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Lee Konitz - Martial Solal: Star Eyes

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Lee Konitz - Martial Solal: Star Eyes
Per chi teme che l'improvvisazione jazzistica, nata dalla tradizione africana- americana, non possegga sufficiente "allure" intellettuale, questa magistrale incisione dal vivo di Lee Konitz e Martial Solal servirà a fugare qualsiasi dubbio.

Realizzata nel 1983, a Amburgo, essa raccoglie riletture e, direi, meditazioni su di una serie di standard, cui si aggiungono tre composizioni di Konitz ed una di Solal.

Konitz e Solal non sono spiriti affini, in realtà si oppongono e si attraggono, si integrano, ad ognuno manca ciò che l'altro ha. Dove Konitz distilla, Solal è oceanico, dove uno è aereo l'altro è statosferico, dove il sassofonista ha ésprit de finesse il pianista ha ésprit de géometrie. Se Konitz si rifà a Tristano, Solal, dietro la magniloquente opulenza di un virtuosismo che pare tradurre e aggiornare in termini francesi (ben più che europei) la grandeur digitale di un Tatum o di un Peterson, mostra la secca razionalità dei clavicembalisti francesi come Rameau. Senza i flussi e riflussi della sua marea pianistica (si ascolti l'impressionante "Fluctuat Nec Mergitur") che pare obbedire a cicli lunari sconosciuti e che s'innalza e s'infrange in imprevedibili picchi di arsi e di tesi, gran parte dell'eloquio, lirico e squisitamente raffinato, che Konitz secerne dal sassofono, perderebbe di senso.

Solal ha dalla sua un senso del ritmo che sa mantenere un infallibile impulso a sostegno anche delle più frammentate e ardite fioriture: il pianista è un mesmerico disegnatore di labirinti, che esplora con la sicurezza rabdomantica del funambolo.

Dotato di incommensurabile sapienza armonica, egli opera su più piani: ritesse il tessuto degli standard eseguiti, mantenendone intatta e presente, sullo sfondo, la trama; sostiene la rilettura e rimeditazione dello stesso standard a opera di Konitz e, infine, con acrobatica stratificazione, la commenta. Una serrata partita a scacchi con sé stesso e con il proprio partner che, in occasioni meno ispirate, può ridursi a gioco baroccamente ridondante e persino irritante.

Non nel caso in questione, che rappresenta una delle opere più liriche e appassionanti di Konitz, artista intellettualmente pudico e non sempre incline a mettere a nudo anche i suoi processi più "sentimentali". Libero dalla costrizione di un accompagnamento tradizionale -come fa notare Art Lange in un accadimento rarissimo, pressoché unico, delle intelligenti note di copertina- il sassofonista intona degli assorti ma liricissimi soliloqui folgoranti di intelligenza ma anche, se vogliamo, di affetto nei confronti di quel songbook americano una cui manciata egli ripercorre da lungo tempo.

L'operazione di Konitz sembra apparentarsi a quel processo che un linguista come Shklovsky denominava "ostranenie" (defamiliarizzazione) laddove la funzione essenziale dell'arte poetica è quella di opporsi al processo di abitudinarietà incoraggiato dai quotidiani e abituali modi di percezione. In poche parole, cessiamo con facilità di "vedere" il mondo in cui viviamo e diventiamo anestetizzati rispetto alla diversità e multiformità della sua fisionomia. Scopo della poesia, dunque, è di invertire tale processo, di defamiliarizzare (come presto avrebbe analogamente predicato il "verfremdungeffekt," lo straniamento brechtiano) tutto ciò con cui abbiamo soverchia familiarità, di "deformare creativamente" ciò che è usuale, ciò che è normale, in modo da inculcare in noi una nuova visione, non contaminata dalla routine. Il poeta deve perciò scartare le "reazioni di prammatica" onde generare una nuova, cosciente e acuta sensibilità, egli deve ristrutturare la nostra ordinaria percezione della "realtà," in modo tale da indurci a "vedere" il mondo, invece di limitarci claudicantemente a riconoscerlo, o meglio ancora, in modo tale da ridisegnare una "nuova" realtà in grado di rimpiazzare l'altra, non meno illusoria, che avevamo ereditato e cui ci eravamo conformati e abituati.

E' quello che fa Konitz rileggendo ancora una volta "Cherokee," "Just Friends" o "Body and Soul" o ristratificando un'ulteriore lettura di "What Is This Thing Called Love" sotto il nome di "Subconscious-Lee". In quest'occasione egli inoltre esibisce appieno la sua gloriosa vena melodica, arricchendo di un curioso ma composto trasporto quella che, altrimenti, sarebbe potuta passare per una brillante e autoptica operazione intellettuale.

Nei loro momenti migliori Solal e Konitz toccano vette espressive difficilmente raggiungibili, dimostrando inoltre quanto ancora di affascinante riservi l'"American Songbook" a chi sa esplorarlo con intelligenza e spirito d'avventura.

Track Listing

Just Friends; Star Eyes; It's You; Body & Soul; Subconscious-Lee; Fluctuat Nec Mergitur; April; What's New; Cherokee.

Personnel

Lee Konitz
saxophone, alto

Lee Konitz: alto sax; Martial Solal: piano.

Album information

Title: Star Eyes | Year Released: 2009 | Record Label: Hat Hut Records


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