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Prima o poi andrò a New York: intervista a Luca Mannutza

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Io sono un pianista, e riesco a registrare dei dischi con l'Hammond, evidentemente non lo suono tanto male.
Luca Mannutza ha iniziato il suo viaggio musicale dal Conservatorio di Cagliari, da quella Sardegna che ha cullato tanti talenti del nostro jazz. Da subito è stato considerato come un bambino prodigio in ambito classico e poi, da adulto, jazzista interessato alle contaminazioni, fino al raggiungimento di una propria cifra stilistica. La sua è una tecnica mutevole, che gli consente di passare con scioltezza dal piano all'organo Hammond, per dar vita a diversi progetti discografici, dove riesce a misurarsi con successo con vari tipi di formazione. Luca Mannutza ha un sogno: andare a vivere e suonare, a New York.

All About Jazz: Sei nato a Cagliari. Qual è l'elemento che rende così speciali i musicisti sardi?

Luca Mannutza: Il fatto di essere nati in un'isola ha i suoi pro e i suoi contro. Nel senso che la cultura a volte è limitata, perché si pensa che tutto quello che c'è in Sardegna sia il meglio. Allo stesso tempo il clima, il fatto di essere vicini al mare, sembra che dia degli ottimi risultati dal punto di vista musicale. Ci sono molti musicisti sardi che sono riusciti a imporsi sulla scena internazionale. Paolo Fresu, Antonello Salis e Bebo Ferra sono tra i più conosciuti.

AAJ: È vero che vorresti vivere in un posto, molto diverso dalla Sardegna, come New York?

L.M.: Assolutamte sì, è il mio sogno e spero di realizzarlo al più presto. Semplicemente per un discorso di linguaggio jazzistico. A me piace il jazz che si suona oggi a New York, e dunque mi piacerebbe stare lì per parlare lo stesso linguaggio. Vedo che rimanendo in Europa è più difficile imparare quello stile. Gli americani quando vengono qui piacciono, mentre se accade il contrario non è proprio la stessa cosa.

AAJ: Se potessi tornare indietro, rifaresti la scelta del Conservatorio?

L.M.: Del Conservatorio in genarale rispondo di sì, mentre se parliamo del Conservatorio di Cagliari, che è quello dove ho studiato, direi di no. Ho vissuto diversi episodi negativi. Avrei dovuto essere un pianista classico, ero uno di quelli che vengono definiti bambini prodigio, dal momento che suonavo già a quattro anni. A sette anni ho fatto il primo concerto, mi sono diplomato a diciotto, mentre avrei potuto farlo a quindici. Ho perso tre anni che avrei potuto utilizzare al meglio. Le cose non sono andate lisce come dovevano, diciamo così, senza voler scendere troppo nei particolari.

AAJ: Il fatto di essere stato fin da piccolo al centro dell'attenzione ha creato in te un disagio verso le aspettative degli altri?

L.M.: Non più di tanto. A parte il diploma. Lì c'è stato un episodio abbastanza brutto, che preferirei non raccontare. È stata la prima delusione, ma anche una fortuna, perché quel fatto - qualche anno più tardi - mi ha spinto verso il jazz.

AAJ: Tu stesso poi ti sei cimentato nell'insegnamento, cosa cerchi di trasmettere ai tuoi alliei?

L.M.: Non avere il paraocchi. Cerco di avere un atteggiamento che vada oltre il "questo si fa e questo non si fa". Conoscere le regole è importante, ma poi bisogna seguire un percorso personale. Ognuno ha la sua tecnica, una cosa può venire meglio a me che a un altro e viceversa. Certo, non dico di suonare con le mani capovolte, ma ognuno deve essere libero di esprimere se stesso, senza troppi paletti. Per me è importante capire la predisposizione di un allievo; non tutti sono portati a fare le stesse cose.

AAJ: Per arrivare a imboccare la via del jazz, oltre alla delusione del Conservatorio, c'è stato un episodio o un personaggio determinante in tal senso?

L.M.: È stato un avvicinamento graduale. Avevo un amico chitarrista, molto talentuoso, che mi faceva ascoltare dischi nuovi. Mi ha fatto conoscere il rock progressive, poi il jazz-rock dei Weather Report, poi gli standard e così via.

AAJ: Hai iniziato a suonare con gruppi di jazz fusion. Cosa è rimasto di quelle esperienze nel tuo modo di suonare?

L.M.: Tutta la musica che ho ascoltato, come per esempio il primo gruppo di Pat Metheny, con alle spalle Lyle Mays. Certe soluzioni armoniche e la cantabilità di quel gruppo sono insegnamenti che mi porto dentro. Stesso discorso per i Weather Report. Il senso della melodia nelle mie composizioni risente degli ascolti di quel periodo, della scena jazz-rock.

AAJ: Quando componi, parti da un'idea, da un concetto, o tieni principalmente in considerazione l'organico per il quale sciverai?

L.M.: Mi piace comporre su misura per un determinato organico. Può anche accadere che mi venga un'idea compositiva e decido successivamente con quale organico può essere suonata. Dipende dalle situazioni, non c'è una regola fissa.

AAJ: Collabori con formazioni di varia natura, in duo, trio e sestetto. Qual è il tuo organico ideale?

L.M.: Il trio, sicuramente. Ma anche il quintetto direi. Nel duo mi diverto molto, ma preferisco il trio. Perché sono cresciuto in una formazione in trio, e il quintetto mi piace molto perché tra gli ascolti di jazz, soprattutto all'inizio, c'erano molti quintetti, vedi Wayne Shorter, Jazz Messenger e altri.

AAJ: Come si trova il tempo e come ci si dedica al massimo quando, come nel tuo caso, si portano avanti contemporaneamente diversi progetti discografici?

L.M.: Cerco di ottimizzare i tempi. Nei periodi in cui sono più tranquillo dal punto di vista concertistico cerco di dedicarmi allo studio, che è un impegno continuo, alla composizione e alle registrazioni. Scrivo molto anche quando viaggio in treno o in aereo, è una cosa che mi piace molto fare.

AAJ: Hai lavorato diverse volte in duo, per esempio con Max Ionata e Fabrizio Bosso. È di prossima pubblicazione il disco Lunar in duo con Lorenzo Tucci. Quali sono state le maggiori difficoltà nel realizzare questo album?

L.M.: Con Lorenzo abbiamo un duo particolare, pianoforte-batteria. In genere, nei progetti in duo, il pianoforte è affiancato da uno strumento a fiato. Non ci sono state difficoltà. Collaboriamo da tanto tempo. Volevamo fare un disco che fosse dedicato all'improvvisazione, sia quella totale, sia quella da elaborare su uno standard. Siamo andati in studio senza delle cose scritte e abbiamo deciso - per esempio - di suonare una ballad, quindi abbiamo cercato una serie di accordi con un tema improvvisato al momento, facendo tutto senza schemi definiti.

AAJ: Quando suoni l'Hammond, come in Adventures Trio con Alessio Menconi e Aldo Romano, pensi di costringere i tuoi compagni di ventura a suonare in un determinato modo?

L.M.: Suonare con un organista non è semplice. L'Hammond è uno strumento particolare. Il basso suonato con questo strumento non è presente come quello di un contrabbasso, è più nebuloso, quindi bisogna avere una grande intesa con gli altri musicisti. In questo senso sì, posso in qualche modo influenzare gli altri, ma bisogna conoscersi molto bene.

AAJ: Come cambia il tuo approccio tra il pianoforte e lo strumento elettrico?

L.M.: Sono due strumenti totalmente diversi, hanno in comune solo il colore dei tasti. L'espressività si ottiene in modi molto diversi. Non c'è un fattore dinamico nell'Hammond, che cerco di ricreare con il pedale. Mi avvicino ai due strumenti con due modi di pensare diversi. Ragiono come se la mente si sdoppiasse. È una doppia veste. Sono pochi i musicisti che suonano molto bene entrambi gli strumenti. Io sono un pianista, e riesco a registrare dei dischi con l'Hammond, evidentemente non lo suono tanto male. Ma l'organo dovrebbe essere studiato e approfondito proprio perché si tratta di uno strumento particolare e diverso dal piano. Non mi ritengo un vero e proprio organista.

AAJ: Nella tua carriera non hai scritto colonne sonore anche se hai lavorato in alcune musiche da film. Ti piacerebbe cimentarti in questo contesto? Da quale regista ti piacerebbe essere chiamato per un eventuale lavoro?

L.M.: Sì, sarebbe interessante. Per Pupi Avati, per esempio, mi piacerebbe. Però più che il regista mi piacerebbe lavorare a un tipo di film. Non scriverei mai per una commedia e per un horror, sarebbe meglio un film drammatico.

AAJ: Hai collaborato con artisti di statura internazionale e hai partecipato ai festival più importanti. Hai un obiettivo da realizzare?

L.M.: Chiaramente andare a New York [ride], e poi una volta lì - e prima o poi ci riuscirò - essere chiamato da un grande musicista. Me ne piacciono molti, vedi Mike Moreno o solisti come Chris Potter, Seamus Blake, John Ellis. Sono musicisti con i quali è possibile collaborare quando sono in Italia, il difficile sta nell'essere chiamati a suonare con un loro gruppo quando sono lì a New York.

AAJ: Tra poco inizierà la stagione dei festival estivi. Cosa c'è che non sopporti in queste manifestazioni?

L.M.: In generale niente. Sopporto anche i festival dove non si fa propriamente jazz. Per esempio Umbria Jazz di non è lo stesso festival di venti anni fa. Non sopporto gli organizzatori che cercano di fare i furbi, quelli che cercano di sfruttarti con l'inganno.

Foto di Emanuele Vergari (la prima, la terza e la quarta), Roberto Cifarelli (la seconda), Daniela Crevena (la quinta), Paolo Mura (la sesta) e Riccardo Crimi (la settima).


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