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Simone Graziano: preparato per il futuro

Simone Graziano: preparato per il futuro

Courtesy Caterina Di Perri

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Era da tempo che Simone Graziano si cimentava dal vivo al piano solo, dopo le sue varie esperienze in trio e con il quintetto/quartetto Frontal, maturando così progressivamente l'esigenza di documentare su disco questo tipo di esperienza artistica. Circa un anno fa si è così recato in studio e ha registrato il materiale per un album, d'accordo con l'editore per la sua pubblicazione. È però scoppiata la pandemia, nel corso della quale il pianista si è ritrovato chiuso in casa con la famiglia, con una bambina piccola e un figlio in procinto di nascere, e gli è capitata una curiosa esperienza: mentre studiava, registrandosi con il telefono, quest'ultimo è accidentalmente caduto sulle corde del piano; lui ha continuato a suonare, consapevole delle distorsioni prodotte dell'apparecchio, e ha poi ascoltato con curiosità il risultato. È stata una rivelazione: quel suono aleatoriamente alterato, registrato dall'interno del piano, gli è sembrato nuovo, originale e—soprattutto—adatto tanto al momento storico che stavamo drammaticamente vivendo, quanto all'evocazione dei tempi nuovi che ci aspettano, noi tutti e in particolare le giovani generazioni quali sono quelle dei suoi figli.

È così iniziato un lavoro di sperimentazione andato avanti per gran parte della pandemia, che ha riguardato non solo il materiale tematico, ideato appositamente per quest'album, ma anche la preparazione del piano e perfino la messa a punto di un appropriato strumentario atto alla registrazione "casalinga." Un processo per prove ed errori, che ha mescolato l'ambito pubblico dell'arte e quello privato della famiglia—tornano infatti nei titoli tutti i suoi componenti—così come la sofferenza per la reclusione e la speranza per una liberazione che fosse migliore della realtà passata—anche queste presenti in filigrana nei titoli. Contrasti fatti convivere da un suono "strano," perfino surreale nel suo essere ora smussato, ora "sporco," ora ricco di rumori parassiti.

Gli esiti della sperimentazione hanno a tal punto coinvolto e affascinato il pianista da spingerlo ad accantonare la registrazione in studio e pubblicare al suo posto questo lavoro "artigianale," la cui buona riuscita acustica ha comunque sorpreso fonici ed editore (non è semplice improvvisarsi tecnico audio e registrasi in casa sul proprio pianoforte).

Dal punto di vista del "prodotto finale," Embracing the Future raccoglie in meno di trentacinque minuti dieci brevi brani, tutti originali tranne l'iniziale "When the Party's Over," della giovanissima cantautrice Billie Eilish, e "Brahms Tears," rielaborazione—davvero molto singolare—delle "Variazioni su un Tema Originale, op 21. N. 1," di Brahms, che non a caso sono anche le tracce più lunghe. Il rimanente materiale tematico è estremamente sintetico, talvolta proprio minimale, e funge perlopiù da spunto per la ricerca sul suono. In alcuni casi concentrandosi su ostinati quasi ossessivi—il tambureggiante "Damn Spring," l'ipnotico "Nihilo," ma anche il più evocativo, brevissimo "Embracing the Future"—talaltra invece producendosi in piccoli, ma emotivametne toccanti quadretti—"Dora Et Les Adieux" e "Tancredi," dedicati ai figli.

In ogni sua parte, comunque, si tratta di un album molto particolare, di cui fruire adeguando l'ascolto allo spirito che ha guidato la sua realizzazione: una ricerca sul suono, un'esperienza fatta in un periodo particolare, un progetto di cambiamento personale e collettivo nel quale l'arte, pur in punta di piedi, si mette anche al servizio di ciò che arte non è, ma senza il quale essa neppure esisterebbe o avrebbe senso.

Abbiamo voluto che fosse proprio il suo autore a parlarci delle particolarità di questo lavoro e della sua genesi programmaticamente accidentale.

AAJ: Puoi dirci le tue dirette impressioni su questa esperienza così singolare che ti ha condotto alla pubblicazione di Embracing the Future?

Simone Graziano: Innanzitutto premetterei che questo disco, proprio a seguito dell'esperienza da cui nasce, non risponde a nessun tipo di "esigenza pianistica," quanto piuttosto a un'esigenza "sonora." In questo caso non ho in alcun modo cercato di fare il pianista, quanto l'ingegnere del suono, anzi il ricercatore di suoni, lavoro per il quale il pianoforte era solo un mezzo. Lo definirei perciò un "piano solo non virtuoso," nel quale la dimensione del pianismo resta largamente sullo sfondo. Venendo poi all'esperienza, personalmente è stata bellissima, sia perché mi ha dato tanto in termini di conoscenze, sia perché mi ha aiutato molto a vivere al meglio quel periodo terribile che abbiamo passato tutti quanti—la pandemia, con i suoi momenti di reclusione, le sue paure, le incertezze che avevamo per il futuro. Quel periodo è finito infatti quando ho concluso anche il lavoro e, forse non casualmente, ho iniziato a stare male fisicamente.

AAJ: Già, perché poi ti sei ammalato.

SG: Sì, ho iniziato progressivamente a indebolirmi, senza che i medici riuscissero a capirne le ragioni, finché—quando ormai ero stremato e anche molto preoccupato—si è scoperto che si trattava di un problema di ipertensione, probabilmente di lunga data, che aveva compromesso il mio equilibrio organico. Fortunatamente solo in via temporanea, perché dopo una serie di cure adesso sto benissimo.

AAJ: E tu pensi che ci sia una relazione?

SG: Francamente non lo so e non ci ho fatto una riflessione precisa. L'unica cosa certa è che io ho finito il disco mentre stavo ancora bene e mi sono ammalato quando quel che dovevo fare era ormai concluso. Anche se, sia chiaro, la ricerca va ancora avanti: tuttora mi capita di mettermi lì a fare nuove sperimentazioni e ad aggiungere altre cose. Il disco lo vedo come un punto di partenza.

AAJ: Puoi dirci qualche dettaglio sul lavoro che hai fatto sia per la preparazione del pianoforte, sia per realizzare la registrazione?

SG: Il pianoforte è preparato in modo molto minimale e con strumenti non invasivi. Questo anche per poter portare il progetto in tour senza aver bisogno di un lavoro troppo impegnativo di preparazione. Per cui gran parte di ciò che ho usato sono oggetti ordinari: per esempio, le due ottave basse sono coperte da quelle gommine colorate che si mettono sulle chiavi per distinguerle l'una dall'altra; nel registro centrale invece utilizzo del nastro adesivo di carta, sia di qua che di là dalla martelliera; inoltre, impiego dei filtrini da sigaretta per scordare le corde e far uscire determinati armonici. Nel registro alto invece metto dei panni di feltro, che attutiscono il suono. Infine, uso dei tappi per le prese di corrente, quelli che si usano per impedire che i bambini ci infilino le dita, che messi in certe posizioni fanno uscire un suono che sembra un tamburo africano.

AAJ: E per registrare come hai fatto?

SG: In questo mi ha aiutato Francesco Ponticelli, presso il cui studio avevo registrato il piano solo. Mi ha suggerito di usare due microfoni speciali, molto sensibili e che prendono il suono a trecentosessanta gradi, ma che usualmente si mettono a venticinque-trenta centimetri dalla cordiera, mentre io tolgo il coperchio dei tasti del piano e li infilo proprio dentro la tastiera, a pochi millimetri dai tasti. Questo fa sì che si possano udire tutti i suoni "sporchi" che normalmente non si sentono, come il rilascio del martello, il dito che struscia sul tasto, ovvero quei suoni che distolgono l'ascoltatore dalla purezza del suono e che di solito vengono nascosti. Io invece ho volutamente cercato che si sentissero, perché hanno il fascino dell'essere lì dove il suono si produce, come essere dentro la pancia della balena!

AAJ: Un'ultima domanda riguarda il rapporto tra quest'esperienza—e quel suono, che è comunque il "motore" dell'esperienza—e la situazione personale che stavi vivendo, visto anche che ben tre brani sono dedicati alla tua famiglia e il titolo stesso rimanda a quel futuro minacciato dalla pandemia—ma, potremmo aggiungere, anche da quella crisi ambientale della quale la pandemia non è stata che un'avvisaglia—che appartiene in modo particolare alle generazioni dei tuoi figli.

SG: In realtà tutto il disco è dedicato ai ragazzi e alle nuove generazioni, che stanno subendo i danni arrecati al mondo da noi adulti. E questo perché il nostro principale dovere è quello di garantire ai giovanissimi un futuro degno di questo nome. Anche con l'arte, che è un importante strumento di speranza. Voglio ricordare che le prime persone a cui ho fatto ascoltare le prime prove della mia ricerca, dopo il lock down della primavera 2020, erano proprio dei ragazzi di un liceo. Ne furono entusiasti, ma mi colpì il fatto che una delle cose che apprezzarono fu che si trattasse di una ricerca, o meglio che esistesse ancora chi faceva ricerca, come se la pandemia avesse reso impossibile, o comunque vana, ogni prospettiva per il futuro. La percezione di questa disillusa frustrazione mi convinse ancor più dell'urgenza di lavorare per il futuro dei giovani, lasciando loro il mio lavoro di ricerca.

AAJ: Per mio conto vorrei sottolineare due aspetti che mi sembrano importanti di questo tuo lavoro, e anche del tuo approdo a esso dopo l'abbandono del previsto, tradizionale piano solo. Il primo riguarda l'importanza intrinseca che ha in esso l'alea: un progetto, già in buona parte realizzato, salta e viene abbandonato a causa di un imprevisto—la caduta del telefono nel pianoforte—che viene valorizzato grazie a un secondo imprevisto—la pandemia, che ti "regala" un tempo di sperimentazione altrimenti forse impossibile. Questa valenza dell'alea fa di Embracing the Future un'esperienza jazzistica per eccellenza. Il secondo è invece legato al valore etico del quale parlavi un attimo fa: è importantissimo ed emblematico che un lavoro dedicato al futuro, e a esso rivolto, sia nato e cresciuto "in casa," localmente; infatti, l'attività artistica dei musicisti jazz è oggi legata a doppio filo a un sistema dissipativo e sperequato—si viaggia tantissimo per fare concerti in mezzo mondo, spesso pagati assai poco, grazie alla possibilità di muoversi in aereo, un mezzo inquinante ed elitario, a prezzi "drogati" da un mercato folle che non tiene conto dei costi ambientali. Serve un nuovo modello, e questo disco "glocal" ne costituisce un piccolo esempio.

SG: Hai ragione, Embracing the Future è un disco "a chilometri zero," non ci avevo mai riflettuto! Diciamo che ho fatto di necessità virtù: costretto a stare a casa, ho studiato—non solo quel che ho detto prima, ma anche i software di elaborazione dei suoni—e per me è stata un'occasione di arricchimento, ma al tempo stesso ho fatto cose più sostenibili di quelle che ero solito fare in precedenza.

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