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Nguyên Lê: Songs of Freedom

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Nguyên Lê: Songs of Freedom
La fisionomia musicale di Nguyên Lê si è andata concretizzando, nel corso della sua carriera, più per accumulo che per sottrazione. Partito dal trio, vettore per un jazz raffinato e modernissimo, il chitarrista franco-vietnamita ha poi progressivamente ampliato l'orizzonte di riferimento, abbracciando - in un crescendo spesso irresistibile - la musica della sua tradizione d'origine, quella irresistibilmente infettiva dei berberi fino al rock (mantenendo, però, sempre una finestrella aperta sul trio jazz). Non meraviglia, dunque, che il chitarrista abbia avvertito la necessità di imbastire un tributo ai grandi classici del rock e del pop degli anni Settanta, incubatrice di gusti e pulsioni per chi, come Nguyên e chi scrive, veleggia intorno al mezzo secolo d'età. E, proprio per le affinità anagrafiche, e l'attenzione con cui abbiamo seguito il dipanarsi dei vari periodi della sua carriera, l'attesa per questo lavoro era tanta. Ci si aspettava, lo ammettiamo, un capolavoro. O quasi. E invece no. Ma partiamo dall'inizio.

La scelta del repertorio, innanzitutto, appare molto canonica, addirittura scolastica. Inni generazionali accostati a torridi ostinati (quelli, ad esempio, sui quali si basano i brani di Led Zeppelin, Cream e Iron Butterfly omaggiati dal chitarrista) disegnano una mappa imprecisa, parziale. Appare evidente come Nguyên abbia prediletto l'aspetto armonico, concentrandosi sull'esibizione di muscoli modali lungo tutto il disco, piuttosto che sulla suggestione o la fascinazione esercitata da quel tipo di repertorio. Perché poi, al di là, della selezione, è il trattamento che a volte disorienta. Qualunque sia la conformazione accordale d'impianto, Nguyên innesta improvvisazione su bordone pressoché ovunque: sia quando il brano lo richiede, essendo esso stesso costruito a partire da un ostinato, sia - come nel caso dei Beatles, o di Stenie Wonder - quando non lo richiede affatto, essendo dotato di una progressione armonica che, di fatto, ne ha determinato l'immortalità al pari del testo o della melodia.

Il trattamento, inoltre, poggia su meccanismi ben presto prevedibili: sovrapposizioni metriche complesse, stratificazioni ritmiche dispari, alterazioni della pasta armonica (aggiungendo tensioni), allungamento delle sezioni. In una parola: progressive allo stato puro. Non che si abbia niente in contrario, ma il paradosso è che un disco che avrebbe dovuto/potuto spalancare nuovi orizzonti nelle modalità di approccio e rilettura a grandi classici del passato suona vecchio - dal punto di vista delle procedure, s'intende, non della qualità audio, assolutamente di livello, e modernissima -, come imbalsamato in pratiche datate.

L'aspetto che, però, maggiormente delude è la marmellata pangeografica. Nel tentativo, cioè, di ridurre a unità le coordinate musicali tra le quali si muove (e che abbiamo delineato brevemente in apertura del nostro pezzo: tradizione vietnamita rivisitata, tradizioni metriche del Maghreb, incroci e innesti con altre mille culture del mondo, senza naturalmente dimenticare il jazz), Nguyên cucina un enorme pastrocchio, mescolando in maniera ossessiva, spesso disinvolta quando non addirittura sfacciata, tutti quegli stili. Per carità, nulla vieta di preparare ricette così coraggiose, ma il risultato finale dipende - come ben sanno cuochi, gastronomi e buongustai di tutto il mondo - dalla misura e dal tocco, senza i quali può succedere che un solo ingrediente riesca ad ammazzare tutti gli altri, vanificando l'equilibrio. Ecco, è proprio l'equilibrio che manca a questo disco di Nguyên, sostituito dall'idea, quasi infantile, certamente naive , che tutto stia bene con tutto. È un idea, ma non sempre si rivela esatta.

Per costruire un disco così complesso, Nguyên si è affidato a un gruppo di base (con il sempre formidabile bassista Linley Marthe, il vibrafono preciso, ma poco emozionante, di Illya Amar, e la batteria davvero troppo prog di Stephane Galland, componente storico dei belgi Aka Moon), arricchito da una pletora di ospiti, portatori delle proprie tradizioni, o semplici interpreti di classe debordante. Su tutti, l'imprendibile David Linx, che regala lampi di classe a un disco, purtroppo, solo divertente.

Track Listing

1. Eleanor Rigby (Lennon / McCartney) - 7:00; 2. I Wish (S. Wonder) - 5:47; 3. Ben Zeppelin (N. Lê / D. Youssef) - 0:51; 4. Black Dog (Page / Plant / Jones) - 6:14; 5. Pastime Paradise (S. Wonder) - 8:03; 6. Uncle Ho’s Benz (N. Lê) - 0:40; 7. Mercedes Benz (Joplin / McClure / Neuwirth) - 6:23; 8. Over the Rainforest (N. Lê) - 0:37; 9. Move Over (J. Joplin) - 6:58; 10. Whole Lotta Love (Led Zeppelin) - 5:30; 11. Redemption Song (B. Marley) - 5:26; 12. Sunshine of Your Love (Bruce / Brown / Clapton) - 4:42; 13. In a Gadda da Vida (D. Ingle) - 5:25; 14. Topkapi (N. Lê) - 0:43; 15. Come Together (Lennon / McCartney) - 5:47.

Personnel

Illya Amar
vibraphone

Nguyên Lê (chitarre, saz, computer); Illya Amar (vibrafono, marimba); Linley Marthe (basso, voce); Stéphane Galland (batteria) + David Linx, Himiko Paganotti, Ousman Danedjo, Prabhu Edouard, Youn Sun Nah, Julia Sarr, Dhafer Youssef (voce); Karim Ziad, Stéphane Edouard (percussioni); David Binney (sax alto); Chris Speed (clarinetto); Hamid El Kasri (gumbri); Guo Gan (ehru); Kevian Chemirani (zarb).

Album information

Title: Songs of Freedom | Year Released: 2011 | Record Label: ACT Music


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