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Il nuovo CD di Dino Betti raccontato a due voci

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A due anni esatti dal precedente September's New Moon, Dino Betti van der Noot torna sotto i riflettori con un disco nuovo di zecca e ovviamente, come sempre, tutto si può dire tranne che il CD, The Stuff Dreams Are Made On (Incipit, distr. Egea), non richieda un attento, meticoloso lavoro di scavo. Tanto attento e meticoloso che abbiamo deciso di compierlo insieme: noi proponendo possibili chiavi di lettura, il diretto interessato chiarendo, motivando, illustrando le proprie scelte.

Sarà il caso di partire da una considerazione di respiro più generale, nel momento in cui quest'ultimo lavoro pare accentuare due caratteri che si sono andati via via affermando nella più recente produzione bettiana (diciamo quella del terzo millennio): la scultoreità, e la solennità. La musica sembra procedere più che mai per masse - più che per macchie - sonore, restituendo un senso di grande plasticità, rotondità, densità, come se fosse scolpita nel marmo.

Su un altro côté creativo, diciamo che - come humus - potrebbe ricordare un Morlotti, uno Shiraga, un Borghi, pittori certo diversi, ma con un tratto comune, che è appunto la densità (la matericità, anche). Ognuno con un suo codice di possibile parentela con la musica di Dino Betti: Morlotti e Shiraga l'uno nella sopravvivenza e l'altro nel superamento di tratti ancora figurativi (ciò che, in The Stuff Dreams Are Made On, può coincidere con l'elemento ritmico, quasi del tutto assente, almeno in senso canonico); Borghi specificatamente per la capacità di dare ordine, equilibrio, un grande senso della forma complessiva, anche là dove la materia si frammenta, si diversifica, si scinde su più piani.

Ci sorride quindi l'idea che, se fosse un pittore, Dino Betti prediligerebbe materiali corposi, oli grassi, o miscelati con sabbie e pigmenti vari, e cromatismi anche molto diversificati ma per lo più netti, con abbinamenti arditi. "Premesso che per illustrare visivamente il senso dell'album ho scelto ancora una volta, come copertina, un'opera di mia figlia Allegra - esordisce il diretto interessato - trovo interessante il parallelismo pittorico avanzato. In realtà, a volte, mi sento più affine a Morandi, perché mi pare di aver essenzializzato la scrittura orchestrale, alternando momenti di sospensione ad altri in cui quelle che tu chiami masse riempiono tutto lo spettro auditivo. Non prediligo una materia rispetto a un'altra: tutto va bene purché serva a esprimere il panorama emotivo che cerco di trasmettere. Per quanto riguarda il ritmo, è vero che esco dagli schemi battuti, cercando però di continuo una poliritmia che risulti dalla sovrapposizione di figurazioni fra loro contrastanti. L'uso delle terzine di minime e semiminime, praticamente assenti nella pratica jazzistica, mi serve ad esempio per spingere ulteriormente in questa direzione, fino a ottenere un flusso ritmico quasi liquido".

Venendo all'altro carattere cui si alludeva, la solennità, in The Stuff Dreams Are Made On lo troviamo per lo più intrecciato con la scultoreità/densità di cui sopra, ma non mancano momenti in cui emerge in maniera più esplicita, diretta, tipo il tema che apre il secondo brano, "Our Heavenly Land," attraversato poi da un magistrale duetto fra Mandarini e Visibelli, il cui tenore evoca addirittura Ayler. "I temi ci sono sempre - ribatte Dino - e rappresentano il materiale di partenza, su cui e da cui si sviluppa ogni composizione. Nel brano specifico, se ne susseguono ben tre: il primo, che viene ripreso in un'altra forma prima della conclusione, è un ripensamento dei corali evangelici affidato a una brass band in avvio e al tutti orchestrale alla fine; il secondo, una sorta di marcia modale, è più drammatico, con uno sviluppo melodico che dimentica le stanghette che separano le battute; il terzo, un interludio, è il frammento di un inno inglese ottocentesco, dilatato e lasciato sospeso. Certamente c'è solennità, nel brano, del resto voluta e cercata, ma anche drammaticità, come dicevo, e speranza, nel free di chiusura, dove l'iniziale apparente cacofonia sfocia in una triade perfetta di Mi bemolle maggiore".

Facendo un passo indietro, il brano d'apertura (che dà il titolo al CD) parte con un collettivo sfrangiato, irregolare, peraltro dall'alto di quell'assoluto senso della forma, del totale, di cui si è detto. "Il tema viene sospeso prima degli assoli - precisa Betti - per essere ripreso nella sua interezza sul finire". Un grande piglio orchestrale segna da subito il terzo episodio, "Moonscape" ("il cui titolo è lo stesso di un'opera di Roy Lichtenstein," rivela l'autore), dopo di che è il flauto (poi il trombone) a guadagnare il centro della scena.

E si arriva così al momento più criptico, eccentrico, del disco. Il titolo, "Just to Amuse a Muse," ne dichiara peraltro eloquentemente gli intendimenti. Si tratta infatti di un puro e semplice divertissement, come ci spiega lo stesso autore: "È davvero un divertimento: l'uso di un tema AABA (magari con gli A un po' irregolari) decisamente orecchiabile, il gioco di modificare le pronunce dei fiati man mano, la ritmica che cambia continuamente stile, lo scherzo del coretto dei sassofonisti, sono un modo per allentare la tensione in un album dove di tensione ce n'è da vendere. È stato anche, per me, il divertimento di affrontare di nuovo, dopo tanti anni, l'orchestrazione classica della big band, qualcosa che sta comunque alla base della mia cultura e delle mie scelte musicali".

Curiosamente, tuttavia, il brano contiene due brevi interludi quasi free, oltre al citato coretto finale, unico momento "cantato" del CD, da cui la voce, sempre presente nei lavori più recenti di Dino, di conseguenza scompare. "Considero il free - ci spiega l'autore - fondamentalmente una tecnica espressiva che, a mia volta, mi sento libero di utilizzare dove mi serve, anche se poi, in realtà, tutti gli interventi apparentemente free poggiano su basi che free non sono affatto, almeno nel senso stabilito dalla prassi. Circa l'assenza della voce, probabilmente avevo bisogno di trasmettere emozioni in maniera più astratta (già nell'album precedente, del resto, c'era un solo brano cantato). Forse oggi m'interessa di più approfondire il discorso orchestrale e l'interazione fra parti scritte e parti suggerite verbalmente".

E qui entra in gioco il rapporto con i musicisti, tutto da approfondire. "Uno degli elementi che più differenziano quest'album dai precedenti forse sta proprio nel fatto che qui non mi preoccupo più di fornire a chi improvvisa dei percorsi su cui liberare la sua creatività, ma cerco invece di costruire un unicum dove parti scritte e ad libitum siano totalmente intersecate, unitarie. In questo mi ha aiutato moltissimo il fatto che la maggior parte dei musicisti coinvolti ha già lavorato con me, conosce e condivide (almeno quando suoniamo insieme) il mio pensiero musicale ed è disponibile a percorrere insieme strade nuove, per cui io so perfettamente come pormi nei loro confronti e cosa chiedere, cioè di raccontare delle storie svincolati da qualsiasi obbligo stilistico, di essere se stessi e interagire con i percorsi e le strutture delle composizioni. Ai componenti di quella che si chiamerebbe teoricamente 'sezione ritmica' chiedo poi di dialogare costantemente con il resto dell'orchestra e con i solisti, in modo da creare un continuo intreccio ritmico e melodico. Tecnica e creatività unite, quindi, ciò che ho trovato in coloro che hanno con me un'ormai lunga frequentazione come nei nuovi arrivati. Bisognerebbe analizzare le performance di ciascuno, che personalmente trovo memorabili, ma per non dilungarmi mi limiterò a dire che questo disco non sarebbe stato possibile senza la creatività e la generosità di Mandarini, Cerino, Visibelli, Gusella, Parrini, Tacchini, Cattaneo, Zitello, Alberti, Bertoli e Tononi, e senza la sicurezza data da LoBello e Begonia".

Chiudendo il cerchio, l'ultimo brano del CD, "Not Merry Not Sad," decolla su un tono quieto e solenne, per regalarsi poi aromi ora esotizzanti, ora quasi liturgici, entro un alone di gravità esemplificato dall'incedere degli ottoni ma non solo. È con tutta probabilità questo l'episodio più composito dell'album, "tutto basato - come ci dice l'autore - sulla cellula tematica iniziale, che si sviluppa in maniere differenti e anche un po' imprevedibili fino a ritornare, semplicissima, e svanire in un mix di suoni e rumori. In sostanza, l'utilizzo del materiale, sia tematico che riferito all'orchestra di cui dispongo, varia continuamente ed è sempre al servizio, senza preclusioni stilistiche, della storia che intendo raccontare".

E circa le additate inflessioni esotizzanti (qui come in altri frammenti del disco), i flauti di Cerino e Visibelli (il dizi, cinese, e il bansuri, indiano), certe sonorità che riecheggiano il sitar e altro ancora? "Sono suoni presenti anche nei dischi precedenti," precisa Betti. "Forse stavolta hanno semplicemente maggior evidenza. Mi affascinano i loro timbri, quel suono un po' indeterminato. Ci sono anche campane e gong, oltre ad altri strumenti sintetizzati o campionati, che tuttavia non utilizzo secondo gli schemi propri delle loro tradizioni, ma inserendoli nel mio concetto di orchestra. È come se ci fosse una linea continua che lega luoghi e tempi anche molto lontani fra loro attraverso una continua mutazione. Io credo fermamente nella necessità e nella bellezza dell'ibridazione e del cambiamento, elementi da cui del resto il jazz trae da sempre buona parte della sua forza".

Sottoscriviamo. E lasciamo volentieri la parola all'ascolto.

Elenco dei brani:

01. The Stuff Dreams Are Made On; 02. Our Heavenly Land; 03. Moonscape; 04. Just to Amuse a Muse; 05. Not Merry Not Sad.

Musicisti:

Gianpiero Lo Bello, Alberto Mandarini, Daniele Moretto, Alberto Capra (tromba, flicorno); Luca Begonia, Stefano Calcagno, Humberto Amesquita (trombone); Giovanni Di Stefano (trombone basso); Francesco Bianchi (clarinetto, sax alto); Sandro Cerino (dizi, flauto, flauto contralto, clarinetto basso, sax alto); Giulio Visibelli (bansuri, flauto, flauto contralto, sax soprano e tenore); Claudio Tripoli (flauto, sax tenore); Gilberto Tarocco (flauto, flauto contralto, clarinetto, clarinetto basso, sax baritono); Luca Gusella (vibrafono); Emanuele Parrini (violino); Alberto Tacchini (pianoforte); Niccolò Cattaneo (organo, live electronics); Vincenzo Zitello (arpa, viella); Gianluca Alberti (basso elettrico); Stefano Bertoli, Tiziano Tononi (batteria, percussioni); Marco Zangirolami (sound programming); Dino Betti van der Noot (direzione).

Foto di Titti Fabiani (Dino Betti van der Noot), Sara Testori (Allegra Betti van der Noot), Dario Villa (Visibelli) e Sandro Cerino (Cerino).

Opere in link: 1. Ennio Morlotti, Vegetazione (1965); 2. Kazuo Shiraga, Wild Boar Hunting II (1963); 3. Alfonso Borghi, Battaglia (2011); 4. Roy Lichtenstein, Moonscape (1965).


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