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Soft Machine, la morbida macchina dei sogni

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...Con quel loro incedere a cavallo fra gli eccessi della psichedelia, l’energia giovane del rock e il gusto per la sperimentazione della patafisica...
La recente scomparsa del saxofonista Elton Dean, una delle figure mitiche che hanno segnato la storia della musica dei nostri sogni, ci offre l'occasione per esaminare alcune recenti uscite che riguardano direttamente o indirettamente la band di Canterbury e i musicisti che ne hanno fatto parte. Per chi volesse approfondire l'argomento, la rete offre parecchie risorse. Vi suggeriamo in particolare il sito curato dall'ottimo Aymeric Leroy, un critico francese che sta affermandosi come il più attento storico delle vicende musicali partite da Canterbury e dintorni.

Cominciamo dall'ottimo libro Out-Bloody-Rageous scritto da Graham Bennett e pubblicato da Saf Publishing. Un bel tomo di oltre quattrocento pagine che ripercorre con ampia dovizia di particolari la storia dei Soft Machine, iniziando dalle vicende personali dei fondatori della band. A partire da quel Robert Wyatt nella cui bella casa a Canterbury si ritrovavano questi baldi giovanotti per ideare le loro scorribande patafisiche ancora prima che musicali, con la complicità di genitori molto aperti e permissivi. Erano della partita l'esotico australiano Daevid Allen (che poi darà vita alla saga dei Gong), Kevin Ayers, Mike Ratledge, i due fratelli Hopper e alcuni altri amici che poi si perderanno per strada. L'autore è molto documentato su tutto quello che attiene direttamente alla storia della band, mentre quando si avventura in territori più lontani dimostra di essere un po' impreciso (per esempio quando parla dell'album live di Miles Davis immediatamente successivo a Jack Johnson e lo identifica come Black Beauty, quando è evidente che intende invece riferirsi a Miles at Fillmore). Davvero eccellente è la vastissima sezione fotografica, ben 32 pagine a colori, fuori testo, che ci offrono uno spaccato anche visivo di una intera epoca. Anche la sezione finale è degna di grande attenzione, con l'attenta ricostruzione di tutti gli avvicendamenti dei musicisti, con l'elenco dei concerti dal vivo, con la corposa discografia, con l'elenco delle sedute di registrazione, con l'aggiornamento di quello che stanno combinando ora i vari musicisti che hanno fatto parte della band nelle varie epoche e ovviamente con un indice ben strutturato.

Anche la bella antologia pubblicata da Sony si intitola curiosamente Out-Bloody-Rageous, come se quelle tre parole collegate fra di loro fossero la perfetta sintesi per descrivere l'epopea dei Soft Machine. In questo caso i trenta brani prescelti coprono, in due CD molto lunghi, la produzione del gruppo dal 1967 al 1973, lasciando fuori gli ultimi anni, quelli decisamente meno interessanti. Molto bene rappresentata è la parte iniziale della carriera dei Soft Machine, con quel loro incedere a cavallo fra gli eccessi della psichedelia, l'energia giovane del rock e il gusto per la sperimentazione della patafisica, a partire proprio dai primi due brani (“Feelin' Reelin' Squeelin'” e “Love Makes Sweet Music”) che erano apparsi nelle due facciate del primo 45 giri della band, uscito nel 1967. Poi l'arrivo di Elton Dean e la progressiva messa a fuoco del progetto verso lidi macchiati di jazz creativo e di sapori esotici, porta ai capolavori del 1970 con due lunghissimi brani tratti dall'album Third, quello che consacra definitivamente i Soft Machine come uno dei gruppi più interessanti dell'intero panorama mondiale. Nel secondo CD ci spostiamo invece dal jazz quasi free nelle intenzioni ma sempre lucidamente legato a frammenti melodiche incantati, anche quando il contesto si tinge di astratto (si vedano a questo proposito le bellissime “Teeth” e “Kings & Queen”), al jazz-rock basato sui riff che caratterizzano la parte conclusiva della vicenda della Macchina Morbida, con l'arrivo di Karl Jenkins e con la progressiva cauterizzazione delle ferite più purulente. Gli eccessi vengono accuratamente evitati e probabilmente ne guadagna qualcosa la salute mentale dei membri della band (di quelli originari a questo punto è rimasto solo il tastierista Mike Ratledge) ma così facendo si corre inevitabilmente il rischio di buttare l'acqua col bambino dentro e una certa forma di sterile immobilismo comincia ad occhieggiare fra i paesaggi bucolici che diventano sempre più presenti e frequentati.

La Cuneiform tira fuori dal cappello l'ennesimo coniglio bianco. Ed è un coniglio davvero straordinario, forse uno dei documenti storici più importanti riscoperti dalla mitica etichetta di Steve Feigenbaum. L'album si chiama Grides e nella confezione trovano spazio un lunghissimo CD che riporta il concerto che i Soft Machine tennero ad Amsterdam a fine ottobre del 1970 e anche un DVD che riporta i venti minuti abbondanti che il gruppo registro in uno studio televisivo di Brema a fine marzo del 1971. Il materiale registrato in quest'ultima occasione era stato in parte messo in onda nella celebre trasmissione Beat Club, ma qui troviamo le riprese originali, senza gli effetti psichedelici inseriti in post produzione e soprattutto in versione integrale, con la prima parte che era stata tagliata perchè particolarmente aspra e sperimentale. Il concerto di Amsterdam è molto importante perchè va a coprire un buco nella documentazione sin qui pubblicata dell'avventura dei Soft Machine. Il gruppo è nella classica formazione in quartetto con Elton Dean, Mike Ratledge, Hugh Hopper e Robert Wyatt. Era un periodo di tensioni e di riflessioni. Elton Dean cercava di tirare i compagni sempre più verso il jazz e l'avanguardia. Robert Wyatt non voleva abbandonare gli scenari del rock dadaista. Gli altri due partner erano un po' indecisi. I due concerti che si erano tenuti in Olanda nei giorni immediatamente precedenti non erano andati troppo bene, poco pubblico, troppo nervosismo. Ma la magia del pubblico appassionato di Amsterdam riesce a far decollare la macchina morbida. I temi sono affrontati in maniera un po' aspra, secca, senza compiacimenti, ma l'incantesimo riesce per l'ennesima volta e il concerto si sviluppa con intensità, foga e determinazione. Curiosamente Wyatt non è mai impegnato alla voce e il gruppo si esibisce solo sul versante strumentale. Ci sono temi ancora in fase embrionale, come le splendide "Teeth" e "Virtually" che poi verranno presentate nell'album Fourth che i Soft Machine stavano registrando in quei mesi e che verrà completato poche settimane dopo questo mini tour olandese.

Con l'album Floating World Live ci spostiamo ad una versione successiva dei Soft Machine. L'album, pubblicato da Moonjune Records, ci propone una registrazione dal vivo effettuata nel gennaio 1975 dalla ormai mitica Radio Bremen, certamente una delle emittenti che più hanno contribuito a mantenere viva un'epoca ormai lontana grazie alle preziose documentazioni dei concerti da loro coraggiosamente organizzati. La band è agli inizi di una nuova fase e l'arrivo di Allan Holdsworth alla chitarra elettrica diventa l'occasione per ristrutturare completamente il repertorio del gruppo. Vengono infatti abbandonati tutti i vecchi cavalli di battaglia e si riparte da zero con composizioni che provengono principalmente dalla penna di Karl Jenkins, che era arrivato nel gruppo non molto tempo prima. Non mancano alcuni contributi da parte di Mike Ratledge, ma il tastierista, che a questo punto è rimasto l'unico componente della band in grado di rappresentare la continuità col nucleo fondatore, sembra ormai stanco e disilluso della piega che la musica sta prendendo. La chitarra di Holdsworth è quasi sempre al centro della scena in un panorama che sembra molto più vicino alle proposte dei Nucleus che non a quelle delle precedenti versioni dei Soft Machine. In effetti se guardiamo alle vicende personali dei musicisti che compongono questa edizione dei Soft Machine possiamo quasi pensare che questa sia una riedizione dei Nucleus con Mike Ratledge aggiunto alle tastiere. La cosa è confermata dal fatto che nel gruppo storico del jazz-rock inglese guidato da Ian Carr erano passati Jenkins, Holdsworth, il batterista John Marshall e lo stesso bassista Roy Babbington, seppure con tracciati differenziati. Non a caso il brano più noto di questa edizione dei Soft Machine, quel “Hazard Profile” che sarà anche al centro dell'album in studio Bundles e che qui troviamo in versione sfumata per esigenze di programmazione radiofonica (l'immancabile break pubblicitario…), è un variazione neppure troppo differenziata del brano “Song for the Bearded Lady” che Jenkins aveva composto cinque anni prima per il secondo album dei Nucleus.

La recente reincarnazione del gruppo inglese si chiama Soft Machine Legacy e per documentarne il percorso sono appena stati pubblicati un DVD registrato al New Morning di Parigi a dicembre del 2005 e un CD registrato in studio ai primi di settembre del 2005. Sono due momenti davvero preziosi perchè documentano le ultime apparizioni di Elton Dean e l'ingresso in campo del chitarrista John Etheridge che prende il posto di Allan Holdsworth, il celebre funambolo delle sei corde che era coinvolto nella reincarnazione precedente del mitico gruppo, quella che il produttore Leonardo Pavkovic aveva battezzato Soft Works. Etheridge non è certo tecnicamente superlativo come Allan Holdsworth, ma sa decisamente meglio integrarsi nel progetto e i Soft Machine Legacy, sia dal vivo a Parigi, sia in studio a Londra, sono un quartetto davvero affiatato e coerente. Dal vivo i pezzi sono più dilatati e si lascia spazio ad alcune riletture, come "Has Riff" (che in realtà è una versione senza tema di quella "As If" che arriva dall'album Fifth), "Kings & Queens" (arriva da Fourth) e la celebre "Seven for Lee" scritta da Elton Dean e da lui eseguita in varie occasioni, con vari compagni di strada. Una bellissima intervista di oltre venti minuti ai quattro musicisti, inframmezzata da brevi spezzoni del soundcheck, completa l'eccellente DVD edito da Inakustik con il titolo New Morning - The Paris Concert. Il CD è invece pubblicato dalla Moonjune Records si intitola semplicemente Soft Machine Legacy e comprende dieci brani che i quattro musicisti firmano da soli o collettivamente. Curiosamente il secondo brano, "Ratlift" è firmato dai quattro musicisti e da Mike Ratledge, il celebre tastierista dei Soft Machine che è stato completamente refrattario, sin qui, all'idea di rimettersi in gioco. La musica è al passo coi tempi, con la chitarra di Etheridge a dare il segnale di differenziazione e il sax di Elton Dean a riagganciare prepotentemente la memoria con le su frasi ellittiche, liquide e ipnotiche. Attorno a loro due risplende il basso sempre ben calibrato di Hugh Hopper, maestro del minimalismo applicato alla costruzione delle linee di sostegno e la batteria sempre vivissima di John Marshall, capace di raffinatezze importanti e di drive imperioso all'occorrenza. Decisamente al passo coi tempi.

Dal centro culturale francese Le Triton, arrivano due ottimi esempi di come si possa lasciare un segno importante nelle arti e nella musica in particolare, anche senza avere alle spalle l'industria discografica ufficiale. Questa benemerita associazione, situata alle porte di Parigi, ha pubblicato due album di livello davvero ottimo, che partono dall'esperienza Soft Machine per fare il punto di quell'esperienza, a più di trent'anni di distanza. Parliamo del bellissimo Tribute to Soft Machine accreditato al gruppo Polysoft e di Live at Le Triton 2004 dei Soft Bounds, un gruppo che associa due membri della formazione storica dei Soft Machine (Hugh Hopper ed Elton Dean) ai francesi Sophia Domancich e Simon Goubert, rispettivamente impegnati al pianoforte e alla batteria. I quattro lunghissimi brani che compongono questo album toccano suggestioni europee e si avvicinano progressivamente al clima inglese di Canterbury che si manifesta completamente nella conclusiva “Kings and Queens” scritta dal bassista Hugh Hopper per l'album “Fourth” e da allora diventata uno dei cavalli di battaglia del saxofonista Elton Dean che sa sempre ricavarne spunto per guizzanti evoluzioni con il suo saxello nasale profumato di spezie orientali, a partire dal bellissimo tema che evoca panorami blandamente distorti nella luce caldissima dei miraggi sahariani.

L'album dei Polysoft è ancora più esaltante. Assieme a Hopper e Dean troviamo in questo caso un altro ospite illustre come l'organista Emmanuel Bex e i quattro componenti del gruppo Polysons che per l'occasione hanno ribattezzato il settetto come Polysoft. Oltre al batterista François Merville, abbiamo a bordo il trombettista Serge Adam, il saxofonista/flautista Jean-Rémy Guédon e il più noto Pierre-Olivier Govin che troviamo impegnato al sax baritono e al saxello. In questo caso il repertorio è completamente tratto dal book dei Soft Machine e le dodici composizioni si legano assieme in una sorta di suite affascinante che ripercorre con assoluta freschezza momenti importanti delle varie fasi della vita del gruppo inglese. Si parte con “Facelift” e si arriva con “Noisette”, passando per “Kings And Queens”, “Pig”, “la gloriosa “Slightly All The Time”, l'enigmatica “Backwards” e altri celebri temi. Bex sceglie giustamente di distaccarsi dalle timbriche e dal fraseggio di Mike Ratledge e ripercorre, in parte, certe evoluzioni timbriche e stilistiche associate semmai a Brian Auger. Ma lo fa sempre con gran gusto, immettendo ulteriore propellente per la magica astronave dei Soft Machine che rifulge come non mai di luce stellare, in questo tributo davvero esaltante.

Dalla benemerita etichetta americana Cuneiform già sopra citata, arrivano altre cinque proposte che riguardano band anche piuttosto distanti fra loro che hanno in comune la musica di Canterbury come una delle fonti di ispirazione. I gruppi si chiamano NDIO, Forgas Band Phenomena, Djam Karet, Univers Zero e Mats/Morgan Band

Il sestetto olandese NDIO conta nelle sue fila il bassista Hugh Hopper e con l'album Airback si presenta alla sua prima prova discografica in assoluto. La sigla che da il nome al gruppo significa 'Never Dance in Orange' e sotto questa bizzarra affermazione troviamo una musica intensa che va dalle parti di un jazz-rock arioso che guarda verso il folk senza rinunciare ad essere funky e si muove con decisione in serafiche aree incantate che spesso richiamano i Soft Machine in formazione allargata, nella breve esperienza in settetto degli ultimi mesi del 1969. Sono passati trentacinque anni ma la magia dei fiati appoggiati sulle linee di basso flessibili di Hopper rimane immutata anche se il fraseggio di Frank Van Der Kooij è certamente meno fantasioso rispetto a quello di Elton Dean. L'uso di samples rende spesso la trama brulicante di sonorità poco riconoscibili che spostano il baricentro della musica verso aree poco battute e danno un segno distintivo ben evidente a questa proposta.

La Forgas Band Phenomena propone Soleil 12, un album che rinnova l'interesse per una delle band francesi più vicine alla sensibilità di band inglesi come Caravan, Hatfield and The North e National Health. Guidati dal veterano Patrick Forgas, un batterista che già si era messo in luce nelle band francesi di rock progressivo degli anni settanta, si presentano in ottetto con fiati e violino (oltre a chitarra, tastiere, basso e batteria) e dimostrano da subito che il loro interesse principale è quello di lavorare con particolare dedizione sulle cellule melodiche. Questa scelta molto british consente loro di sviluppare idee che reggono anche alle prese con lunghe digressioni, evitando di cadere nella tentazione di dedicarsi allo sciorinamento di chilometriche sezioni di assoli al testosterone che rischiano di diventare l'equivalente della esibizione degli attributi nei primati. I quattro lunghi brani sono firmati dal batterista e mettono in luce tutti i protagonisti, con particolare riferimento al violinista Frédéric Norel e al sax alto Denis Guivar'ch, vero folletto pronto a guizzare verso il cielo con le sue frasi sempre cariche di emozione.

Gli americani Djam Karet hanno già alle spalle una decina di album e con Recollection Harvest si confermano ai vertici, negli Stati Uniti, del rock progressivo, una corrente di pensiero musicale che non ha avuto grandissimi sviluppi oltreoceano. Il loro nome significa ‘tempo elastico' in lingua indonesiana e dalla metà degli anni ottanta sono attivi specialmente nella West Coast. Sono forse più vicini ai King Crimson che non ai Soft Machine, ma certe loro sezioni si specchiano con naturalezza nel lavoro di Mike Ratledge con riferimento anche a minimalisti come Terry Riley. L'album è diviso in due parti. La prima, che dà il titolo al lavoro, è caratterizzata da melodie basate principalmente sull'interazione fra tastiere e chitarre, alla ricerca della perfetta sintesi fra fusion e rock melodico. La seconda parte (intitolata “Indian Summer”) è più sperimentale e misteriosa, con evidenti riferimenti all'oriente e a mondi lontani pieni di echi fascinosi che emergono dalle liquide brume subtropicali.

Dal Belgio arriva la band Univers Zero che con l'album Live consolida un lungo percorso che partì addirittura nella prima metà degli anni settanta, con varie formazioni che si sono sempre cristallizzate attorno alla figura del batterista Daniel Denis. La band era partita come formazione di rock da camera, con giovani musicisti di estrazione classica e un raffinato uso di strumenti poco utilizzati nel rock come il fagotto e la spinetta. Poi nel corso degli anni si è aggiunto uno spiccato interesse verso l'elettronica e una sensibilità europea per le atmosfere scure e tormentate. Questa ottima prova dal vivo presenta versioni dilatate d energetiche di brani già presenti nella loro ampia discografia in studio e mette in particolare evidenza Peter Van Den Berghe, un virtuoso delle tastiere che già si era messo in luce con altre formazioni europee. Anche il saxofonista Kurt Budé ha modo di mettersi in grande evidenza e il suo assolo al clarinetto in “Méandres” è particolarmente efficace. Con loro sono il violinista Martin Lauwers, l'altro fiatista Michel Berckmans (impegnato all'oboe, al corno inglese, al fagotto e alla melodica), il bassista Eric Plantain e il batterista-leader Daniel Denis che firma da solo le 8 composizioni che compongono questo album. Un quintetto coeso e mobile che dimostra di essere particolarmente a proprio agio nella dimensione dal vivo.

Gli svedesi Mats/Morgan Band, con il loro Thanks For Flying with Us mettono in campo anche una beffarda vena zappiana che ben si sposa con la deriva legata al rock progressive che è alla base della loro proposta, alleggerendo certe situazioni che rischierebbero altrimenti di diventare un po' troppo sopra le righe. Il batterista Morgan Ågren e il tastierista Mats �-berg sono alla guida della band da un paio di decenni e si conoscono da quando erano ragazzini. Al loro fianco, in questo che è il loro settimo lavoro e segna un ritorno ad una produzione in studio dal 1997, troviamo il chitarrista Jimmy Ågren (figlio del batterista), l'altro tastierista Robert Elovsson e il bassista Tommy Thordsson. Sono ottimi musicisti che lo stesso Zappa ebbe modo di elogiare in una occasione nella quale suonarono con lui. Qui siamo dalle parti del jazz rock che il grande chitarrista americano seppe frequentare nel periodo di mezzo della sua carriera, quello caratterizzato dall'uso massiccio del synclavier. Il gruppo svedese si dimostra molto mobile e varia continuamente i punti di riferimento dell'ascoltatore, senza fermarsi mai ad approfondire una formula o uno scenario definito. In questo album dimostrano di avere ben compreso l'essenza zappiana e la sposano a dovere con una ottima capacità strumentale e progettuale.

Da un'altra casa discografica emergente, la britannica Hux Records, arrivano tre belle produzioni che ruotano attorno alla figura di Elton Dean, il saxofonista recentemente scomparso che fu una delle anime più intense dei Soft Machine, pur non avendo fatto parte del nucleo fondatore della band. Elton era in qualche modo l'anima londinese dei Soft, l'elemento che segnò la definitiva consacrazione della band di Canterbury e il loro ingresso senza complessi nella scena londinese del jazz alla fine degli anni sessanta. Una scena certamente più sofisticata rispetto all'atteggiamento spesso naif delle band 'di provincia' che ruotavano attorno ai Soft Machine e ai Pink Floyd, ma allo stesso tempo forse attardata rispetto all'orologio della storia che in quel momento sembrava impazzito.

Psychic Warrior è un gruppo formato da Elton Dean con il tastierista Alex Maguire, il bassista Fred T. Baker e il batterista Liam Genocky. Il loro unico album è intitolato semplicemente Psychic Warrior ed è stato registrato in studio nel mese di settembre del 2003. Il leader virtuale è il tastierista che firma tutte le composizione, anche se il brano “Social Reformers” è stato scritto in collaborazione con Elton Dean. Lo scenario è quello del jazz venato di fusion e di rock, con sortite solistiche molto libere che spesso spingono dalle parti dell'avanguardia. Elton Dean è in ottima forma e sa piegare a dovere il materiale tematico per intense scorribande che si avvalgono della perfetta intesa con la guizzante sezione ritmica dove soprattutto Liam Genocky dimostra di essere un ottimo esponente di quella scuola di batteristi britannici che ha John Marshall come capofila. Alex Maguire alterna l'organo Hammond al piano elettrico e sa variare con grande bravura il clima di questa musica, passando da situazioni che si espandono con efficace senso drammatico, sempre condito da una buona dose di humor, a momenti più secchi e ritmati che testimoniano al capacità del gruppo di essere funky e accattivante. In qualche modo potremmo anche pensarli come a una risposta inglese alle jam band americane e i riff della conclusiva “Marina” testimoniano come i Colosseum e le band di Graham Bond fossero già proiettati in questa direzione.

Il Pip Pyle's Equip'Out è un gruppo guidato dal batterista Pip Pyle che ricordiamo motore infaticabile di molte formazioni che sono cresciute alla corte dei Soft Machine, a cominciare dai Gong di Daevid Allen per passare poi a Hatfield and the North, National Health, Soft Heap e In Cahoots. Con questo Instants lo ritroviamo per l'appunto alla guida del quartetto Equip'Out che vede a bordo anche Elton Dean, il chitarrista francese Patrice Meyer e il bassista Paul Rogers. La registrazione live è del 1994 ma solo da pochi mesi è stata resa disponibile con la pubblicazione di questo album. Le cinque composizioni sono a firma collettiva da parte dei quattro musicisti che compongono il gruppo e questo la dice lunga su come questa band sia basata sul sottile bilanciamento delle energie che ogni componente sa apportare. La musica è molto intensa e si muove spesso in direzione della libera improvvisazione, anche se i pattern ritmici di Pyle sono indubbiamente derivati dal rock progressivo. La robusta chitarra di Meyer offre un punto di vista insolito portando in primo piano uno strumento che raramente è stato intenso protagonista nella musica di Canterbury. Elton Dean è in buona forma e le sue elucubrazioni sono sempre interessanti e profonde.

La pianista francese Sophia Domancich si affianca ad Elton Dean per un progetto in duo nell'intenso Avant registrato dal vivo a Gorizia nell'aprile del 2004. I due hanno collaborato assieme dalla metà degli anni ottanta in poi, in diverse formazioni che vanno dagli Equip'Out di Pip Pyle appena citati (ma nel caso dell'album di cui abbiamo appena parlato la Domancich era stata sostituita da Meyer), al quintetto dello stesso Dean, al gruppo Soft Bounds, ma questa è stata la prima volta che hanno suonato in duo, affidandosi completamente all'improvvisazione senza schemi prefissati. I due sono ottimi musicisti, si intendono alla perfezione e hanno una evidente comunanza ‘filosofica' e ‘spirituale' che rende il progetto del tutto affascinante e peculiare. Il primo e l'ultimno brano sono firmati dalla pianista, mentre i due brani centrali arrivano dal book di Elton Dean. La Domancich esplora una estesa gamma timbrica che la vede anche impegnata a cavar fuori suoni inconsueti che arrivano direttamente dalla cordiera dello strumento. Elton soffia con circospezione, attento a cogliere il più lieve sussulto che lo sappia indirizzare verso una meta condivisa. La struttura scheletrica delle composizioni viene soppesata e dilatata e lunghi brividi si dipanano nello spazio alla ricerca di cavalcate e scorribande piene di soprassalti dinamici. Difficile poter chiedere di più a due artisti che si offrono l'un l'altro per una compenetrazione intensa che mette completamente a nudo la loro anima.

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