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Il suono delle parole: incontro con Giovanni Fontana

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Gli anni Settanta furono molto importanti per la ricerca artistica. Bisogna ricordarli come gli anni della svolta. Al poeta si richiedeva un gesto coraggioso.
—Giovanni Fontana
Incontriamo Pier Luigi Ferro e Giovanni Fontana in occasione della giornata intitolata "Futuristi amorosi guerrieri," al Teatro Chiabrera di Savona (20 maggio 2009). Un'occasione speciale dato che il poeta e performer Giovanni Fontana ha eseguito una versione del "Poema del candore negro" di Farfa, ossia Vittorio Osvaldo Tommasini, futurista della prima ora insieme a Filippo Tommaso Marinetti. La prima pubblicazione del Poema risale al 1935.

Pierluigi Ferro, saggista letterario, ha curato l'edizione contemporanea del Poema, pubblicato ad inizio anno da Viennepierre Edizioni di Milano, in una fedele ristampa anastatica.

All About Jazz: Nella prefazione al Poema del candore negro Lei ritrae il nuovo clima culturale europeo degli anni Trenta, alla vigilia di una grande catastrofe storica. L'arrivo delle nuove tendenze dagli USA, il jazz. In questo contesto si inserisce la scrittura del poema, in cui Farfa inventa questa strana ipotesi: un nero desidera diventare bianco, fisicamente, psicologicamente.

Secondo la sua opinione, sotto la superficie provocatoria ed iconoclasta farfiana, si può ipotizzare che il poeta con le sue parole nascondesse una sorta di immaginario desiderio per una società multietnica, idea questa che porrebbe le intenzioni del Poema del candore negro oltre l'interesse del tempo per la cultura americana e jazz all'epoca ritenuta "esotica"?

Pier Luigi Ferro: L'interpretazione del Poema del Candore Negro come espressione di un sentimento antirazzista è stata effettivamente sostenuta una ventina di anni fa da Giovanni Farris; ma a me pare una evidente forzatura ed un anacronismo, tra l'altro strumentale, perché veniva introdotto per sostenere che quella fosse la ragione di una buona accoglienza del testo negli ambienti cattolici di Savona. Il tutto appoggiato sull'episodio di una lettura farfiana nel convento dei Cappuccini, favorita da Fra Ginepro, che francamente era titolare di un'ideologia di tutt'altro segno, e sul ruolo che ebbe Angelo Barile, dedicatario dell'opera insieme a Giovanni Acquaviva, nella stesura e nella promozione di questo testo. Di questo do ampiamente conto nello studio che ho premesso all'opera.

Nella mentalità europea dell'epoca, nel migliore dei casi, non si andava al di là di una paternalistica comprensione del diverso e della suggestione per l'esotico, in ogni caso atteggiamenti molto lontani da ciò che oggi possiamo intendere per antirazzismo. Allora si può dire che Farfa, in ragione della forza trasgressiva e originale della sua fantasia, del suo sentimento anarcoide, sia portato a rovesciare i luoghi comuni e le più consuete figurazioni della mentalità dell'epoca, in quanto, soprattutto, erede di una clima ideale maturato negli anni Venti.

Intendo riferirmi a quel gusto cosmopolita e brillante che faceva perno sul mondo del tabarin, del jazz band, del notturno metropolitano, in cui la figura dell'uomo di colore, nel campo della musica jazz, dello sport, cominciava a trovare una sua dimensione. Gusti e attitudini lontane dal senso comune borghese, evasivi ed eversivi, anche sotto il profilo dei comportamenti sessuali. Non è un caso che Farfa abbia collaborato ad una rivista come la torinese "Tabarin," diretta da Max Manolo.

E' la forza della fantasia, l'attitudine a rovesciare gli schemi che porta questo straordinario ed eccentrico poeta a ribaltare un luogo comune così diffuso nella letteratura e nella prassi coloniale (pensiamo ad un fenomeno come il madamato): quello di un rapporto tra l'uomo bianco e un'indigena. Del resto, il motivo del rapporto tra un nero ed una donna bianca, che è poi l'obiettivo del protagonista del Poema, come ho dimostrato, si trovano sia nella narrativa di Marinetti e Fillia, assai vicini a Farfa, sia in certa letteratura di genere dell'epoca, come in "Sambadù" di Mura.

AAJ: Perché ha scelto ed invitato proprio Giovanni Fontana per la prima interpretazione non-farfaniana del poema? Al poeta chiediamo invece perché ha accettato.

P.F.: Conosco Gianni Fontana da più di vent'anni. Ci siamo incontrati perché entrambi avevamo un amico comune: Adriano Spatola, il teorico della poesia totale ed uno dei maggiori poeti italiani del dopoguerra.

Ho scritto un saggio su un suo lavoro ("Tarocco Meccanico") ed ho collaborato ad una rivista che alcuni anni fa dirigeva ("La Taverna di Auerbach"), insieme abbiamo curato una mostra di poesia visiva dedicata alla memoria di Spatola, che ha avuto luogo a Celle Ligure nel 1990 e alla quale hanno partecipato con le loro opere una cinquantina dei migliori artisti di questo campo a livello internazionale.

Ho molta stima di Fontana, lo ritengo tra i più validi performer e poeti contemporanei nel campo della sperimentazione. Pochi mesi fa l'ho anche invitato a collaborare con uno scritto e con delle poesie visive ad un fascicolo della rivista "Resine" intitolato "Scarti Rifiuti Avanzi" e, vista la qualità di quello che mi è arrivato, non me ne sono davvero pentito. Insomma, ne ho sempre apprezzato le qualità umane ed artistiche, e la grande professionalità, ogni volta che abbiamo combinato qualcosa insieme è sempre andata a buon fine: è del tutto naturale quindi che abbia pensato a lui.

Giovanni Fontana: L'amicizia con Pier Luigi Ferro è nata sui comuni interessi per la poesia. Abbiamo per anni molato la nostra farina al "Mulino" di Bazzano, dove Spatola curava le sue edizioni. Subito dopo la sua morte Ferro organizzò un convegno a Celle Ligure di cui resta un importante volume di saggi da lui curato (Costa & Nolan, 1990) che rappresenta un fondamentale punto di partenza per lo studio di Spatola. Pier Luigi mi offrì la possibilità di trattare gli aspetti performativi della sua opera. Da allora le collaborazioni e gli scambi sono stati sempre di grande interesse. Tra l'altro ricordo di aver disegnato la copertina di un suo bel libro di poesia: "Figure per il coro" (1992). Quando mi ha proposto di intervenire su Farfa ho accettato immediatamente perché penso che l'impresa della ristampa anastatica del Poema del candore negro sia di fondamentale importanza. Oltretutto Ferro è riuscito ad analizzare con grande lucidità questo originalissimo testo controcorrente inquadrandolo perfettamente nei suoi tempi. D'altra parte non nego che reinterpretare testi delle avanguardie storiche mi intriga moltissimo.

Ho proposto in varie occasioni opere futuriste e dadaiste. In particolare (al di là della contingenza del centenario del futurismo) mi sono soffermato molto su Marinetti, sull'"onomalingua" di Depero, sugli scherzi sonori di Balla; ho lavorato su Palazzeschi e, recentemente, ho riproposto in una nuova versione "Piedigrotta" di Francesco Cangiullo, con la collaborazione di Luca Salvadori al pianoforte preparato e al sintetizzatore. E poi, con Farfa, mi attirava moltissimo l'idea di poter ripercorrere il futurismo in chiave jazzistica.

AAJ: Ascoltando la sua voce questa sera, abbiamo notato la capacità di indicare timbriche profonde, con piacere abbiamo inteso la sua familiarità con il microfono. Che tipo di studi ha fatto sulla materia sonora della voce?

G.F.: Nella seconda metà degli anni '60 mi dedicai allo studio dei rapporti tra parola, suono e immagine, collegando l'esperienza pittorica a quella teatrale e musicale; collaboravo con gruppi teatrali, studiavo musica da autodidatta cimentandomi sulla chitarra e sul flauto dolce e ascoltavo molto jazz.

Possiedo ancora una collezione di dischi in vinile che supera abbondantemente il migliaio di pezzi. Allora ero affascinato dall'avanguardia teatrale e dal linguaggio cinematografico. Cominciai a frequentare i teatri romani, a seguire con assiduità le proiezioni d'essai, ad approfondire le conoscenze musicali nel campo della ricerca contemporanea e dell'elettronica.

Dopo alcune esperienze di teatro (dapprima come scenografo, poi come musicista, infine come attore), nel 1968 costituii un gruppo teatrale, con il quale misi in scena il mio primo testo: "Qui si parla di Belacqua e del suo apriscatole". Nello stesso anno conobbi Cesare Zavattini con il quale tenni rapporti per il suo progetto dei "cinegiornali liberi". Zavattini si interessò al gruppo teatrale e fece in modo di farci tenere una serata a Roma. Il suo giudizio mi fu di grande aiuto. Era un maestro dell'interdisciplinarità.

Da quel momento, accanto alla scrittura e al lavoro verbo-visivo, iniziai le prime sperimentazioni sonore su nastro magnetico che utilizzai in teatro (1968-1972) e che, gradualmente, diventarono la mia "poesia sonora". La voce è stata educata sul campo!

AAJ: Pensando all'Italia degli anni '70 ci vengono subito alla mente le grafiche di Gianni Sassi per i dischi di Cramps Records, gli Area, i Festivals, Milanopoesia. Giorni di interdisciplinarità, incontri tra le espressioni. In che modo accadeva tutto questo?

G.F.: Ho conosciuto Gianni Sassi, che mi invitò a "Milanopoesia" nel 90. Con lui e con un gruppo di poeti, tra i quali Corrado Costa e Franco Cavallo (entrambi scomparsi), mettemmo su un bizzarro progetto per una rivista creativa che doveva intitolarsi "LITAGLIA, semestrale del mattino," mai venuta alla luce per mancanza di fondi.

Gli anni Settanta furono molto importanti per la ricerca artistica. Bisogna ricordarli come gli anni della svolta. Al poeta si richiedeva un gesto coraggioso per evitare che le problematiche dell'impegno sessantottesco facessero piazza pulita delle istanze poetiche. Ci fu un grande fermento culturale intorno a riviste e a rassegne internazionali. Per me, in quegli anni, è stata fondamentale l'amicizia con Adriano Spatola, con Giulia Niccolai e tutto il gruppo di "Tam Tam," iniziativa che nacque dopo la crisi di "Quindici". Entrai nella redazione della rivista e iniziai a frequentare i territori della sperimentazione poetica internazionale, stringendo rapporti di collaborazione con i più significativi esponenti: da Dick Higgins a John Giorno, da Henri Chopin a Bernard Heidsieck, da Julien Blaine a Jean-Jacques Lebel. Nel 1977 Spatola mi pubblicò "Radio/Dramma," un testo che incarnava le tensioni interdisciplinari di quegli anni, testo che si poneva tra poesia visiva, scrittura paramusicale, fonetismo, partitura d'azione, libro d'artista.

Conobbi Arrigo Lora Totino, che stava pubblicando alla Cramps Records di Sassi la sua "Futura" (antologia di poesia sonora). Lì incrociai il mitico Demetrio Stratos. Purtroppo non arrivai in tempo per l'inclusione in quella raccolta, che fu presentata a Fiuggi in una storica rassegna di "poesia visuale e fonetica" organizzata da Spatola e da me: "Oggi Poesia Domani". Era il settembre 1979. Stratos ci aveva lasciato a giugno.

Già nel 1981 Arrigo Lora Totino (bontà sua) mi definirà come "uno dei migliori poeti sonori italiani". Senza mezzi termini, per Adriano Spatola diventai "un maestro," addirittura "diabolico". Lo disse in una videointervista pubblicata in "Videor" nel 1988. Era l'anno della sua scomparsa. Sono molto orgoglioso di questo giudizio.

AAJ: Ci accennava prima ad un imminente progetto con il Maestro Ennio Morricone. Può dirci di cosa si tratta brevemente?

G.F.: Si tratta di "Fotodina(ni)mismo," una Cantata per coro, orchestra, nastro magnetico e voce, composta per il centenario del movimento futurista. Testo mio e musica del Maestro. E' di una di quelle composizioni che Ennio Morricone definisce di "musica assoluta". La prima esecuzione ci sarà in ottobre.

Prima foto: copertina di Farfa, "Poema del candore negro" (Viennepierre Edizioni/Milano 2009, a cura di Pier Luigi Ferro)

Terza foto: La voix et l'absence

Quinta foto: Giovanni Rubino, Corrado Costa, Gianni Sassi, Franco Cavallo, Giovanni Fontana e William Xerra il 22 ottobre 1989 a Piacenza, giorno della fondazione de LITAGLIA, 'semestrale del mattino' mai venuto alla luce (prima pubblicazione rivista "Altri Termini" 1991).


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