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Lorenzo Gasperoni - Africa, mon amour

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Per riuscire a parlare con il tamburo bisogna immergersi completamente nel suo mondo, senza se e senza ma. E soprattutto senza fretta.
Batterista e percussionista. Nasce con il punk e il pop, cresce con il jazz, si innamora dell'Africa. La pubblicazione del suo ultimo album Opposite People, dedicato a Fela Kuti, ci ha dato lo spunto per incontrarlo e farci raccontare il suo percorso artistico.

All About Jazz: Come nasce la tua passione per la musica?

Lorenzo Gasperoni: Nella mia vita, per quanto mi ricordi, ho sempre suonato. Ho 42 anni e da piccolo, negli anni '70, il mio mito era Tullio De Piscopo (sinceramente, rimane tutt'ora uno dei miei batteristi preferiti in assoluto). Avevo appeso in stanza il suo poster con la HiPercussion, e passavo le giornate a guardare Tullio con il suo sorriso sornione e quella mega batteria piena di tom e piatti.

Ho iniziato a tamburellare sui banchi di scuola cercando di imitare quello che ascoltavo alla radio, alla tele, nei 45 giri... Mi ricordo che mi piaceva suonare "My Sharona" dei The Knack, con il suo rimo semplice ma allo stesso tempo asimmetrico. A tredici anni ho iniziato a prendere lezioni di batteria, a quindici suonavo nei Flebo Asma Rock, gruppo di culto della prima scena Punk milanese, età media quattordici anni! Con i Flebo ci esibivamo spesso come spalla di Jo Squillo e la sua band, poi verso i sedici anni io e il bassista del gruppo siamo diventati la ritmica di Jo.

A sedici anni ho partecipato a Azzurro '84 e svariate trasmissioni televisive di culto tra cui Mr. Fantasy, l'Orecchiocchio... Successivamente, nell'86 ho partecipato a una produzione di Mauro Pagani per la Ricordi. Il gruppo si chiamava XX, il singolo "Ma Dove," e per un'estate scorrazzammo per l'Italia suonando a svariate puntate del Festival Bar.

Verso i diciotto anni decisi che la musica sarebbe diventata la mia vita e quindi bisognava studiare sul serio. Per anni presi lezioni di batteria da Tiziano Tononi e dal grande Enrico Lucchini, due maestri di batteria così differenti per età, approccio, gusti... Parallelamente intrapresi anche il percorso di studi classici, alla Civica Scuola di Musica di Milano con il Maestro David Searcy che è stato per 20 anni il primo timpanista nell'orchestra della Scala di Milano.

A ventiquattro anni mi sono diplomato al Conservatorio di Verona. Nel contempo la mia attività di batterista jazz mi aveva assorbito completamente. Suonavo in svariati gruppi, componevo per la mia Mamud Band (che come vedremo esiste ancora). Dopo il diploma, la voglia di studiare non si era (e non si è tutt'ora) placata, scoprii le percussioni etniche, la darbuka, il djembe, le percussioni afro-cubane e indiane.

Amo definirmi un eterno studente. Da ormai quindici anni studio intensamente le percussioni delle culture extra-europee, ogni anno faccio almeno viaggio in Africa Occidentale, Cuba, India del Sud, Maghreb, per studiare o suonare con formazioni locali.

AAJ: Da queste parole, si evince che il jazz entra nella tua vita intorno ai diciotto anni. Come avviene questo passaggio?

L.G.: Nel modo più semplice, e penso più comune: attraverso i dischi di mio padre. Lui è chitarrista/cantante dilettante e appassionato di musica, aveva una collezione di dischi. Non enorme, ma i classici li aveva tutti. Così, per conto mio, a quattordici anni e senza l'aiuto di nessuno, tra un disco degli U.K. Subs e uno degli Skiantos, inizio ad ascoltare per curiosità qualcosa: il Dixieland, Duke Ellington, Errol Gardner.

Poi mi innamoro di due dischi (che ho letteralmente consumato), e la cosa inizia a farsi seria: Time Out (The Dave Brubeck Quartet), e Reflections (Steve Lacy Plays Thelonious Monk). Al di là di tutte le infinite considerazioni che adesso posso fare su quei due dischi, se chiudo gli occhi e penso ad allora, la prima impressione del disco di Brubeck furono il suono (anche l'effetto riverbero!) e il fraseggio di Joe Morello. Del disco di Lacy, invece, mi colpirono l'interplay così naturale della band, e il grande suono di Steve, così morbido e umano.

Con il tempo sono diventato un jazz-fanatico. Ho svariate migliaia di dischi (vinile, CD, digitale... mi piace ancora chiamarli dischi), il jazz mi nutre ogni giorno. Ascolto di tutto, anche se devo dire che con il tempo Duke Ellington e Miles Davis hanno conquistato un posto particolare nella mia anima.

AAJ: I viaggi, e le percussioni etniche. Due passioni che sembrano muoversi in parallelo. Nasce prima l'uovo o la gallina? Ovvero: dall'amore per i viaggi nasce l'interesse per le percussioni etniche, o dall'amore per le percussioni etniche nasce la curiosità di capire le culture che le hanno originate?

L.G.: Hai proprio ragione, prima l'uovo o la gallina? I miei viaggi sono stati quasi sempre per motivi di studio. La curiosità di vivere quello che avevo assimilato è sempre stata il punto di partenza. La conseguenza è stata che dopo aver vissuto in società così differenti dalla nostra, dove le relazioni umane hanno una intensità e una sincerità così profonde, la mia visone del mondo è drasticamente cambiata. L'energia dei rapporti umani, lo spirituale quotidiano, l'alimentazione, il clima sono tutti aspetti di uno shock culturale che ti colpisce profondamente. Studiare, vivere la musica, calarsi in una realtà, è un tutt'uno. Un viaggio alla scoperta del mondo e soprattutto di se stessi.

Ti porto un'esempio. Nel 2009 e 2010 sono stato invitato in Benin per partecipare a uno spettacolo di danza contemporanea "Dialogues Inevitables". E' un progetto basato sullo scambio culturale. Una compagnia di ballerini professionisti beninois ed europei, accompagnati da un gruppo musicale dove io ero l'unico bianco. E' stata un'esperienza molto forte. Ero stato invitato, oltre che come batterista, anche come compositore-arrangiatore. Il lavoro non era facile, la musica tradizionale del Benin è ricchissima e ritmicamente molto complessa. Ho conosciuto i musicisti, e lo stesso giorno ci siamo messi a suonare. Per loro era incredibile che io potessi capire e adattare sulla batteria i loro ritmi. Per me era incredibile quello che facevano loro. Da qui è nata una collaborazione duratura, che mi ha anche fatto scoprire altre mie potenzialità. Quest'estate abbiamo fatto una tournée europea, e in futuro spero di poterli invitare nel mio prossimo album. E' nata un'amicizia e una relazione artistica che ha superato le barriere culturali.

AAJ: Rispondendo alla mia prima domanda, ti sei definito un jazz-fanatico. Tuttavia, la tua attività musicale non è prettamente jazzistica. Anzi, direi proprio il contrario. Da un lato c'è una forte impronta etnica, dall'altro hai spesso lavorato con spettacoli teatrali e cinema. La tua collaborazione più jazz è forse quella del Produzione Propria Ensemble che, pur senza voler essere puristi (non lo sono affatto), è comunque jazz inteso in senso lato. Come spieghi questa dicotomia, ammesso che ce ne sia una?

L.G.: Domanda difficile, perché mi pone di fronte alla questione "Cos'è il Jazz?" Impossibile rispondere, o meglio impossibile dare una definizione che vada bene a tutti. In fondo al mio animo sono e rimango un jazzman, anche se lo ritengo, soprattutto oggi, un concetto quanto mai astratto.

Nella mia visone decisamente larga, si può parlare di jazz quando i musicisti dialogano liberamente attraverso i loro strumenti, affrontando un discorso che a volte è un cammino prestabilito, a volte una strada piena di curve che non si sa dove porterà. Ci sono musiche dove le regole, i codici, sono molto ferrei. Altre dove la libertà è più ampia. In ogni caso il punto centrale non è la regola, ma il profumo di libertà che essa produce. Come provocazione aggiungo che nella mia personalissima visione è jazz anche la rumba cubana, forma musicale dove l'architettura portante è il libero dialogo tra i tamburi.

Per quanto mi riguarda, quello che cerco sempre negli artisti con cui lavoro nei mie progetti è la disponibilità a un confronto senza preconcetti. Alla domanda cosa è il jazz, Louis Armstrong rispondeva "Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai."

E per amor di precisione, oltre al Produzione Propria Ensemble, mi fa piacere citare "La Vendetta di Grog," che fu il mio battesimo in ambito discografico, nonché la prima produzione di Mamud Band. Un disco interamente basato su mie composizioni, in cui la scrittura era fortemente influenzata dalle storiche produzioni di Archie Shepp come "Four for Trane".

AAJ: Veniamo alla Mamud Band, allora. Nel 1998 uscì un disco molto interessante (Amore Pirata), con ospite Lester Bowie. Poi, un lungo silenzio. Come mai?

L.G.: Amore Pirata chiude un ciclo della mia vita. Poi è arrivata l'Africa! Scoprire un nuovo mondo musicale, un linguaggio con dei codici precisi, non è cosa facile. Richiede anni di viaggi, sacrifici. I tamburi e i ritmi dell'Africa Occidentale per anni mi hanno assorbito. Per riuscire a parlare con il tamburo bisogna immergersi completamente nel suo mondo, senza se e senza ma. E soprattutto senza fretta.

In più ritengo che un disco debba essere pubblicato quando il suo autore lo ritiene perfetto in ogni suo aspetto. Vedo troppi musicisti che pubblicano solo per aggiungere un tassello alla propria discografia, o per avere un biglietto da visita per procacciarsi concerti. Un Disco ti rappresenta per l'eternità, ti rispecchia in tutto e per tutto e devi sempre esserne fiero. A modo mio, ho pubblicato lavori discografici quando ne ho sentito la necessità, e soprattutto quando avevo un repertorio che consideravo degno di essere immortalato e condiviso.

AAJ: Ora il lungo silenzio si è interrotto con la pubblicazione di Opposite People, un album sulla musica di Fela Kuti. Ci vuoi dire qualcosa di più?

L.G.: Questo progetto era in cantiere da circa 25 anni! Averlo pubblicato implica per me la chiusura di un ampio cerchio. In verità mi innamorai prima di Fela Kuti, poi del jazz!

A metà degli anni '80 avevo avuto l'opportunità di vedere Fela dal vivo un paio di volte. Fu un'esperienza scioccante: un gruppo di 30-40 artisti, tamburi tradizionali, ballerine in costume in cui il funk di James Brown si incontrava con la musica Yoruba della Nigeria. In seguito, la passione per Fela Kuti me la sono portata dietro sempre. Sia in "La Vendetta di Grog" che in "Amore Pirata," ci sono brani dedicati espressamente a lui.

Negli ultimi anni ho sentito l'esigenza di ricreare Mamud Band. Del nucleo originale rimane solo Guglielmo Pagnozzi, musicista con cui collaboro ormai da venti anni. L'idea è quella di creare un suond unico in cui si possano incontrare afrobeat, latin music, percussioni mandegue (Guinea e Mali), percussioni brasiliane e il funk.

Dopo un periodo di prove e concerti, abbiamo deciso che il disco da fare doveva essere esplicitamente dedicato a Fela. Un punto di fine, e al contempo di partenza.

AAJ: Nell'album c'è anche Bunna degli Africa Unite ...

L.G.: La collaborazione con Bunna è avvenuta nel modo più naturale possibile. Cercavo un cantante che potesse reinterpretare Fela e mi è venuto in mente lui. Ci siamo visti, ha sentito il nostro sound, ne è rimasto entusiasta e si è reso disponibile.

AAJ: Come va con i concerti?

L.G.: Il CD è uscito a Ottobre 2010. Da allora stiamo effettuando un tour di concerti e presentazioni del lavoro. Prossime date a brevissimo, il 4 marzo alla Salumeria della Musica a Milano, e sempre nella stessa città, il 12 Marzo Carnevale agli East End Studios.

AAJ: Visto che hai menzionato due serate a Milano, e che abiti a Milano, come vedi la scena musicale in città?

L.G.: La scena musicale a Milano? Mi dispiace dirlo e non voglio passare per il solito musicista frignone, ma per me è una tragedia. Non esiste un festival jazz, se non l'AH-UM Jazz Fest (interamente organizzato da musicisti, senza alcun supporto da parte delle istituzioni). Le poche realtà interessanti come il "Festival di San Lorenzo," il comune le ha definitivamente tagliate da due anni. La Cascina Monluè era un luogo fantastico dove poter organizzare concerti - festival - rassegne estive, ma il comune lo ha chiuso. Esiste una nuova realtà: il Carroponte a Sesto San Giovanni, in cui organizzazione e finanziamento sono in ogni caso affidati agli organizzatori. Per qualche anno avevano istituito la Giornata Della Musica, cancellata pure quella.

E' una situazione desolante. La Milano degli anni '80, con tutte le sue contraddizioni, offriva al pubblico un ventaglio di concerti degno di una capitale europa. Da allora ho visto una parabola discendente che mi suscita solo vergogna. Purtroppo fino a quando ci sarà un ministro dell'economia che si degna di affermare che con la cultura non si mangia, temo che la situazione sia destinata a peggiorare ancora.


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