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L’uomo d’acciaio - Freddie Roulette e la sua pazza steel guitar

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...Riuscendo quasi sempre a rubare la scena con il suo incedere estroso nei confronti del pubblico e la sua ‘follia’ creativa nel momento dell’esecuzione che gli fa scordare la routine per cercare sempre nuove strade per giungere alla meta
L’acciaio è certamente il metallo preferito da Freddie Roulette, il veterano della lap steel guitar che spesso è rimasto nell’ombra per poi tornare fuori con piccole gemme che si snodano nel sole del blues contemporaneo. Negli ultimi anni è tornato alla ribalta grazie al patrocinio di Henry Kaiser, un chitarrista molto noto negli ambienti dell’avanguardia che cerca di aiutare i colleghi che ritiene più meritevoli di attenzione.

Alcuni anni fa la casa discografica tedesca ‘Tradition & Moderne’ aveva pubblicato l’album Spirit of Steel che conteneva registrazioni del 1998 effettuate a Brema. Un repertorio che spaziava dal blues al jazz, dal soul alla musica di ispirazione religiosa, senza dimenticare mai la dimensione funky che sembra essere presente da sempre nel dna del chitarrista. Per l’occasione Henry Kaiser aveva scritto le note di copertina, ripercorrendo un po’ la lunga carriera del chitarrista maestro della lap steel guitar a otto corde, quella che si suona seduti, con lo strumento appoggiato sulle gambe.

Freddie era noto per la sua partecipazione all’album Tennesse Woman di Charlie Musselwhite, che vedeva impegnato alla chitarra elettrica Harvey Mandel, a sua volta noto per la sua militanza nei Canned Heat. L’album uscì nel 1969 e servì come ottima introduzione per il funambolico Roulette, nato il 3 maggio del 1939 ad Evanston, Illinois, appena a nord di Chicago. Dopo quella partecipazione il chitarrista di colore è sempre rimasto attivo nella area di San Francisco, ha spesso collaborato proprio con Harvey Mandel e si è trovato a suonare con eroi del blues elettrico come Earl Hooker, Otis Rush, Luther Tucker e Gatemouth Brown, riuscendo quasi sempre a rubare la scena con il suo incedere estroso nei confronti del pubblico e la sua ‘follia’ creativa nel momento dell’esecuzione che gli fa dimenticare la routine per cercare sempre nuove strade per giungere alla meta. Un genio che però diventa difficile da gestire, proprio perchè si comporta come una cavallo che non vuole sentire la briglia.

L’album Spirit of Steel è un ottima introduzione all’arte di Freddie Roulette e vede il chitarrista accompagnato da una band molto solida, composta dai fratelli Holmes, Wendell chitarrista e Sherman bassista, dal batterista Popsy Dixon e dal saxofonista Rudy Costa. Il repertorio spazia da un brano di Percy Mayfield a classici del jazz degli anni trenta come “Honeysuckle Rose” e degli anni cinquanta come “Song For My Father” (di Horace Silver), senza avere alcuna preclusione per il quasi-kitsch di “Cherry Pink and Appleblossom White” e senza farsi mancare un bel blues di Albert King e una delirante “Lucille” di Little Richard. Troviamo anche un bel brano originale intitolato “Dis Tang” che ripercorre gli scenari del funk blues.

Da poco la stessa casa discografica tedesca ha pubblicato un secondo album di Freddie Roulette, con un titolo abbastanza simile a quello precedente. Stavolta è proprio Freddie a diventare d’acciaio e l’album si intitola Man of Steel. Henry Kaiser diventa il produttore e si porta un manipolo di fedelissimi musicisti (fra i quali è doveroso citare David Lindley impegnato in un brano e Will Bernard impegnato in due brani) per supportare il lavoro della chitarra slide di Roulette. Kaiser si impegna anche come chitarrista in cinque degli undici brani e il clima generale dell’album è certamente più contemporaneo rispetto all’album precedente. Le registrazioni sono del 2005 a Berkeley, negli studi della Fantasy. Il repertorio è più orientato al blues e le incursioni in area jazzistica sono legate a brani più recenti (“Sidewinder” di Lee Morgan e “In the Heat of the Night” di Quincy Jones).

Le continue invenzioni di Freddie Roulette meritano certamente di essere ascoltate, senza lasciarsi sviare dalla sua propensione ad amalgamare nel calderone un po’ di tutto, comprese le scorie zuccherine, le derive strapopolari e le sue doti vocali non particolarmente esaltanti. E’ come assistere ad un continuo scoppiettare di fuochi artificiali, con colori sempre mutevoli e figurazione mai ripetitive. Come ha detto mille volte Albert King: “if you don’t like the blues you’ve got an hole in your soul”.

Foto di Norm Buller


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