Fabrizio Puglisi - Ernst Glerum - Han Bennink: Laiv

Serata memorabile quella capitolina di quattro anni addietro [per chi c'era, e, finalmente, anche per chi non c'era]. I sei minuti scarsi dell'iniziale "Impro 1," come questa recensione, vanno subito al dunque. La musica è ad alto tasso di esplosività, intrisa di un nervosismo spigoloso e di un'urgenza espressiva che prendono allo stomaco. La tensione sale di secondo in secondo, fino a quando i fili sparsi del primo brano si riannodano magicamente intorno alla monkiana "Epistrophy". È una liberazione l'ingresso del tema sbiascicato dal pianoforte e accompagnato dallo swing implacabile della batteria di Bennink [uno che quando c'è da swingare, swinga di brutto: alla faccia dell'etichetta, spesso cucitagli addosso con troppa disinvoltura, di improvvisatore radicale]; una liberazione che dà la stura a un vertiginoso gioco di incastri e saliscendi.

Nel blocco Monk sta il senso profondo del disco. "Epistrophy" e "Crepuscule with Nellie" sono l'habitat naturale delle geometrie improbabili di Puglisi, che nell'albero genealogico del piano jazz sta sulla linea che idealmente parte da Ellington e Hines per arrivare a Monk, appunto, Herbie Nichols, Don Pullen, Mal Waldron e Misha Mengelberg. Il più olandese dei pianisti non olandesi, che nella terra dei mulini a vento ci ha pure vissuto qualche anno, snocciola frasi sapide con una disinvoltura prodigiosa: il tutto con un senso del ritmo impeccabile e un gusto armonico tridimensionale. Riuscitissimo l'omaggio a Ellington nella sensuale "African Flower," così come la rilettura di un classico di Jimmy Rowles, "The Peacocks".

Tra Bologna e Amsterdam: tigelle e tulipani.

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