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Ensemble Tabula Rasa - Una terra, due popoli

Ensemble Tabula Rasa - Una terra, due popoli

Courtesy Roberto Testi

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Siena
Micat in Vertice
Teatro dei Rozzi
12.4.2024

Appuntamento ormai annuale, quello con il concerto di Tabula Rasa, la formazione del laboratorio di improvvisazione che Stefano Battaglia tiene a Siena in collaborazione con l'Accademia Chigiana e Siena Jazz, unendo l'ambito classico con quello jazzistico. Stavolta la formazione era un po' più ristretta rispetto agli anni precedenti e, soprattutto, aveva una composizione strumentale fondamentalmente cameristica, cosa che ha inevitabilmente indirizzato la musica verso sonorità più classico-contemporanee che non jazzistiche.

Intitolata Una terra, due popoli, l'opera era chiaramente dedicata al conflitto israelo-palestinese, ispirandosi idealmente anche alla musica di quelle terre; piuttosto lunga, circa tre ore, era divisa in due parti —"Due popoli" e "Una terra" —a loro volta scadenzate in più parti e separate da un intervallo. La formazione vedeva accanto al pianoforte del conduttore le voci di Elsa Martin e Noemi Fiorucci, il ney di Harris Lambrakis, i flauti di Stefano Agostini, l'oboe, il corno inglese e il clarinetto basso di Christian Thoma, la chitarra elettrica di Nicolò Faraglia —unica timbrica estranea al classicismo —, il violoncello di Sarvin Asa e il contrabbasso di Stefano Zambon. Totalmente assenti le percussioni, che pure tanta parte avevano avuto nelle edizioni precedenti dell'ensemble, così come sassofoni e ottoni.

Nel programma ispiratore di Battaglia, la prima parte narrava la storia tormentata dei due popoli, scadenzandone alcuni momenti fondamentali —dalla dichiarazione di Balfur del 1917 a quella di Oslo del 1994, fino al sacrificio di Aaron Bushnell quest'anno —, concludendosi poi con due brani inneggianti alla pace, cantati in entrambe le lingue; la seconda descriveva e narrava la terra contesa, con una serie di quadri relativi a luoghi simbolo come Ebron, Tel Aviv, Gaza, il Sinai, ma anche l'Ararat e Aleppo, anch'esse terre contese e attraversate dal dramma. Un'esigenza, quella di un tale programma extramusicale, senza dubbio meritoria, se non addirittura necessaria, ma dalla quale preferiamo prescindere nel parlare di quanto ascoltato, per la ben nota difficoltà di mettere in correlazione con significati concreti una sintassi priva di semantica, qual è la musica.

La prima parte, "Due popoli," ha alternato passaggi lirici guidati dal piano, momenti più contemporanei interpretati dalle due voci e magmatiche improvvisazioni di gruppo. Per due volte la musica è stata intercalata da declamazioni in arabo, registrate, del poeta Mahmoud Darwish. Tra le voci dell'ensemble svettavano l'oboe e il corno inglese di Thoma, i flauti di Agostini —specie quello basso —e i due archi, mentre il ney di Lambrakis e la chitarra di Faraglia, pur non spiccando, risultavano timbricamente assai importante. Le atmosfere, filtrate dalla sensibilità e dall'inventiva di Battaglia, sono apparse più armene che israelo-palestinesi, forse anche in virtù del ruolo giocato dal pianoforte, che con frequenza guidava con intensità l'incedere della musica, con sfumature jazzistiche in filigrana. Di brano in brano la formazione ha mutato forma, riducendosi fino al solo per poi ricomporsi, dando così ai singoli la possibilità di mettersi in evidenza. Da questo punto di vista è parsa straordinaria un'improvvisazione di Thoma al corno inglese in duetto con chitarre e flauto, ma anche la Martin in una scoppiettante improvvisazione su singoli fonemi. Dopo il canto in due lingue, l'ora e venti della prima parte si è conclusa con un evocativo e tambureggiante incedere del piano, che faceva da capofila all'intero gruppo.

"Una terra" ha esordito su un'atmosfera simile a quella con cui si era conclusa la prima parte, ma è repentinamente mutata: la Martin ha interpretato una canzone ebraica, dopodiché il clima si è rarefatto, diventando quasi doloroso e sfrangiandosi a più riprese per lasciare spazio ora alle voci, ora all'oboe, poi al piano per un breve solo al quale si è aggiunto il contrabbasso archettato, che ha ricondotto a un'atmosfera lirica, stavolta però cupa e fattasi dolente con il canto del ney. Il canto è poi diventato invocazione, con il piano a suonare con note ribattute per sostenere i commenti di tutti gli altri strumenti. A portare una pacificazione è stato poi il violoncello della Asa, che l'ha trasmessa agli altri—la voce della Martin, l'oboe di Thoma, i flauti di Agostini —che, a turno, l'hanno ripresa e coltivata sul dolente accompagnamento del piano.

Dopo una cesura, un duetto delle voci —sorta di canto popolaresco scarnificato —ha cambiato del tutto la scena, proseguita ritmica fino a un nuovo duetto, stavolta di flauto e ney, che l'ha riportata su un piano astratto, quasi metafisico. Dopo un nuovo episodio soffusamente impetuoso guidato dal piano, un duetto tra questi e il contrabbasso ne ha aperto uno più narrativo, cui a turno tutti hanno preso parte. Il piano l'ha cadenzatamente condotto fino a un'improvvisazione quasi cacofonica, poi l'ha ripreso, accompagnato dagli archi, fino a una nuova cesura, con un classico della tradizione ebraica cantato della Martin, magnificamente accompagnata dal timbro dell'oboe. Un improvviso cambio ha infine trasportato la scena in un martellante ritmo etnico sul quale voci, archi e flauti tessevano una fitta trama che, con una danza in parte gioiosa, in parte ritualmente liberatoria, ha concluso il lavoro.

Un'opera come sempre interessantissima, ricca e imprevedibile, quella di Tabula Rasa, stavolta —per le ragioni indicate in apertura —più compatta e coerente, ma anche più uniforme e un po' meno ricca di sorprese che in passato. Aldilà della bellezza e del piacere di lasciarsi trasportare da un discorso musicale così articolato e originale, da sottolineare è soprattutto il valore incomparabile di una musica impossibile da collocare sotto alcuna etichetta e che nasce tanto da un'idea compositiva, culturale e politica, quanto dalla collaborazione tra musicisti di generi, stili e sensibilità diverse, raccolti in un collettivo e impegnati a creare assieme qualcosa di ogni volta diverso e unico. Di iniziative così ne servirebbe una in ogni città, anzi, una in ogni scuola, non solo di musica.

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