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La storia del jazz? Globale! Intervista con Stefano Zenni

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È uno degli storici del jazz e dei musicologi di ambito afroamericano più stimato a livello internazionale, ma i lettori italiani lo conoscono bene anche come firma di testate quali Musica Jazz o Il Giornale della Musica e come docente e conferenziere brillante, nonché come presidente della Società Italiana di Musicologia Afroamericana. È Stefano Zenni, autore di una "Storia del jazz. Una prospettiva globale" appena uscita per Stampa Alternativa e che si presenta come una delle novità più interessanti del panorama editoriale legato al jazz Lo abbiamo incontrato per farci raccontare qualcosa di più su questo progetto.

AllAboutJazz: Incominciamo dalla lavorazione del libro: quanto tempo ci hai messo e con quali criteri hai lavorato? Quali sono state le difficoltà che non ti aspettavi e viceversa le cose che temevi e che sono venute più facili?

Stefano Zenni: La lavorazione non è durata molto, circa due anni. Lavori di questo genere hanno altri tipi di durate, quello dell'accumulo e del riordino della conoscenza, un processo che dura decenni. In questo l'insegnamento è stato cruciale, perché mi ha permesso nel tempo di dare una prima forma sensata alla narrazione e di individuare questioni che andavano chiarite. Una delle cose che temevo è che invece è venuta facile è stata la trattazione dell'hard bop, e in modo analogo la parte sul free jazz europeo è venuta quasi da sé. Viceversa, il capitolo su New Orleans ha subìto molte revisioni prima di riuscire a mettere a fuoco la sintesi giusta.

AAJ: Ci sono stati argomenti o musicisti che prima di iniziare il libro avevi magari studiato o considerato meno e che invece ora ti sembrano più rilevanti? E viceversa?

S. Z.: Di sicuro lavorando al libro sapevo che avrei dato una maggiore rilevanza ai compositori, che sono una delle grandi novità del libro (insieme ai diagrammi rizomatici che li mettono in relazione). Uno degli argomenti che ho dovuto approfondire è stato quello del diritto d'autore, del management e in genere del music business. E lavorando al libro ho via in compreso che dovevo dare maggiore spazio al ruolo della danza. Mentre mi sono trovato a ridimensionare, anche per esigenze di sintesi, certe orchestre bianche dello Swing, come Tommy Dorsey, Glenn Miller o Charlie Barnet, che ê del tutto assente.

AAJ: Quali sono secondo te i principali luoghi comuni sulla storia del jazz che questo tuo lavoro può contribuire a sfatare?

S. Z.: Sono numerosi, e vengono elencati nel Preludio del libro. Ci sono fatti destituiti di fondamento, come la datazione dei riti di Congo Square; o il mito della chiusura di Storyville, che concluse un periodo ma certo non alimentò una migrazione di musicisti che era iniziata anni prima. C'è la possibilità di individuare il contributo delle singole etnie e culture africane al jazz. La retorica dei musicisti free politicamente impegnati, invece meno presenti nelle iniziative per i diritti civili di tanti colleghi maintream (Gillespie su tutti). La visione globale del jazz e la prospettiva geografica, resa concreta nel libro - cosa del tutto nuova nella letteratura sull'argomento - da cartine e mappe. Lo sviluppo del jazz come musica isolata, che invece nel libro è intrecciata alla musica classica, al soul, al rock. Il terzomondismo jazz come filone robusto diramato in tutto il mondo e non come deriva esotica ecc.

AAJ: Anche la rilevanza del ruolo dei compositori mi pare una interessante novità.

S. Z.: Sì, c'è nel libro un nuovo, importante paradigma storico: solitamentei pensiamo all'evoluzione del jazz come un prodotto delle innovazioni degli improvvisatori, cosa vera e ampiamente discussa nel libro. Ma la storia può essere racconta anche con un altro criterio: ovvero che anche la composizione ha introdotto fondamentali novità di linguaggio - si pensi a Ellington, Mingus, George Russell, Braxton - e la relazione tra improvvisatori e compositori è stata più complessa di quello si crede (basta la figura di James P. Johnson a comprendere la portata del problema). Lo stesso spartito, la musica a stampa, negli anni Dieci e Venti ha svolto un ruolo cruciale nelle innovazioni stilistiche, dall'introduzione del repertorio blues alle tecniche di arrangiamento orchestrale

AAJ: E dal punto di vista dello sviluppo storico, che tipo di evoluzione hai voluto sottolineare?

S. Z.: Una delle debolezze delle storie del jazz classiche è l'adozione di un puro criterio diacronico, per cui mano a mano che gli stili si succedono, quelli precedenti scompaiono, e con essi i musicisti. Nel mio testo vengono abbandonate le fruste genealogie stilistiche (da Bolden a Armstrong a Eldridge a Gillespie ecc.) in favore di relazioni stilistiche complesse, anche in conseguenza di una visione sincronica della storia, che di cogliere la ricchezza stilistica di ogni epoca. La parte sul dopoguerra alterna capitoli sul Dixieland Revival, il bebop, il progressive jazz, l'afrocuban bop ecc. Oppure si pensi agli anni Sessanta, in cui fioriscono il free jazz, la scuola Blue Note, i capolavori di Davis e Mingus. Per non parlare degli anni Settanta, in cui il ragtime revival, l'AACM, la nuova dimensione accademica e la scena dei loft sono profondamente intrecciate.

AAJ: Come spesso accade, più ci si avvicina al presente e più la solidità dell'analisi storica deve lasciar inevitabilmente il passo a un margine di incertezza e di ipermetropia. Tu hai deciso di fermarti, più o meno a fine secolo scorso con Zorn, Steve Coleman etc., ma comunque la trattazione degli ultimi vent'anni del Novecento è comunque assai più stringata di quella dei decenni precedenti. Nella Coda fai riferimento al libro di Sessa, ma su quali coordinate secondo te si può lavorare per dare degli ultimi trent'anni di jazz un quadro al tempo stesso storicamente valido e stimolante?

S. Z.: Un libro di storia non può e non deve raccontare il presente, ma deve offrire gli strumenti storici per affrontarlo, per comprenderlo. Nel libro, che pure cita anche dischi usciti solo quattro o cinque anni fa, si individuano quelle personalità che stanno influenzando i trentenni e quarantenni di oggi: Braxton, Hemphill, Berne, Steve Coleman, Threadgill e per altri versi Zorn. Il libro racconta ampiamente gli ultimi trent'anni, ad esempio discutendo del caso Marsalis, della centralità del nuovo hard bop, del ruolo di riferimento di Braxton e dell'eredità incompiuta e incompresa degli anni Settanta. Che alcune personalità abbiamo lasciato un segno, come Bill Frisell, non c'è dubbio; su altre, come Dave Douglas, mi rimetto al giudizio della storia, tra qualche tempo.

AAJ: Nel libro di Shipton recentemente tradotto anche in Italia molto spazio è dedicato al jazz vocale, mentre nel tuo libro questo argomento, specie dopo gli anni Cinquanta occupa solo poche pagine. Come mai questa scelta?

S. Z.: Non è casuale. Credo che dopo Betty Carter il jazz vocale abbia conosciuto uno scarso sviluppo stilistico: Norma Winstone, Phil Minton e Sainkho Namtchylak sono i nomi che mi vengono in mente (e che discuto nel libro), a cui si potrebbe aggiungere la promessa "tradita" di Bobby McFerrin. Per il resto, anche se a me piace molto, che so, Kurt Elling, non mi pare che il jazz abbia espresso nulla di paragonabile alle innovazioni vocali immaginate da Berio, Ligeti, Müller o da performer come David Moss.

AAJ: Anche alla cosiddetta scuola Blue Note sono riservate relativamente poche pagine. Ritieni quel gruppo di artisti meno rilevanti nel disegno evolutivo della musica? Penso anche e soprattutto a figure originalissime come Andrew Hill, Bobby Hutcherson, Jackie McLean, Joe Henderson, oltre ovviamente a Shorter...

S. Z.: Mi permetto di dissentire, soprattutto nell'uso del criterio quantitativo nel misurare l'importanza data a certi musicisti. Potrei sbagliarmi, ma questo è la prima storia del jazz in italiano che non solo individua una "scuola Blue Note," ma ne descrive i tratti stilistici e di linguaggio. Non solo: nel diagramma della figura 31 (pag. 403) si comprende bene il grande peso avuto nella definizione di un linguaggio neomodale che è oggi l'asse portante di gran parte del jazz internazionale. Inoltre il capitolo sulla scuola Blue Note è incuneato nella narrazione del free jazz, mostrando la ricchezza del contributo di Hancock, Hutcherson etc. agli anni Sessanta e, come detto, oltre. Di McLean viene tra l'altro raccontato anche il ruolo di raccordo con le avanguardie teatrali del Lower East Side. Quanto a Shorter, mi pare che siano ben spiegate, seppure con necessità di sintesi, le profonde innovazioni sul piano compositivo, formale, armonico.

AAJ: Il lettore è invitato a integrare la lettura con il tuo precedente libro, I segreti del jazz: va letta in questo senso la mancanza di una discografia consigliata o si può ricondurre al fatto che on-line è diventato facilissimo reperire informazioni di questo tipo?

S. Z.: L'integrazione con I segreti del jazz va intesa anzitutto come rinvio a problemi teorico-linguistici che nella storia non vengono trattati. Per mantenere fluida la narrazione e per non ostacolare il lettore meno specialista, con un'icona ho rinviato all'altro volume ogni volta che era necessario fare approfondimenti sul linguaggio o condurre un'analisi più tecnica di un brano. Inoltre il testo rimanda agli ascolti a I segreti del jazz che sono già disponibili, e mi sembrava un buon servizio offrire al lettore un'antologia affidabile e disponibile. L'assenza di una discografia consigliata è stata una scelta sofferta e meditata. In un'epoca in cui assistiamo allo sgretolamento del concetto di album, anche di quelli consolidati (che vengono ristampati smembrati o accoppiati ad altri dischi), mi sembrava inutile mettere una discografia consigliata, soprattutto per il jazz pre-LP. Ma: al contrario dello Shipton, nel libro sono discussi centinaia di brani musicali e sono indicati in maiuscoletto i titoli di tutti gli album che bisogna ascoltare. In altre parole, nel libro ci sono tutte le informazioni discografiche di cui il lettore ha necessità: c'è un vastissimo canone di titoli, brani, album che sono la grande eredità filtrata dalla storia.

AAJ: Dal punto di vista didattico, specie per chi si avvicinasse digiuno da nozioni e per le nuove generazioni che hanno con la "conoscenza" un rapporto molto differente da quello dei loro fratelli maggiori, quali punti di approccio alla storia del jazz suggerisci?

S. Z.: Ascoltare, ascoltare, ascoltare. E nel tempo libero leggere questo libro... A parte gli scherzi: chi parte da zero dovrebbe leggere il libro con calma, un po' alla volta. Il suo scopo è fornire al lettore una guida affidabile ai valori musicali che hanno resistito al vaglio del tempo e alla comprensione dei loro rapporti con il mondo che li ha prodotti. Soprattutto, il libro vuole mostrare l'enorme ricchezza espressiva che il jazz ha donato e sta donando. Per cui l'intenzione è creare curiosità e spiegare: se dopo aver letto una sola pagina il lettore posa il libro e passa un'ora ad ascoltare la musica, allora lo scopo di questo lungo lavoro sarà stato raggiunto.

Foto di Andrea Pozza (la seconda).


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