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Pop, Realismi e Politica alla GAMeC di Bergamo
ByGAMeC - Bergamo (fino al 26 maggio)
Chi ha assistito alla solo performance di Marc Ribot che ha dato la stura a Bergamo Jazz 2013, non avrà potuto fare a meno di notare la particolare ambientazione offerta dalle opere di Giuseppe Gabellone presenti nella sala. Quella di Gabellone è in effetti una delle tre mostre attualmente allestite alla GAMeC, la più importante delle quali è senz'altro quella che illustra i rapporti fra arte e realtà sociopolitica nei due Paesi-cardine dell'America Latina, Brasile e Argentina, in una fase storica quanto mai controversa (e come tale emblematica) come gli anni Sessanta.
L'esposizione (ben oltre un centinaio di opere disposte su due piani) è già transitata per Buenos Aires e Curitiba, sull'altopiano brasiliano del Paranà, e completerà il proprio itinerario al MAM di Rio de Janeiro. Bergamo è quindi l'unico centro non latinoamericano ad averla ospitata, per cui chi ama l'arte farà bene a prenderne visione da qui alla chiusura (26 maggio).
Che cosa ci troverà? Un crogiuolo di opere della più varia natura che affrontano, da prospettive diverse ma al tempo stesso per più versi convergenti, l'annoso problema dei rapporti fra arte e potere che nei decenni ha martoriato - possiamo ben dirlo - il continente latinoamericano in maniera particolare. Nei titoli di testa sta il movimento Pop, ma forse più per comodità che per altro. Quelli erano gli anni, del resto, e in effetti molti dei lavori si ricollegano a quel grande ricettacolo di fermenti e pruriti creativi vari.
Ciò che salta palesemente all'occhio, in questo basilare sottopercorso, è come l'icona per eccellenza - la Marilyn di Warhol e i futuristi di Schifano, per capirci - dell'arte sudamericana (e non solo, del resto) fosse "il comandante" Che Guevara. A lui sono dedicati lavori di svariati artisti, fra i quali prenderemmo a paradigma quello del brasiliano Claudio Tozzi che vedete qui accanto. Non manca del resto neppure la famigerata Coca-Cola (che diventa cloaca, nell'opera di Cildo Meireles ripresa sul manifesto della mostra), né un singolare omaggio a Fontana, da parte di Nelson Leirner (di San Paolo, come Tozzi), il quale colloca una bella cerniera (semiaperta, e conseguentemente semichiusa) sul taglio di rito dell'italiano (il quale, varrà la pena ricordarlo, era nato a Rosario di Santa Fé e colà vissuto fin quasi a trent'anni).
Decisamente meno legati alla matrice Pop sono i due artisti con tutta probabilità più interessanti che s'incontrano in mostra, entrambi argentini (fra l'altro perfettamente coetanei essendo nati nel 1931). Il primo è Romulo Macciò, autore di tre grandi tele poste una accanto all'altra (due del '63, Dale que va e Vivir con ilusiòn, e
una del '69, Vivir en aprietos) di notevole impatto segnico-cromatico (ricordano certe cose del primo Moreni, e non solo); il secondo è Alberto Greco, del quale, accanto ad altre due opere del '60, colpisce in particolare un polittico in quattro "atti" del '64 centrato sull'assassinio di John Kennedy (Asesinato de J.F. Kennedy), tutti collages e tecniche miste (Greco morirà suicida a Barcellona solo un anno dopo, nel 1965).
Labili, nel complesso, gli agganci musicali riscontrabili lungo il percorso espositivo: al di là di un'opera "chitarristica" (anzi, "bassistica") dell'argentino Edgardo Gimenez anch'essa presente sul manifesto, si segnala un dittico (in unica tela) del '66 di Maria do Carmo Secco ritraente Roberto Carlos. Del resto noi sappiamo fin troppo bene quale ruolo abbia invece giocato la musica in quegli anni cruciali, specie sul finire del decennio, in special modo col movimento tropicalista (che d'altra parte coinvolse anche artisti visivi, come gli stessi Hélio Oiticica e Antonio Dias, presenti in mostra) e, in Argentina, con i primi, seminali vagiti terzomondisti di Gato Barbieri (The Third World, ovviamente). Sarà magari una storia che verrà raccontata un'altra volta, da un'altra mostra. Per ora godiamoci questa.
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