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Ljubljana Jazz Festival

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Lubiana, Slovenia - 30.06-02.07.2011

Non è un caso che la Clean Feed, l'etichetta del momento, la Black Saint degli anni zero, abbia scelto Lubiana per festeggiare il primo decennio di attività. Lubiana capitale della Slovenia, porta dell'impero austroungarico, messa lì, nel cuore della Mitteleuropa, tra Vienna, Belgrado e Trieste. Lubiana città viva e brulicante, uscita (quasi) indenne dagli orrori delle guerre balcaniche, prima e unica tra le capitali della ex Jugoslavia ad abbracciare l'Europa (e l'Euro). Lubiana che ospita uno dei festival jazz più longevi del Vecchio Continente, giunto quest'anno all'edizione numero cinquantadue (il più longevo? Chi ha tempo e voglia indaghi e faccia sapere). Lubiana che dalla metà dei Novanta, grazie a uno zoccolo duro di appassionati, direttori artistici e promoter, ha sviluppato una sorprendente familiarità-complicità con il meglio della musica improvvisata degli anni Duemila.

E qui si torna alla portoghese Clean Feed, che del meglio di cui sopra ha raccontato le gesta; si torna a quel che si diceva in apertura sulla non casualità della scelta: dieci anni di dischi memorabili non potevano essere festeggiati in un luogo più degno; e non potevano essere festeggiati con un programma migliore di quello che ha occupato interamente uno dei quattro giorni del festival (il terzo). Quattro concerti: il primo gustoso, gli altri a dir poco strepitosi, sparati in rapida successione per una sequenza da urlo.

Ma andiamo con ordine e iniziamo dal gustoso, ovvero dal concerto del Bernardo Sassetti trio; concerto ospitato nel modernissimo Klub CD, all'ultimo piano del centro culturale Cankarjev Dom e con un lato panoramico aperto sulla città vecchia. Il pianista portoghese, accompagnato dal contrabbasso di Carlos Barretto e dalla batteria di Alexandre Frazão, ha deliziato con un'ora abbondante di delicatessen evansiane-jarrettiane, senza risultare stucchevole e retorico. Certo, jazz non particolarmente scioccante, forse un tantino leccato, ma sostenuto da una leggerezza d'intenti e di tocco davvero cristallina. Notevole la lennoniana "Working Class Hero," riletta alla Esbjörn Svensson.

A seguire, il tris degli strepitosi è toccato aprirlo ai Bigmouth di Chris Lightcap, che dopo un salto a Maribor (sempre Slovenia: che vi avevo detto sulla familiarità- complicità?), a Lubiana sono saliti sul palco del Linhartova, splendido auditorium nelle segrete del Cankarjev Dom, per la loro seconda esibizione europea di sempre. Reduci dall'ottimo Deluxe, uscito ovviamente su Clean Feed, i cinque hanno messo in chiaro fin dalla fascinosa "Platform" quale sarebbe stato il mood della serata: il piano elettrico del geniale Craig Taborn, la torrenziale eloquenza del tenore di Tony Malaby, le volute sinuose del sax gemello di Chris Cheek, il drumming musicale e asciutto di Gerlad Cleaver (Roy Haynes docet), il basso puntuale e funambolico del leader. Che dire? Difficile trovare di meglio per inquadrare la new wave del mainstream a stelle e strisce. L'esibizione, ad altissimo impatto energetico, è stata un susseguirsi di colpi a bersaglio: mozzafiato il crescendo di "Silvertone"; pulsante alla maniera di New York la cervellotica "The Clutch," con Taborn al pianoforte e Lightcap sugli scudi; africaneggiante alla Blue Notes la superba "Ting".

Altrettanto entusiasmante il set successivo, che ha visto protagonisti, sempre sul palco del Linhartova, gli scandinavi Angles, calati a Lubiana in formazione allargata rispetto al recente Live in Coimbra: da sestetto a ottetto, con un cambio nella line-up, fuori Magnus Broo, dentro l'ottimo Goran Kajfes alla tromba, e due innesti, al pianoforte Alexander Stethson e Eirik Hegdal al sax baritono e soprano. Per il resto solo conferme, con il tarantolato Martin Küchen al contralto, il rosso Mats Äleklint al trombone, il tentacolare Mattias Ståhl al vibrafono, il veterano Kjell Nordeson alla batteria e Johan Berthling al contrabbasso.

Il tutto per una potenza di fuoco devastante, con l'accento posto in maniera ancora più marcata rispetto ai Bigmouth sulla componente energetico-dionisiaca dal fare improvvisazione, un po' alla maniera dell'Art Ensemble, ma con richiami ancestrali al jazz delle origini (o a quello che gli Angles possono immaginare sia stato il jazz delle origini), alla madre Africa e alla ritualità sciamanica del free: Ayler in primis, ma anche Sheep per la verve politica, Coltrane per certi squarci estatici, Sun Ra per la tumultuosa visione d'insieme. In una parola: travolgenti; incontenibili soprattutto nei crescendo, strutturati con una lucidità che ha del miracoloso vista la frenesia esplosiva dell'ottetto. Äleklint, Küchen e Ståhl i migliori in campo.

Infine, a chiudere l'un-due-tre da urlo, ecco servito il Tamarindo Trio di Tony Malaby, per un finale nottambulo al Klub CD, con le luci della città e del Ljubljanski Grad, il castello che domina la capitale slovena, a fare da magico sfondo. Il riferimento più immediato per la formazione, completata dal basso di William Parker e dalla batteria di Nasheet Waits, è il Sonny Rollins del Village Vanguard, anche se il trio incorpora in maniera del tutto disinvolta la lezione del primo Ayler (quello di Spiritual Unity, tanto per capirci).

A Lubiana Malaby e soci hanno dato vita a un set dirompente, a tratti estenuante per emotività e pathos. Il tenore del newyorchese viaggia ormai sui binari dell'eccellenza assoluta. Ma al di là del fraseggio, del timing e della straziante intensità, quel che impressiona ogni volta è la potenza del tono: vibrante, caldo, corposo. Vengono in mente Chu Berry e Coleman Hawkins, Paul Quinichette e il Ben Webster più graffiante, ma anche Frank Lowe e il Joe Lovano dei primi tempi. Insomma, un sassofonista coi fiocchi, che nel drumming onnipresente e ipercinetico di un ispiratissimo Nasheet Waits ha trovato linfa vitale per nutrire la propria ispirazione. Nel mezzo l'inossidabile William Parker, sulla cui maestria sarebbe inutile dilungarsi.

William Parker che il giorno prima aveva aperto il programma del giovedì con un solo ospitato nell'auditorium Štihova, un gioiellino circolare da 200 posti custodito come un segreto nella pancia del Cankarjev Dom. Lasciati a casa, fortunatamente, gli strumenti a doppia ancia, il nostro si è concentrato sul contrabbasso, gettandosi a capofitto in un'ora abbondante di enciclopediche meditazioni. Enciclopediche perché nelle dita di Parker è stipata l'intera storia del contrabbasso, da Jimmy Blanton a Richard Davis, come ha dimostrato un vorticoso medley nel quale il newyorchese ha shakerato "Brown Rice" di Don Cherry, "A Jackson in Your House" di Roscoe Mitchell, "Luna Surface" di Alan Silva e "Thulani" di Joseph Jarman, brano contenuto nel disco di debutto di Frank Lowe, Black Beings, lavoro del '73 che al contrabbasso vedeva un giovanissimo Parker. Brividi e vertigini: parlare del continuum nella storia del jazz è un conto, vederlo dal vivo è un altro.

Prescindibile il resto della giornata, conclusa dal doppio appuntamento al Kino Šiška, ex cinema di periferia diventato una moderna sala concerti: di grana grossa il jazz senza pretese degli Operation Charlie di Robert Jukic, con ospite Daniele D'Agaro; patinata e kitsch la miscela di jazz-drum'n'bass-folk proposta dalla Hidden Orchestra: il ritmo c'è, ma gli orpelli vanno levati.

Per il resto del meglio ascoltato bisogna fare un salto al sabato, giornata conclusiva del festival inaugurata dal set del sassofonista sloveno Igor Lumpert (anche se newyorchese a tutti gli effetti da una decina di anni), con Christopher Tordini al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Più che discreta la proposta del trio, solido e telepatico, ambasciatore di un free dal taglio melodico e suadente.

Ben più esplosiva l'esibizione (la seconda in assoluto, la prima in Europa) del quartetto 11:11 del contrabbassista Eric Revis, formazione curiosa visto che allinea, oltre alla batteria del solito Waits, il pianoforte di Jason Moran e il sax tenore di Ken Vandermark. Già, Moran e Vandermark: il diavolo e l'acqua santa, l'irreprensibile uomo di punta della scuderia Blue Note e l'agitatore della scena avant di Chicago; due artisti agli antipodi, che in comune hanno soltanto i 500mila dollari intascati grazie al MacArthur Genius Grant (nel '99 da Vandermark, l'anno scorso da Moran). Una bestemmia? Tutt'altro: un esperimento riuscito. I quattro hanno trovato una loro via, mettendoci cuore e generosità. Ne è venuto fuori un live dal piglio concitato e nevrotico, da qualche parte tra il Cecil Taylor dei Sessanta e i Buffalo Collision di Tim Berne. Free d'assalto, vivo e scalciante. Necessaria un'ulteriore messa a punto, ma se il buon giorno si vede dal mattino...

In serata, sempre con Moran di mezzo, il quartetto di Charles Lloyd, per il quale l'organizzazione ha spalancato le porte del meraviglioso Križanke, un anfiteatro da duemila posti ricavato nel cortile di un monastero secentesco e coperto da una futuribile tensostruttura in acciaio e pvc (roba che solo a pensarlo in Italia si finisce ai forzati). Charles Lloyd, si diceva, che grazie all'incontro con Moran, Eric Harland e Reuben Rogers pare aver ritrovato d'incanto il tocco magico dei tempi migliori. Un tocco magico reso ancora più emozionante da una fragilità fantasmagorica dettata forse dagli anni (73 dallo scorso 15 marzo). Rispetto al recente Mirror i tre scudieri hanno potuto usufruire di ampia esposizione; esposizione della quale hanno beneficiato in particolare Moran e Harland. Il tutto senza mettere però in discussione la centralità di un sassofono (e di un suono) fuori dal tempo. Al confronto le esibizioni canore della slovena Mia Žnidaric e della sempiterna Maria João, che hanno fatto calare il sipario sul festival, sono passate senza lasciare il segno: puro intrattenimento la prima (che deve avere un gran seguito in patria visto il pienone), di livello nettamente superiore la seconda, anche grazie al pianoforte ispirato di Mário Laginha.

Foto di Nada Zgank / Ljubljana Jazz Festival.


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