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Michael Blake's Blake Tartare

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Padova Porsche Jazz Festival [recensione dei concerti di Ornette Coleman e Dave Holland]

Caffe' Pedrocchi - 25.11.2006

Chi conosce anche solo in parte l’opera di Michael Blake sa che il sassofonista e compositore canadese gioca le sue carte migliori nella varietà espressiva e nell’esuberanza lirica che ne connotano l’identità.

Ogni idea, anche la più sofisticata che esce dalla sua penna, si traduce in immediatezza comunicativa senza per questo peccare di compromesso estetico.

Il festival jazz di Padova ha inserito il gruppo Tartare, guidato da Blake, nella sezione “Ance dal mondo”, in programma verso mezzanotte al caffè Pedrocchi. Ma vista la sostanza, il tono euforico dell’esibizione, più giusto sarebbe stato far ascoltare il quartetto al pubblico più vasto del teatro Verdi (anche se poi a teatro spesso si perde in parte la passione della pedana da club...).

La musica infatti ha subito conquistato esperti e curiosi, con un arco narrativo sapientemente costruito fino al climax finale. Tartare è l’avventura più imprevedibile del catalogo blakeiano e conta sulla carica giovanile, un po’ anarchica un po’ spavalda, degli amici danesi Jonas Westergaard (basso), Kresten Osgood (batteria) e Soren Kjaergaard (piano acustico ed elettrico).

La confluenza di solido jazz americano e le destrutturazioni e coloriture europee fa scoccare scintille luminose, che hanno convinto anche Enrico Rava (presente al festival come ospite della Civica Big Band di Milano) a salire in pedana a sorpresa.

Contagiato dal clima rovente subito innescato dal quartetto, Rava ha duettato con Blake con bella convinzione, inarcando la tromba in frasi acuminate, in ostinato ritmici di irresistibile presa.

Dopo questa parentesi, Blake ha pescato a piacere dal suo repertorio, brillante sia nei brani “dark”, un po’ ipnotici, che in quelli estroversi, come sempre dai sapori orientali e africani.

Ha omaggiato Jean-Luc Godard con un pezzo multi-tematico, ha fatto vibrare la “Queen Suite” di Duke Ellington, ha trascinato la platea con “Afro Blake” derivato chiaramente dalle ossessioni ritmiche di Fela Kuti. Qui Kjaergaard ha lasciato le tastiere e si è lanciato in un numero con le bottigliette del bar, trasformate in flauti un po’ particolari. In tutta questa enfasi gioiosa, pur non rinunciando a qualche ammiccamento, Blake ha saputo controllare al meglio le esposizioni al sassofono, mostrando una voce forte, flessibile, in grado di trascolorare dai pianissimo vellutati alle lacerazioni coltraniane. La sezione ritmica è stata propositiva, brillante, ancorata al basso di Westergaard, incontenibile nelle percussioni frastagliate di Osgood.

C’è stato spazio anche per un affascinante pezzo dedicato a Neil Young e per repliche festose, dato che il pubblico avrebbe ascoltato il gruppo fino al mattino.

Foto di Francesco Martinelli

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