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Libera espressionista: intervista a Rossella Cangini

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Amo sia la tradizione che l'avanguardia nel senso pratico, sentimentale e intellettivo dei due termini e le vivo entrambe, tutti i giorni, per mantenere la mia dignità di persona e di artista.
Rossella Cangini ha sviluppato, e continua a rifinire, un'estetica personale del canto. Attraverso un confronto continuo con altre forme d'arte e generi - dal tecnoteatro al jazz, alla libera improvvisazione -, ha tessuto una tela di collaborazioni che rivela una totale assenza di blocchi mentali. I recenti lavori in duo con Claudio Lodati e Fabrizio Elvetico sono un ottimo pretesto per fare il punto sul suo percorso artistico.

All About Jazz: Il modo in cui intendi il canto è stato influenzato dai tuoi studi all'Accademia delle Belle Arti di Torino e dalla preparazione della tesi su "Percezione visiva ed uditiva come fondamento logico e scientifico della multimedialità nell'arte contemporanea"?

Rossella Cangini: Ho sempre unito immagine e suono in maniera del tutto istintiva. Considero l'associazione fra la percezione uditiva e quella visiva come un qualcosa che accade in modo naturale, e che racchiude molti livelli comunicativi e di espressione, da quello estetico a quello logico o emotivo. L'influenza degli studi artistici, percettivi e anatomici presso l'Accademia hanno fatto nascere in me l'esigenza di scoprire le potenzialità comunicative ed espressive della voce, che ritengo essere lo "strumento originario" e quindi il più immediato per fare ricerca sonora. Il mio lavoro utilizza la tecnica come mezzo per scoprire ogni sfaccettatura timbrica e fonetica, attingendo sia da studi foniatrico/logopedici che da culture vocali extraeuropee, tra le quali quella tuvana. Mantengo volutamente un livello "planimetrico" dell'ascolto vocale per riuscire ad attingere a tecniche al di fuori dei recinti già consolidati; il fine ultimo è arrivare a utilizzare la voce come materiale plastico, utile a scomporre e ricomporre forme e contenuti linguistici.

AAJ: Quanto è importante un'impostazione accademica per poter sviluppare un discorso valido dal punto di vista improvvisativo?

R.C.: Se per impostazione accademica si intende la ricerca dei criteri più efficaci per attivare, organizzare e strutturare i meccanismi creativi, ritengo si tratti di un ottimo sostegno per approfondire e allargare l'articolato ventaglio di linguaggi che rientrano nella pratica improvvisativa.

AAJ: Come definiresti li tuo approccio al canto?

R.C.: Mi piace usare la voce come specchio cangiante, pronto a riflettere o distorcere forme e contenuti, alla ricerca di un dialogo giocoso e provocatorio, oppure passionale e romantico, in cui la ricerca timbrica, ritmica e melodica si srotolano in un'improvvisazione e un'interpretazione attenta alla resa dell'insieme sonoro. Mi muovo musicalmente in diversi ambiti: jazz d'avanguardia, musica elettronica e nuove forme di improvvisazione vocale (free style, rap), come a dire che più che cantante mi sento una "libera espressionista," nel mio modo di fare ricerca vocale, e di vivere.

AAJ: Quindi il termine "cantante" non ti calza?

R.C.: Se per cantante si intende un'artista che usa la voce come strumento di ricerca espressiva, direi che posso riconoscermi nel termine. Rimane il fatto che, come già detto, preferisco la definizione di "libera espressionista".

AAJ: Quanto è importante la componente del gioco per trovare la propria dimensione vocale?

R.C.: La ritengo fondamentale, nel lavoro di gruppo come in quello individuale. Il gioco innesca un meccanismo creativo che si sviluppa all'interno di regole precise che poi si possono seguire o trasgredire in modo consapevole. L'impostazione accademica dovrebbe prendere in considerazione l'idea di inserire "il gioco intelligente" tra gli approcci basilari della formazione didattica.

AAJ: Che connotazione ha la parola "avanguardia" nel tuo dizionario?

R.C.: So cosa s'intende per storia dell'avanguardia dal punto di visto artistico, intellettuale e politico, e ne ho gran rispetto e fascinazione. Il mio lavoro artistico, in solo o in collaborazione con altri musicisti, è stato sempre definito come avanguardistico. In realtà io non penso di fare nulla di così "avanti," nulla che non si possa ritrovare in forme artistiche del passato e del presente; cerco solo di fare le cose secondo un mio personale approccio, un mio sentire, svincolandomi dalle aspettative estetiche o altro. Il bisogno di identificare ogni forma artistica con i cliché stilistici già esistenti, omologa sia la produzione che la sua analisi all'interno di una griglia troppo enciclopedica per i miei gusti. L'avanguardia è un polmone secolare ma ancora capiente e capace di ossigenare chi non si riconosce nei meccanismi di omologazione.

AAJ: La tua ricerca vocale si serve anche di strumentazioni elettroniche. In che modo la naturale espressività della voce trova il suo punto di contatto con la sintesi di una macchina?

R.C.: I supporti elettronici mi permettono di creare composizioni o criteri improvvisativi basati sulla sovrapposizione di "moduli vocali" che si ripetono in loop e che poi posso sottrarre o modificare per dar vita ad un caleidoscopio di variazioni. Inoltre, essendo appassionata di "rumore" e "suonini vari," registro di tutto e questo strano "tutto" può essere archiviato o trasformato in qualcosa da usare in alternativa o simultaneamente al canto. La voce, in quanto unico supporto alla componente elettronica, mantiene un buon riverbero che si adatta di volta in volta all'ambientazione scenica dell'insieme sonoro. Non stravolgo quindi la voce con l'elettronica, ma utilizzo il mio apparato fonetico naturale. Ci tengo a precisare che non si tratta di una presa di posizione da "purista" della voce; potrei cambiare idea domani, se lo ritenessi più efficace per la resa di una nuova idea musicale.

AAJ: Le tue composizioni nascono da momenti d'improvvisazione o prendono forma da concetti predefiniti?

R.C.: A volte partono da momenti di improvvisazione da cui poi sviluppo liriche e strutture, mentre in altri casi nascono da un'idea o, per essere più precisi, da "un'immagine sonora".

AAJ: Nel corso degli anni hai dato vita a diversi progetti, il duo con Claudio Lodati denominato PLOT, o il recente FERC con Fabrizio Elvetico con cui hai realizzato The Trail of Monologues. Cosa accomuna e differenzia questo tipo di esperienze?

R.C.: Le cose che cerco in un duo sono l'empatia umana e artistica e la compatibilità di approccio espressivo e compositivo, in un gioco di collaborazione e complementarietà. E questi sono di fatto gli elementi che accomunano tutti i miei svariati progetti in duo, una formazione che peraltro ritengo efficace anche da un punto di vista logistico e pratico. PLOT e FERC si differenziano sia per il taglio di atmosfere che per la scelta degli elementi sonori e linguistici. Il primo intreccia sonorità elettroniche, vocali e acustiche in un gioco provocatorio, alternando i toni ironici e romantici con una godibilità quasi "radiofonica" (anche per la durata dei pezzi) e mantenendo un fraseggio, seppur estremo, identificabile nelle trame jazzistiche e pop-rock. Il secondo progetto, essendo studiato per futuri live multimediali audio/video, propone sequenze aperte e circolari che creano atmosfere diverse in un crescendo di tensione audiovisiva in cui la sinergia tra suono e immagine vuole essere immediatamente percepita dall'ascoltatore. Il tutto viene inglobato in una gamma sonora più contaminata, che va da post-punk e industrial al jazz.

AAJ: Un altro duo di stampo multimediale è stato NAMBEO, con Gemma Santi. Che tipo di esperienza è stata?

R.C.: Un'esperienza intensa e ricca dove le improvvisazioni con voce e immagini esplorano il concetto di cerchio, inteso come forma ancestrale di un mondo allo stesso tempo interno ed esterno a noi. Infatti, il progetto si chiama "Dentro un cerchio" e, nelle varie esibizioni, ha incluso la danza contemporanea con il lavoro della giovane coreografa e improvvisatrice Clelia Riva.

AAJ: In effetti la danza è presente anche in altri tuoi progetti.

R.C.: Sì, in tal senso vorrei ricordare l'esperienza con Daniela Paci, nota coreografa di danza contemporanea e improvvisatrice eccezionale. Abbiamo lavorato insieme in diverse occasioni, in duo e con la sua compagnia l'Artimista. Un'esperienza davvero poetica.

AAJ: Mentre del lavoro Denique caelum con Massimo Barbiero che ricordo hai?

R.C.: Quel progetto costituisce il momento più maturo di una lunga esperienza musicale, in cui ho potuto concretizzare ogni possibilità di metamorfosi fonetica nel canto, con e senza parole, con temi melodici o improvvisazione pura, attraverso storie che partono dal nulla per raccontarsi e viversi nel tragitto, in capitoli sempre diversi e uniti da un unico filo conduttore che in Denique caelum è stato suggerito dall'"Ulisse" di James Joyce.

AAJ: Nel frattempo stai preparando un progetto in solo.

R.C.: Il mio progetto solista "Eco," già attivo come performance dal vivo, è ancora in fase di registrazione. In questo caso la voce si sovrappone a rumoristiche elettroniche secondo varie modalità compositive. Le melodie e le liriche sono in perfetta sintonia con il mio modo di essere e pensare. Il resto lo sentirete ascoltando il disco. Probabilmente si tratterà di un DVD, visto che sto pensando a una nuova modalità di accostare immagine e voce senza ricorrere all'utilizzo del video. E per ora non svelo altro.

AAJ: Tra i tanti musicisti con i quali hai avuto modo di collaborare, chi ti ha lasciato l'insegnamento più profondo?

R.C.: Sinceramente penso che, in maniera diversa, ognuno di loro abbia nutrito e incoraggiato il mio percorso lasciando tracce artistiche e umane indelebili. Massimo Rossi, un compositore molto raffinato e originale, mi ha introdotta tra le righe pentagrammate del jazz contemporaneo con il suo dodecafonico e poliritmico intreccio di linee vocali. Claudio Lodati mi ha influenzato con le romantiche e struggenti melodie dal suo fraseggio policromo e psichedelico. Massimo Barbiero per la capacità di creare ensemble musicali sempre diversi e avvolgenti. Fabrizio Elvetico, "centrifuga contaminante" e "distruttore di stili" come me, per l'approccio compositivo e improvvisativo. Sì, tutti hanno una parte di me e io di loro e, in questo senso, penso che non ci siamo scelti a caso.

AAJ: La tua musica è rivolta a un determinato tipo di ascoltatore?

R.C.: Mi rivolgo a svariati tipi di ascoltatori, accomunati da un'avida curiosità e una sana passione critico/percettiva di ascolto, che abbiano la capacità di lasciarsi andare resettando filtri culturali e riuscendo così a godersi meglio lo spettacolo.

AAJ: A parte il tuo percorso musicale e discografico, hai accumulato esperienze nell'ambito del teatro sperimentale e il tecnoteatro. Nello specifico, di cosa si tratta?

R.C.: Sì, in effetti dai tempi dell'accademia ho intrapreso alcune esperienze teatrali, partendo dal ruolo di rumorista di scena, "presta voce" per spettacoli di marionette, per finire col condurre seminari di sperimentazione vocale, insieme al regista Emilio lo Curcio, fondatore della scuola d'improvvisazione teatrale Maigret & Magritte di Torino. L'esperienza del tecnoteatro era inglobata nel progetto NAMBEO, che nelle sue performance più allargate ha voluto creare, col supporto tecnologico, scenografie "audio visive" sperimentali.

AAJ: Cosa è il "Movimento Creativo Migrante?

R.C.: È un progetto che vuole far conoscere e spostare artisti di città diverse, facendoli improvvisare insieme, nel loro linguaggio artistico. Nel 2011 ho fondato questo movimento con Fabrizio Elvetico, facendo migrare e suonare artisti torinesi a Napoli insieme ad artisti napoletani, e viceversa, facendo migrare artisti napoletani a Torino per farli incontrare e improvvisare con artisti torinesi. Trovo che in un mondo "liquido," il contatto virtuale debba essere solo una scrematura iniziale di scelta informativa e di conoscenza di nuovi artisti. Il resto deve evolversi nella realtà umana, fisica ed espressiva. Quando scopro artisti interessanti mi muovo e cerco di conoscerli e lavorarci insieme, in quest'ottica ho voluto creare un progetto allargato sperando che l'atteggiamento di "mettersi in gioco" apra recinti stilistici e mentali alla produzione artistica.

AAJ: Quando tieni seminari sul canto e sul modo di utilizzare la voce, qual è il messaggio principale che cerchi di far percepire a chi ti ascolta?

R.C.: Cerco da subito di far capire che la voce è una risorsa fisica di estrema potenza espressiva; propongo poi dei criteri tecnici per scoprire l'autenticità e l'identità vocale di ognuno. La prima cosa che chiedo alle persone che partecipano ai miei seminari è di individuare i cantanti con una voce simile alla loro, mentre in genere chi inizia a cantare prova a imitare il proprio cantante preferito. Il cercare nell'altro il nostro suono o un suono simile ci catapulta verso un ascolto attivo, più centrato sulla voce intesa come strumento composto da più elementi che lo identificano per carattere e forma espressiva. Insomma, in un certo senso li faccio mettere allo specchio e li aiuto a togliere aspettative estetiche e tensioni.

AAJ: Quanto si rispecchiano sperimentazione, improvvisazione e avanguardia nel tuo modo di essere come persona?

R.C.: Conosci il detto "l'arte di arrangiarsi"? Beh, vivendo in questi termini di realtà, completamente precaria, e data la mia scelta ostinata di "artista estrema," mi ritrovo quotidianamente e naturalmente a improvvisare ricette, prendendo ciò che resta nel frigo. E garantisco pranzetti alquanto succulenti! Improvvisare nel riciclo di cose vecchie trasformandole in oggetti di arredo, un po' come facevano le nostre nonne. Che dirti, amo sia la tradizione che l'avanguardia nel senso pratico, sentimentale ed intellettivo dei due termini e le vivo entrambe, tutti i giorni, per mantenere la mia dignità di persona e di artista.

AAJ: Musicalmente parlando, cosa hai in mente di cucinare prossimamente?

R.C.: Ho iniziato a lavorare a un progetto sperimentale sullo spazio scenico che per ora porto in giro a livello di ricerca laboratoriale. Si tratta di far entrare la voce (traccia/proiezione sonora del corpo) e l'ombra (proiezione del corpo) in totale sinergia di movimento. Il progetto si chiama infatti "Il canto dell'ombra" e io lavoro sullo sdoppiamento e la rifusione dei due elementi, creando da un lato un metodo di studio vocale in cui la voce diventa funzionale a una resa espressiva e visiva, e dall'altro un nuovo criterio più fisico e meno tecnologico di multimedialità, basato sulla proiezione fisica della forma dei due elementi.

Foto di Massimo Forchino (la prima, la quinta e la sesta), Luca D'Agostino (la seconda) e Gemma Santi (la quarta)


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