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Jack DeJohnette & Foday Musa Suso: Music from the hearts of the masters

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Jack DeJohnette & Foday Musa Suso: Music from the hearts of the masters
E’ prassi ormai diffusa negli ultimi anni che i musicisti di successo prima di andare in pensione si mettano completamente in proprio e così anche Jack De Johnette ha lanciato sul mercato la sua etichetta Golden Beams con tre prodotti molto personali: un disco di meditazione Music in the Key of Om (commissionatogli, a quanto pare, dalla moglie per le sue sessioni terapeutiche), uno in duo con Bill Frisell, The Elephant Sleeps But Still Remembers e uno in duo con il korista gambiano Foday Mosa Suso, Music from the Hearts of Masters.

Dei due biglietti da visita, il secondo pare molto promettente, almeno sulla carta, e siamo ansiosi di ascoltarlo. A De Johnette non servono presentazioni ed un’eventuale sperimentazione come questa non stupisce (non è lui che già trent’anni fa disse che la sua era “musica multidirezionale”?). Suso è stato uno dei primi ad elettrificare il suo strumento e a lanciarsi nell’avventura jazzistica (ricordate almeno la sua partnership con Herbie Hancock negli anni ’80?).

Bene, i due si conoscono e si stimano almeno dal 2002 e comunque, data l’esigua formazione, il compito non sarà stato facile (quattro giorni di lavorazione in studio) sebbene il batterista abbia dalla sua il fatto di non essere certo monolitico anzi, capace di esprimersi con souplesse a tutto campo ed il compagno, il fatto di avere di avere tra le mani uno strumento duttile e polivalente. Insomma, tutto farebbe presagire di trovarsi di fronte ad un incontro di portata storica.

E in effetti, il brano di apertura “Ocean Wave“, che sembra muoversi su di un ritmo di tango, vede Suso lanciarsi in accattivanti ostinati, decorati da maliziosi abbellimenti e De Johnette che si muove con eleganza a sostenere un groove molto orecchiabile. L’ottima empatia tra i due è esattamente nelle aspettative. Ma al terzo brano ci si rende conto che stanno ancora girando sull’idea iniziale, l’atmosfera non cambia, è sempre Suso che dinamicizza l’andatura, imponendo il tracciato melodico, armonico ed anche, sebbene paradossalmente, ritmico con Jack confinato a infilare appropriate variazioni ritmiche secondo uno stilema prettamente jazzistico.

Giunge a rinforzo il dousinguni, le bacchette prediligono ora il rullante ora i tom ora il charleston ma i pezzi si muovono sulle stesse coordinate.

Nel quarto la tessitura si dirada, i musicisti sembrano lasciarsi più spazio, intervengono pause a sgranare il discorso anche se l’andatura rimane ancora fortemente influenzata dalle saltellanti melodie della kora. Così anche nel quinto, “Kaira”, che è un brano tradizionale ormai canonizzato dallo strumento a corde, nel quale Suso ha buon gioco a lavorare di contrappunto sulla melodia creando uno stato di trance che permette a Jack di espandere e restringere il tempo. Caratteristica che si ritroverà anche nel brano di chiusura, “Sunjatta Keita” un altro traditional che permette a Suso di esplorare liberamente il tema e le sue variazioni ma sempre all’interno di un andamento ipnotico che però limita le possibilità di ampliarne gli orizzonti.

Superata la prima metà del disco, l’atmosfera si fa decisamente rarefatta e sospesa, i musicisti si chiamano a distanza, cercandosi. Sul tappeto ritmico creato dal leggero rullare dei tamburi, Suso lavora un po’ in sottrazione, sgranando un rivolo di frasi sincopate. Pur nella sua asciuttezza, forse il brano più costruito e compiuto, grazie anche al brevissimo apporto vocale di Suso nel finale. Ma queste improvvisazioni minimaliste e di nuovo l’intervento del dousonguni non bastano a modificare l’ipnotico groove che, ormai si è capito, caratterizza l’intero disco.

Un rapsodico call and response che apre (e sostiene) l’ottava traccia ci conferma l’impressione già assaporata qualche brano prima e cioè che i due musicisti sembrano più convincenti quando rinunciano alla danza circolare per lasciare più spazio all’improvvisazione, all’aleatorietà di un dialogo franco nel quale ognuno segue la propria strada che pure confluirà inevitabilmente in una sola perché, sebbene con voce più sommessa, farà ancora capolino la stessa andatura già conosciuta.

Una cosa è certa, Suso è il conduttore di questo tandem. In ossequio alla caratteristica principale della musica africana, lavora in verticale, inducendo progressioni e variazioni ma le frasi a boomerang, gli ostinati, i loop circolari irretiscono De Johnette in uno spazio ristretto, senza poliritmia percussiva e l’effetto a spirale soffoca ogni sviluppo, ogni tentativo di raccontare una storia. Chi ha apprezzato il batterista di Jarrett e di altri grandi dischi dell’Ecm faticherà a ritrovarne il personalissimo swing. Al disco è inclusa una traccia DVD di 6 minuti con stralci live e brevi interviste nelle quali Jack parla di groove ma secondo una concezione che forse è rimasta in parte nella sua testa.

Inevitabile riandare con nostalgia all’ottima collaborazione tra Mamadou Diabate ed il bassista Ben Allison in Peace Pipe ma non è un paragone pertinente. Qui non c’è un gruppo, non ci sono arrangiamenti, solo due musicisti che provano a parlarsi liberamente con tanta buona volontà.

Track Listing

01. Ocean wave - 6:25; 02. Ancient techno - 6:33; 03. Rose garden - 5:11; 04. Worldwide funk - 6:46; 05 Kaira (trad.) - 6:45; 06 Mountain love dance - 7:58; 07 Party (Suso) - 4:38; 08 Voice of the kudrus - 9:32; 09 Sunjatta Keita (trad.) - 5:43. Tutte le composizioni sono di DeJohnette - Suso eccetto dove indicato diversamente.

Personnel

Foday Musa Suso (kora, dousinguni); Jack DeJohnette (batteria).

Album information

Title: Music from the hearts of the masters | Year Released: 2007 | Record Label: Golden Beams


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