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Don Cherry: l'arte di uscire allo scoperto

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Articolo di Raul d'Gama Rose

Faceva freddo a Bombay, quel Luglio del 1985... o era il 1986?

Beh, quale che fosse l'anno esatto, non importa ora come non importava allora, quando il fenomeno si manifestò per la prima volta. Ovviamente ricordo tutti gli altri dettagli come fosse oggi. Gli Association P.C. stavano facendo faville sul palco della leggendaria arena dello storico (per l'India di allora) Jazz Yatra, un festival di internazionale jazz ospitato da Jazz India sin dal 1978.

Il Max Mueller Bhavan Institute era stato il principale artefice dell'arrivo a Bombay di quel numeroso ensemble, e ricordo distintamente un fremito che mi attraversava mentre ascoltavo Albert Manglesdorf esibirsi in virtuosismi con il suo trombone. Il suo assolo fluì flessuosamente attraverso una serie di ritornelli accompagnando la canzone—che si rifaceva a Donna Lee e ad altre canzoni bebop, verso la sua comclusione.

Il pianista, Joachim Kuhn, tirò a sé il microfono e mormorò qualcosa con una certa autoconsapevolezza. A quel punto, a pochi passi da me, un individuo alto e distinto si stiracchiò, ergendosi con il suo corpo dinoccolato. Poi diede una spolverata alla sua tunica color zafferano, sistemando i suoi fagotti intorno a se; e da uno di questi tirò fuori una piccola tromba. A quel punto, con balzi flessuosi da gazzella, si fece strada verso il palco, si portò la piccola tromba alle labbra, appoggiandole al bocchino e con una perfetta embouchure attaccò con un fluente fraseggio—un segnale al resto dell'ensamble affinchè suonasse con lui.

Il titolo del pezzo pare ora irrilevante, e ripensandoci era probabilmente un cocktail di brani radicati nel classico di Don Cherry "Complete Communion". Solo che questa volta prese spunto da diversi pezzi che erano caratterizzati da variazioni di metafore e ritmi.

La musica spaziava attraverso ritmi Afro-Brasiliani con incursioni dentro e fuori "Insensatez" di Tom Jobim. C'era un chiaro riferimento a "Little Suede Shoes" di Bird e a "The Blessing" di Ornette Coleman. Don Cherry stava probabilmente giocando sul tema di "Complete Communion," quantomeno così pensavamo.

Un attimo dopo si lanciò in un brano che lì per lì non era familiare ai più, ma lo sarebbe presto diventato. "Malkauns," questo il titolo del pezzo, era basato su un complesso raga eponimo Hindustano, che descriveva un Signore Hindu. Durante questo maestoso e alquanto introverso pezzo pentatonico, Don Cherry piegò qualche nota e ne modulò molte altre. Ma in qualche modo riusciva sempre a mettere un accento squillante sul "Ma" pivotale, noto anche come la quarta nota della scala musicale Hindustana.

Sebbene non ci fosse alcun tanpura che fornisse quella vibrante armonia, Kuhn riusciva a produrre altre note indianeggianti oscillando sul "Ga," la terza nota della scala Indiana... Mentre Cherry scivolava più in alto nel registro fino al "Dha" la sesta nota e qindi al "Ni," la settima, acutissima nota. La musica era controllata e composta — un che di inusuale per il trombettista che sperimentò nuove e poderose vie nella musica di Ornette Coleman nella scia dei classici degli anni Cinquanta e Sessanta.

Il ritmo del pezzo era ora simile una accoppiata simbiotica, ora come una pulsazione secondo la più ortodossa tradizione Indiana del "teen tala," qualcosa di molto simile ad un ritmo marciante pieno di energia.

Niente ritmo senza tono

Se c'è una cosa che Don Cherry non fece mai, fu di essere prevedibile. Ma ho scoperto qualcos'altro. Più o meno contemporaneamente a John Coltrane e forse a Ornette Coleman, ma molto prima che vi arrivasse chiunque altro, Don Cherry riscoprì quegli accordi universali sacrificati alla civilizzazione quando furono erette barriere per separare le diverse culture. Vale a dire gli accordi che uniscono tutta la musica sul nostro pianeta.

Le note, i toni e i colori che solo qualcuno in intimo contatto con un'antica realtà avrebbe potuto svelare. Con peculiare modestia, Don Cherry non rivelò mai che la sua illuminazione era da pre-datare di quasi venti anni.

Aveva infatti scoperto ciò che il Santone Sufi (nonchè suonatore di sitar) Hazrat Inayat Khan aveva già rivelato: vale a dire che il ritmo non può esistere senza tono, nè il tono può esistere senza ritmo. Essi infatti sono interdipendenti per il solo fatto di esistere, ed è lo stesso per il tempo e lo spazio. Come il suo vecchio "gemello astrale" musicale, Ornette Coleman, Don Cherry ha scoperto la chiave segreta che apre la musica del mondo.

Oggi gli esperti di Marketing hanno svilito e semplificato questa teoria per implementare nuove strategie. "World Music," la chiamano... Ma tra la metà e la fine degli anni Sessanta l'industria era in fermento. L'economia di New York era un disastro e il razzismo divideva come non mai. Ma "la musica" che aveva sorretto la società Americana — la lingua che diventò lo squillo di tromba della sfida Afro-Americana ad accettare la voce di un popolo — era viva e vegeta e suonava la possente canzone della libertà.

Ornette Coleman stava proseguendo il cammino interrotto non molto tempo prima da Charlie Parker e Herbie Nichols. Don Cherry era proprio lì in quel crogiuolo. Nel 1961 tenne una sessione insieme a John Coltrane, durante la quale produsse The Avant Garde (Atlantic). E ciò accadde poco prima che Cherry dispiegasse le sue ali lasciando il proverbiale nido per volare da solo.

Cominciò in larga misura come un tributo all'influenza di Monk — il fatto che suoni le note che senti... che le lasci suonare come le senti e che tocchi a chi ascolta afferrarle sarebbe potuto essere un naturale corollario. Come al solito, Thelonious Monk - il maestro del suonare 'fuori' - aveva autorevolmente ragione. Ma pochi ci credettero. Don Cherry, e molti altri come lui, disincantati — essendo l'Africa un pesante fardello per la sua anima — hanno attraversato l'oceano approdando nella Scandinavia di Randi Hultin.

Il Verbo si palesò la vigilia di Natale del 1965. Don Cherry alla cornetta, accompagnato dall'appena scoperto sax tenore Argentino Leandro "Gato" Barbieri, dal contrabbassista Henry Grimes e dal batterista Edward Blackwell segnarono una data storica per l'etichetta Blue Note. Complete Communion ha per molti versi anticipato alcuni dei più sacri testi della storia della musica. Poco dopo questa registrazione — che tuttavia passò come una meteora — Don Cherry e Barbieri, spiriti inquieti, partirono all'esplorazione dell'Europa del Nord. Fecero diverse performance e nell'Autunno del 1966 suonarono diverse volte al Café Montmartre un vivace punto di riferimento nel panorama musicale di Copenhagen, in Danimarca.

Cherry disse una volta: "Da qualunque angolo del mondo si arrivi, ci possiamo conoscere attraverso le nostre melodie e le nostre canzoni; sentiamo il legame musicale che ci unisce tutti. La musica è la forza unificante di noi tutti". Ovviamente aveva avuto un'illuminazione. Molti artisti della "Musica" sapevano benissimo cosa aveva detto qualche decennio prima Cheikh Anta Diop, il "Faraone della Conoscenza" Senegalese — storico, antropologo e fisico — nel suo L'Origine Africana della Civilizzazione: Mito o Realtà. Vale a dire che un tempo eravamo tutti uniti dal sangue nella Rift Valley (Kenya).

Charles Mingus ebbe quella stessa illuminazione quando registrò Pithecanthropus Erectus (Atlantic, 1956). Ora Don Cherry reggeva una torcia, illuminando la via. E aveva con se uno dei quintetti più incadescenti d'Europa. Direttamente dal suo ultimo disco Symphony for Improvisers (Blue Note, 1966) aveva "Gato" Barbieri al sax tenore e Karl Berger al vibrafono al quale aggiunse Aldo Romano alla batteria e Bo Stief al contrabbasso.

Il "Sufi" della tromba

Don Cherry era sempre stato, letteralmente, u maestro nel dare alla tromba una voce quasi umana. Fu durante i giorni e le notti passati con Ornette che sviluppò la sua dinamica vocale. Il suo fraseggio cambiò e divenne più simile ad un discorso. Come Fats Navarro, ci ha "fregato" facendovi credere di non saper suonare, ma il suo era il nuovo approccio classico. Complete Communion — nello specifico il brano intitolato "Bishmallah" diventò il suo manifesto iniziale. Un gran numero di culture — antiche e moderne — vi si scontravano violentemente, anche se in modo mellifluo. Difese questo approccio al fianco di Barbieri, Berger, Grimes e altri. Insieme salirono sulle vette Himalayane e si tuffarono nelle profondità della Rift Valley attraversando le strade di mille città mischiando dialetti e segreti codici e sviluppando quell'Esperanto musicale che molti vennero ad ascoltare e a capire.

Mentre si trovavano a Copenhagen, al Café Montmartre, capitò l'imperdibile occasione per la quale una delle loro sessioni fu trasmessa dalla radio Danese. Cherry sviluppò uno stile che potrebbe facilmente definirsi come un flusso di coscienza che si muoveva ad ondate oceaniche da un modo all'altro, da un'idea all'altra. Li chiamava "brani da cocktail," senza dubbio un termine appropriato dato il luogo, ma c'era di più. Pervaso da una profonda connessione spirituale con il Divino e l'Infinito, Cherry abitava il mondo che viveva nel mondo che viveva, in una sorta di mulinello alla Joyce. Perciò lasciò scorrere e vagabondare liberamente le idee attraverso il corpo e l'anima. Era il Sufi della tromba.

Il brano di apertura dei nastri trasmessi dalla radio Danese, che sono diventati un memorabile documento della musica dei nostri tempi grazie a Bernard Stollman e alla sua ESP Disk, Live at the Café Montmartre, 1966 lo ha intitolato "Cocktail Piece". L'eterea corsa era caratterizzata da un mulinello di idee in metafore armoniche, melodiche e ritmiche insieme, che viravano dal ragtime allo swing, battendo il tempo a colpi di bebop, proprio come aveva fatto con Ornette. Solo che questa volta i musicisti erano più vivaci. "Cocktail Piece" sollevò il sipario sonoro sul futuro della Musica. Mentre Cherry continuava a fraseggiare sulla "New Thing," Barbieri lanciò un lamento gutturale, Berger saltò in un anticipo timbrico con Romano, e Stief dietro di loro. La Musica del Carnevale chiamato Vita era cominciata.

Lungi dall'essere lo specchio di una vita riflessa, la musica di Don Cherry registrata nella Scandinavia degli anni Sessanta era il suono di una vita che marciava pulsante. Con il successivo lavoro, "Neapolitan Suite: Dios e Diablo" Don Cherry e il suo Quintetto sprigionarono la potenza di una molla che era rimasta a lungo compressa; il balzo musicale che affrancava sia la musica che l'anima dai retaggi del passato. Oggi se ascoltiamo con gli occhi ben chiusi vedremo dispiegarsi al rallentatore un mondo simile a quello della Divina Commedia di Dante. L'unica differenza è che ci troviamo nel nostro Ventesimo Secolo. I Cantos di Pound sono stati l'ultima epopea culturale, ed erano letteratura. Era giunto il momento che la musica registrasse la natura del progresso umano. Uomini come Coltrane, Ornette Coleman, Archie Shepp, Pharoah Sanders e Cecil Taylor avevano ripreso e concluso il lavoro dei loro predecessori, Louis Armstrong e Duke Ellington, Charles Mingus, Max Roach e George Russell...

Ascoltando "Neapolitan Suite" possiamo compiere il proverbiale viaggio nell'aldilà. Con Cherry e Barbieri come guide che suonano all'unisono, compiendo ora uno ora l'altro dei voli modali che apparentemente schivavano le barbariche bordate dei timpani di Romano e le rauche e rombanti sequenze del contrabbasso di Bo Stief. Il distillato di idee è incanalato attraverso il sax tenore e la cornetta ed è compito di Berger riprendere le fila e guidare il volo celestiale con un tremore eccitato. Agonia che si trasforma in estasi in un battere di ciglia. Naturalmente il seguito è un fugace sguardo nella stratosfera illuminata.

Proprio come fece anni prima, Cherry stava ora guidando le anime erranti in una "Comunione Completa". La sola avvisaglia del fatto che la processione sarebbe cominciata era un breve annuncio, prima che si lanciasse nel vuoto per dipingere un quadro esistenzialista di nirvana musicale. La sua cornetta arrivava a toccare note su una scala di un "altro mondo" come aveva fatto non molto tempo prima con "Bishmallah," una parte della suite "Elephantasy." Qui insegnò a Gato Barbieri delle note che si possono sentire in un modo quasi tattile, mentre il sax tenore e la cornetta si rincorrono in una disputa eterna ed estasiata. Da qui l'inevitabile ed estesa citazione da "A Taste of Honey" con un gusto più dolce del vino mentre riusciamo a discernere, attraverso giri di contrabbasso ora classici e solari colorazioni date dalle spazzole e dalle bacchette usate da Romano, le bacchette di Berger e le dita fluttuanti che Stief muoveva sulle corde del suo contrabbasso.

Da lì il viaggio presegue per arrivare a "Free Improvisation: Music Now," una escursione storica in uno spazio senza tempo. Vengono esplorati sconfinati paesaggi musicali che furono aperti da estrosi inventori e viaggiatori nel tempo quali Ornette Coleman e Donald Eugene Cherry, e più tardi dai The New York Contemporary Five. Don Cherry è malinconico, autoritario e al comando della spedizione che cavalca un oceano di suoni con Barbieri che si apre lamentoso una strada nei labirinti di toni che assaltano i suoi sensi. Berger e Stief sono saldi come rocce, mentre Romano si fa largo con rapidi scatti sulla pelle tesa dei suoi tamburi. Così come nel club, la musica vibra nell'etere di Copenhagen; l'energia è alta... alle stelle. Come si fa a dormire in una notte come questa?

Il Sound è svelato

Quel che Don Cherry suggerì una volta a Amiri Baraka può farci vedere facilmente che era un artista in comunione totale con Dio. Del resto chiunque avesse un sound di quel tipo non poteva che avere una connessione con una divina provvidenza. Ecco perchè da quel momento Don Cherry smise di dare troppa importanza alla tecnica, sviluppando uno stile musicale simile ad una conversazione, dove la musica era guidata dal sound — l'ultimo sound — che gli era stato rivelato.

Questo stile "ispirazionale" è molto evidente nella seconda performance radio diffusa che il Don Cherry Quintet eseguì il 31 Marzo 1966, registrata sempre al Café Montmartre. Il gruppo ci si buttò a capofitto. La versione di "Orfeu Negro" è una spedizione stellare. La musica è radicata nella melodia originale, scritta dal chitarrista Brasiliano Luis Bonfa, influenzata nel ritmo dalla bossa nova, ma il brano attraversa un vastissimo panorama musicale, includendo le aggiunte alla leggenda Greca così come il brillante e drammatico adattamento di Vinicius Moraes.

Questo pezzo non era ancora diventato un classico come oggi. Perciò la versione di Cherry, sebbene radicata nei ritmi della bossa nova, si cimenta in una nuova interpretazione del mito di Orfeo ed Euridice. La relazione drammatica e tragica tra i protagonisti è superbamente dipinta da Cherry e Barbieri con note poderose e armoniche lamentose. Gli unici momenti luminosi arrivano dal vibrafono di Karl Berger quando suggerisce la fresca relazione romantica trai i due personaggi. I cicli ritmici vengono presto resi indistinti da Aldo Romano e Bo Stief i quali, guidati da Cherry e Barbieri, accelerano il ritmo della bossa nova e con sorprendenti fraseggi in legato scivolano attraverso le battute. La tragica discesa di Orfeo agli Inferi, eroe in caduta libera, è resa con maestria da Cherry e Barbieri che si scambiano fraseggi elegiaci accompagnati da improvvisi interventi del vibrafono.

Quel brano è seguito da "Suite for Albert Ayler," un tributo ad Albert Ayler che accompagnò Cherry in tournee per l'Europa nel 1964. Forse persino più che Coltrane, Ayler rappresentò l'epitomo della spiritualità. E Cherry e Barbieri hanno entrambi suonato con l'anima e con zelo evangelico per riuscire a rendere un ritratto fedele del grande sassofonista. Il brano riflette gli spiritual storici che si elevavano dalla letteratura musicale delle piantagioni, e tuttavia cavalca un'onda ritmica bebop. Nello stile proprio di Don Cherry, è costruito usando una architettura modale e si caratterizza anche per un bell'assolo di Karl Berger. I passaggi in contrappunto negli ultimi due minuti del brano catturano magnificamente l'umore di Cherry e la traccia si conclude con una fraseggio forte e melodico di bebop.

La sessione di registrazione fu motivo di immensa soddisfazione per Cherry e i suoi. Il repertorio suonato in quella data è un esempio memorabile e si riflette in um brano relativamente meno noto come "Spring is Here," un bel pezzo scritto in un modo decisamente moderno. Barbieri eccelle con le sue armoniche e il suo fraseggio sfrontato arriva a livelli mai raggiunti prima. Cherry, per contrasto è più sonoro, anche grazie all'uso di un tremolo in stile pop mentre scivola teneramente sulla sua parte, citando diversi stili in un colpo solo.

La gioiosa "Spring..." è seguita da una ballata, "Remembrance". La struttura sincopata di questo brano può essere vista come un riferimento indiretto all'approccio di Thelonious Monk alle ballate. "Elephantasy" non è soltanto un titolo eccentrico. Le misure dispettose del brano bastano a mostrare un lato distintamente umoristico di Don Cherry, un gradito contrasto rispetto sia alla natura divertente del titolo che anche a molta della musica d'avanguardia di quel periodo. Come spesso accadeva allora, questa traccia fu eseguita come un lavoro in divenire e una sorta di introduzione al finale, la suite estesa di "Complete Communion."

E poi c'è la versione completa di "Complete Communion" che durava quasi il doppio di quella suonata dal quintetto nella sessione del 17 Marzo. Il tono brillante e lucente di Cherry trova un perfetto complemento nelle fiere inflessioni retoriche simili a conversazioni. Questo pezzo era oramai diventato un'alternativa sia alla improvvisazione atematica sia ai pezzi monotematici di allora. Questo brano permetteva di dare una fugace occhiata alla filosofia musicale di Cherry nei confronti della vita — una filosofia nella quale melodie differenti potevano essere intessute in un fitto arazzo musicale, che dipinge i diversi umori della vita, il tutto in una performance estesa.

Il 31 Marzo 1966 Cherry si cimentò nel brano di Antonio Carlos Jobim "Insensatez," un chiaro indizio della sua volontà di intraprendere una ricerca duratura sulla musica Brasiliana.

"Jali Kunda

Quest'anno la ESP ha pubblicato per la prima volta una sessione tenuta da Don Cherry e il suo Quintetto Europeo il 3 Marzo 1966. La registrazione documentava non solo una versione intera ed estesa di "Complete Communion," ma approfondiva anche quella che era solo una parte di questa suite quando Cherry la registrò negli USA, appena qualche mese prima, "Remembrance".

L'esecuzione di entrambe le suite è estremamente precisa, costruita, quasi fosse frutto di prove rigorose. E in effetti questo fatto è in qualche modo confermato da Bo Stief in alcume interviste (citate nelle note alla registrazione del 17 Marzo). Sembra altamente improbabile che questa musica potesse essere eseguita con un nuovo batterista e un nuovo bassista senza che questi la provassero preventivamente.

Entrambi i brani sono complessi e sebbene Cherry non abbia mai creato strutture armoniche e melodiche "labirintiche," tuttavia la sua architettura musicale è tutt'altro che semplice. Il contrabbasso è suonato per la gran parte con l'arco, e ciò conferisce al brano un umore fantastico e al tempo stesso solenne che contrasta con le rapide rullate di Romano e il luminoso assolo di staccato eseguito da Karl Berger. Curiosamente, il cosiddetto "effetto cocktail" è qui amplificato da riferimenti a "Two Bass Hit" di Ray Brown così come da precise quotazioni di "Salt Peanuts" di Dizzy Gillespie.

Grazie a questi due brani estesi che esploravano il panorama musicale dall'Africa a New Orleans, all'America Latina e all'Asia, Don Cherry stava anche dando una chiara indicazione che stava attraversando — nella tradizione del "jali" o "griot" (il poeta musicista errante dei popoli Mandingo dell'Africa Occidentale) — l'oceano di suoni che avvolgeva tutto il mondo. Vale la pena notare che ciò accadeva durante l'eopca d'oro della musica, gli anni Sessanta, cioè quasi cinquant'anni prima di diventare, oggigiorno, un perno della maggior parte della musica prodotta, la storia registrata di noi umani.

Per Don Cherry, comunque, essere così vicino alla fonte significava essere parte della riscoperta del dialogo musicale. E ciò è prova dell'importanza di Don Cherry, il musicista, il "jali kunda," l'uomo la cui ricerca del centro musicale dell'universo ci ha lasciato così tanti documenti memorabili, tra i quali questi tre volumi della ESP-Disk.

L'Autore desidera esprimere un ringraziamento speciale a Bernard Stollman e Fumi Tomita della ESP Disk, per il supporto e per la copia del raro e non più prodotto Live an Café Montmartre, 1966 (Vol. 1) offerti per realizzare questo pezzo. Ringraziamenti vanno anche a Bill Laswell, che per primo ha introdotto l'Autore al lavoro di Hazrat Inayat Khan.

Foto di Brian McMillen (copertina), Guy Fonck (Cherry alla kora), Klaus Muempfer (Cherry seduto)

Traduzione di Stefano Commodaro

Articolo riprodotto per gentile concessione di All About Jazz USA


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