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Un altro inizio, un'altra Blue Note

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Premessa. Scontata, ma doverosa. La Blue Note, quella Blue Note, non c'è più e mai più ci sarà. Alfred Lion e Francis Wolff appartengono al passato. Così come gli anni d'oro del Van Gelder Studio e delle copertine firmate Reid Miles. Bei tempi quelli, già. Ma la musica, in tutti i sensi, è cambiata. E fare i discografici, oggi, soprattutto se ci si occupa di jazz, è un lavoro maledettamente difficile. A maggior ragione se a tenere le redini, e i cordoni della borsa, è una major. In questo caso la Emi, che dal '79 è proprietaria del marchio Blue Note (anche se ora, dopo la fusione più discussa da quando esiste l'industria musicale, tutto è in mano alla Universal; che a sua volta è controllata dal gruppo Vivendi. Ma questa è una storia di bigliettoni e scatole cinesi che vi racconterò un'altra volta).

Che dicevamo? Ah, sì: quella Blue Note non c'è più, rassegnatevi. Ma anche la Blue Note targata Bruce Lundvall, che abbiamo imparato a conoscere dalla metà degli anni Ottanta, è finita in archivio. Il grande capo ha lasciato il timone quando, dopo un quarto di secolo in plancia, è stato elegantemente pensionato: da presidente a presidente emerito. Come dire: grazie di tutto e avanti il prossimo. Succedeva nel 2010. E in pratica si chiudeva un'epoca. Lundvall era l'uomo al quale la Emi aveva affidato il compito di riesumare il cadavere nel 1984. Non solo è riuscito a stare a galla, ma ha saputo traghettare l'etichetta dal mare burrascoso degli anni Novanta a quello poco pescoso degli anni Zero, togliendosi pure lo sfizio di piazzare qualche colpo milionario (leggi Us3 e Norah Jones). Ci sapeva fare il buon vecchio Bruce. E soprattutto era un uomo Blue Note. Leggenda vuole che la sera del 21 febbraio del '54, quando i Jazz Messengers con Clifford Brown alla tromba salirono sul palco del Birdland, il giovane Bruce fosse seduto tra il pubblico. Tre anni dopo, nel '57, Lundvall prese il coraggio a quatto mani e bussò alla porta di Lion: «Mi dispiace, non abbiamo lavoro da darle. Facciamo tutto noi», la risposta. Non immaginava che un giorno sarebbe toccato a lui prendere le decisioni.

Insomma, Lundvall era un uomo di jazz. Certo, i conti prima di tutto. Ma sapeva il fatto suo, come dimostrano Tony Williams, Don Pullen, John Scofield, Joe Lovano, Greg Osby, Jason Moran, Ambrose Akinmusire e via di seguito. E Don Ferguson alias Don Was? Bella domanda. A parole anche il nuovo presidente, in carica dal gennaio dell'anno scorso, è cresciuto a pane e Blue Note. «Era il 1966 e ricordo che fui rapito dal sassofono di Joe Henderson», ha raccontato qualche tempo fa al New York Times. E sulla pagina che wikipedia dedica a colui che è stato anche produttore dei Rolling Stones si legge «he grew up listening to the Detroit blues sound and the jazz music of John Coltrane and Miles Davis». I fatti dicono però che, nonostante gli ammiccamenti jazzy degli iconici Was (Not Was) - gruppo fondato con David Weiss, in arte David Was - e della Orquestra Was, la madrelingua è il rock affettato e di largo consumo. Oltre agli Stones, Lucinda Williams, Elton John, Leon Russell, Bonnie Raitt, Willie Nelson, David Crosby, Ringo Starr, Jackson Browne (sorvoliamo su Zucchero). Non esattamente il gotha dell'improvvisazione. Ma ricordate quel che si diceva all'inizio: la musica è cambiata. E il rischio concreto, dopo i settant'anni dell'etichetta festeggiati in tono minore nel 2009, era quello di una morte per dissanguamento. Il compito affidato a Don Was è stato quello di rivitalizzare - di nuovo - la scuderia, di sintonizzarla sulle frequenze del mercato americano. Un compito difficile, difficilissimo. Che il neo grande capo sta cercando di assolvere a modo suo.

Tra le prime decisioni prese, quella di riportare a casa Wayne Shorter, fresco di Without a Net, e Terence Blanchard. Poi i contratti offerti ai cantanti José James, che ha appena dato alle stampe No Beginning No End, e Aaron Neville, nei negozi da una manciata di giorni con My True Story, e al bassista Derrick Hodge, allievo di Christian McBride che dovrebbe debuttare a breve con Live Today. Ma il vero simbolo del nuovo corso, il disco che in un certo senso è stato un'epifania per Don Was, è Black Radio di Robert Glasper.

Alla quarta uscita per la Blue Note, all'inizio del 2012, il pianista texano ha fatto centro: quasi ventunomila copie vendute nella prima settimana, esordio al numero quindici nella Billboard Top 200, addirittura al numero tre nell'iTunes Music Store americano e al primo posto in quelli francese, australiano, giapponese e inglese. Un gran bel botto. Anche se, a dire il vero, quando il nuovo presidente è arrivato i demo di Black Radio erano già pronti. Ma questo è un dettaglio. Quel che conta è la ricetta: un mix di R&B, jazz liquido e languido, neo-soul, hip-hop e uno spruzzo di elettronica. Il tutto condito dalle voci di cantati e rapper: Yasiin Bey, Meshell Ndegeocello, Lupe Fiasco, la sempre divina Erykah Badu e Lalah Hathaway. Black music ricercata ma non troppo a uso e consumo di un pubblico raffinato ma non troppo. Che il futuro della Blue Note sia questo? Commercialmente parlando, sì. Dubbi non ce ne sono. Questa è la strada maestra. Ascoltare, per credere, il primo assaggio dal debutto di Derrick Hodge, che non a caso suona nella band di Robert Glasper. Così è, che vi piaccia o meno. Il tempo dirà se fu vera gloria. A chi storce il naso non resta che sperare in qualche deviazione. Ci saranno, probabilmente. E ci sarà una continuità rispetto al passato. Vedi Cross Culture di un fedelissimo come Joe Lovano. Oppure Banda Larga del duo Musica Nuda, che rappresenta la classica puntata sul mercato estero, un "vizio" tipicamente Emi.

Non vi basta? Fatevi un giro sul sito internet della Blue Note, riverniciato e tirato a lucido. Nella sezione "timeline" c'è la possibilità di viaggiare attraverso gli anni e (tutti!) i dischi che hanno fatto la storia dell'etichetta jazz per antonomasia. Ecco, quello è il muro del pianto per chi non si rassegna.

Breaking News. Mentre il pezzo sulla Blue Note andava in pagina, Robert Glasper trionfava ai Grammy nella categoria "Best R&B Album," bagnando il naso a Tamia, Anthony Hamilton, R. Kelly e Tyrese. «This is what jazz sounds like now», il commento del pianista. Capita l'antifona?

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