, la formazione si riduce ad un sestetto. L'incedere narrativo, particolarmente descrittivo, conduce una corsa agile nell'esplorazione curiosa di un territorio ondulato; gli strumenti si rincorrono, ripetendo frasi, intrecciandosi, deviando, perdendosi e ritrovandosi. Al 1989 risale invece "Hot," il cui titolo è già esplicito; il riferimento al jazz è chiaro fin dall'organico: sax tenore (e soprano), tromba, trombone, clarinetto, pianoforte, vibrafono e percussioni. A un incipit riflessivo e tenuto a basso volume, dagli impasti sonori vicini al cool jazz, fa seguito un andamento più deciso e scandito, hot appunto. Prevale sempre il tutto pieno dell'intero collettivo con il sax tenore in particolare evidenza, ma anche gli interventi degli altri strumenti si stagliano significativi, fino a giungere ad un finale decisamente acceso.

Il concerto prevedeva altri due lavori, commissionati dalla Biennale ed eseguiti in prima assoluta, di compositori che di Donatoni furono allievi: Sandro Gorli e Ruggero Laganà. Di quest'ultimo è stato proposto "Souvenirs," in cui la dedica al Maestro è chiara. I tre episodi concatenati della composizione partono infatti dalle ultime battute delle tre composizioni di Donatoni inserite in programma: "Hot" per esempio diventa il più concitato "Hotter." L'andamento non lineare tocca corde diverse: inizialmente misteriose e ambigue, per poi passare a una sezione martellante, scandita da una scala ripetuta dal pianoforte, sfociando in un crescendo del collettivo, ricco di glissando, con contralto e percussioni in primo piano.

L'omaggio musicale a Donatoni da parte di Gorli è da leggere fra le righe ed è mediato da una più recente ispirazione ad un'opera letteraria di Marosia Castaldi. In "Il blu del tuono" è la tromba, spesso usata con la sordina, che irradia di volta in volta stimoli appena accennati al trombone, all'oboe e agli altri strumenti dell'ensemble. Il movimento del collettivo si dipana a ondate, con sussulti improvvisi e rasserenamenti, agglomerazioni e distensioni.

Preso atto di alcuni momenti particolarmente felici, punte di iceberg rispetto ad un ampio e coerente sottofondo comune, il repertorio del concerto pomeridiano della terz'ultima giornata del festival si è retto su affinità di contenuto e tecnico-formali evidenti, a cominciare dai rimandi, occulti o meno, fra la musica del Maestro e quella dei due allievi. Alle diversificate possibilità strutturali, soprattutto dinamiche e timbriche, permesse dagli organici di questo repertorio ha dato piena credibilità e autenticità l'interpretazione del Divertimento Ensemble diretto da Sandro Gorli, che lo fondò nel 1977.

Nel concerto serale, in cui era protagonista il giovane e agguerrito Ensemble Interface, dove prevale decisamente la quota rosa, si è assistito ad opere basate su una maggiore multimedialità. "Instrumental Freak Show, A Manifesto on Diversity" per voce, sei esecutori ed elettronica di Giovanni Verrando, ancora una prima assoluta, si articola in cinque parti (si può ancora parlare di movimenti?). La teatralità della costruzione sonora si coniuga alla gestualità degli interpreti, che azionano oggetti, strumenti anomali (compreso il daxophone inventato negli anni Ottanta da Hans Reichel) e strumenti tradizionali, filtrando e deformando i suoni e i rumori con l'elettronica in tempo reale. Solo in brevi momenti gli strumenti sembrano avere nostalgia delle proprie sonorità classiche. I brevi testi vengono recitati in varie lingue con piana dizione, mentre su uno schermo alle spalle degli esecutori viene proiettato un collage di immagini controverse. In definitiva un'opera singolare di stampo dadaista, in cui con ironia e continue sorprese la quotidianità si riveste di eccezionalità e viceversa, lo scherzo convive consapevolmente con la denuncia, l'ottimismo con lo sconforto.
L'originale eccentricità della messa in scena è stata tale da provocare la protesta eclatante di uno spettatore, che dopo aver gridato un perentorio "Basta" verso il finale dell'esecuzione è poi salito concitato sul palco contestando sia l'autore che il pubblico plaudente. Non si trattava però di uno spettatore qualsiasi, magari a digiuno di musica contemporanea, bensì del noto compositore Adriano Guarnieri. A una protesta individuale in questi termini non mi era mai capitato di assistere in quasi sessant'anni di ascolto dal vivo.

Sempre da parte del collettivo internazionale Ensemble Interface, che in questo caso sotto la direzione di Francesco Pavan ha confermato la sua coesione e duttilità, nella seconda parte del concerto è stato eseguito "De Près," brano scritto nel 2014 dal francese Jean-Luc Hervé, allievo di Gérard Grisey, ma proposto a Venezia in prima italiana. Nella prima parte della composizione suoni flebili, estenuati si intrecciano e stratificano in progressioni suggestive; a cominciare dalla metà del brano è risultata estremamente affascinante la complicazione del discorso musicale tramite la diffusione elettronica di parti preregistrate o di riprese dei suoni in diretta da parte di impercettibili fonti sonore distribuite sul pavimento nei punti più impensati della sala, creando così un imprevedibile effetto di antifonica stereofonia.

La penultima serata del festival si è aperta con la cerimonia di consegna del Leone d'Argento al quarantacinquenne compositore francese Raphaël Cendo, il cui lavoro, influenzato dapprima dalla musica spettrale, nell'ultimo ventennio ha messo a punto le caratteristiche della musica satura. Del 2017, ma in prima italiana alla Biennale, è "Delocazione" per quartetto vocale e quartetto d'archi, per l'occasione rispettivamente il Neue Vocalsolisten e il Quatuor Tana. Estremo si presenta il repertorio delle soluzioni timbriche a cui vengono sottoposti sia gli archi che le voci. I testi tratti da quattro diversi autori, fra cui Georges Bataille e Rainer-Maria Rilke, non conservano il loro significato letterale e comunicativo, per divenire invece solo il mezzo per un'esasperata ricerca fonica, in cui emissioni vocali aspirate e soffiate si contrappongono a infossati e ruvidi attriti gutturali. Altrettanto gli archi si muovono fra gli estremi di note acute e sibilanti a un lato e stridenti sfregamenti sul registro grave delle corde dall'altro. Prevale così una deformazione sforzata ed eccessiva del sound, mentre l'andamento strutturale alterna frammentazioni, pause, un lento incastro degli interventi isolati dei singoli e improvvisi addensamenti. Per gli interpreti si tratta di un vero tour de force di concentrazione per coordinare un interplay puntiglioso e delicatissimo.

In definitiva non mi pare che la musica satura di Cendo, come è risultata da "Delocazione," proponga soluzioni tecnico-formali inedite rispetto alla ricerca di altri autori contemporanei, salvo operare una radicalizzazione estrema di certi modi compositivi tramite un approfondimento inesausto e selettivo. Certo ci troviamo di fronte a una corrente che con il suo intransigente impegno disciplinare rappresenta oggi un esempio di segno del tutto contrario a quell'edonismo accattivante e smaliziato proposto da certe esperienze postminimaliste o da ibridazioni transculturali più o meno riuscite. Esprime al contrario l'esigenza di immergersi di nuovo in una ricerca specifica, austera, esclusiva, esente dai condizionamenti del mercato.

Una considerazione finale, più contingente si spera, riguarda la musica in tempo di Covid. Biennale Musica 2020, di cui abbiamo recensito solo un paio di giornate finali, come altri coraggiosi festival ha evidenziato il bisogno di musica dal vivo, per chi la fa e per chi la ascolta: un insopprimibile bisogno fisico, intellettuale, emotivo, relazionale... Nonostante i ridimensionamenti dei programmi, le precauzioni da prendere, i rischi da correre, in questo 2020 proporre e ascoltare musica dal vivo è una sfida, un atto di fede e di resistenza per poter guardare con speranza al futuro. A Venezia ne è venuta la conferma dal confortante successo di pubblico della sessantaquattresima edizione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea, il cui titolo, "Incontri," sembra assumere, sotto il profilo sociale, un senso quasi provocatorio e ben augurante.

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