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Kind of Blue Records - E' blue ma non è solo jazz

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E’ apparsa sul mercato il 1° di aprile ma come etichetta non sembra proprio adatta ad essere appesa alla schiena di qualche vittima del famoso scherzo che tutti conosciamo. Anzi, la svizzera Kind of Blue è parsa piuttosto preoccupata di apparire blasfema, scegliendosi questo nome, in un certo senso così equiparandosi al disco forse più famoso (ed amato) della storia del jazz. Perché sceglierlo allora? Perché, così viene dichiarato dal fondatore e presidente Roy Tarrant, il trait d’union è la qualità: tanta era quella di quel disco, tanta vuole essere quella della neonata etichetta discografica.

E’ vero? Vediamo.

Sedici sono i dischi annunciati per l’anno in corso e tutti ad opera di musicisti assai blasonati. Nell’ordine, i primi quattro (quelli che abbiamo ascoltato): The Django Reinhardt Festival, Hamilton de Holanda, Maucha Adnet, The Classical Jazz Quartet.

Buona partenza.

Aa.Vv.

The Django Reinhardt Festival

Kind of Blue

(2006 - distr. Ducale)

Valutazione: 4 stelle

Del primo, già ci sarebbe da elogiare la scelta, vista la scarsa attenzione riservata al genere gypsy che sopravvive folkloristicamente dell’opera di tanti epigoni di Django, tutti costretti ad accovacciarsi in gruppo sotto la sua gigantesca ombra. Non è colpa loro. Il gene(re) si trasmette immutabile da decenni e l’unico salvacondotto per la riconoscenza ufficiale è la maestria sulle corde, diligentemente asservita all’ortodossia. Qui c’è una registrazione dal vivo, al Birdland di NY nell’edizione anno 2002 dell’annuale festival che ha il pregio di non presentare solo abili scolaretti ma di tentare anche qualche buona sinergia. Col fratellastro jazz ovviamente, affiancando alle legioni dei fuoriclasse francesi come Dorado Schmitt, Angelo Debarre, Samson Schmitt, Serge Camps e Ludovic Beier, gli americani James Carter, Ken Peplowski, Jay Leonhardt, Grady Tate. Decisamente, non è poco. Si dirà, ma i brani sono sempre quelli, "Minor Swing", "Nuages", "Montagne Sainte Genevieve", "Melodie au Crepescule"… Forse non avete letto bene i nomi dei musicisti, ai quali va aggiunta quella vecchia volpe di Florin Niculescu. Fanno la differenza. I pezzi sono tutti ri-arrangiati dal gruppone e, sarà per la ripresa live o chissà che altro ma il pathos è davvero tanto. E poi, con quale altrettanta sensibilità sono stati inseriti due strumenti come il sax tenore ed il clarinetto a creare una nuova dimensione, una freschezza che forse proprio l’aria chiusa creata da fanatici (adorabili) chitarristi ha sempre un po’ precluso?

Bene, una volta tanto non si parla solo di Django ma anche del jazz manouche, quello che cerca di andare al di là delle legittimazioni indotte dalle pur importanti radici etniche.

Hamilton de Holanda

Samba do Avião

Kind of Blue

(2006 - distr. Ducale)

Valutazione: 4 stelle

Hamilton de Holanda, chi è costui? Inutile girare in tondo, dalle nostre parti non è noto ma è un altro dei pochi (rispetto ai tanti) talenti che la globalizzazione musicale ha, nel bene e nel male, aiutato a sfondare il muro dell’indifferenza creato intorno a quello che una volta si chiamava spregiativamente terzo mondo.

E’ brasiliano ed è un genio. Si esibisce da quando era bambino e ogni volta lascia senza fiato chi l’ascolta. Suona il “bandolim” (mandolin in inglese) che non è proprio un mandolino, nella sua versione originale conta quattro corde doppie e lui ne ha aggiunta un’altra portandole a dieci. Perché? Perché lui riesce a suonarle tutte e perché solo così ha potuto trovare uno strumento adatto alla sua stratosferica personalità. Nelle sue mani, questo che è lo strumento principe del choro brasiliano, approda a sonorità originali e sorprendenti. C’è un gusto, una grazia, una fluidità nell’argomentazione, ancor più evidente in questo disco solitario, che amplia i confini di questo genere musicale, traghettandolo senza attriti al jazz, ad una concezione improvvisativa delle composizioni che avviluppa e trasporta. L’approccio decostruttivo alla tradizione e la brillante fantasia impiegata nell’articolazione dei temi è tale che quando il grande Hermeto Pascoal lo ha ufficialmente “benedetto” sulle copertine dell’album precedente, a molti è parsa presentazione superflua. Quando poi negli ultimi tre brani lo affianca l’accordeon di Richard Galliano, abbiamo un’ulteriore dimostrazione della sua capacità a comunicare sensazioni affascinanti, decisamente non prive di charme.

Maucha Adnet

The Jobim Songbook

Kind of Blue

(2006 - distr. Ducale)

Valutazione: 3 stelle

Sempre in tema di brasilianità, la vocalist Maucha Adnet vanta una rispettabile carriera musicale che l’ha vista al fianco di Antonio Carlos Jobin per dieci anni. Non solo, anche di altri come Charlie Byrd, Dori Caymmi, Eliane Elias, Wynton Marsalis, Caetano Veloso, tanto da essere considerata tra le sidewoman brasiliane più conosciute all’estero. La sua voce è perfetta, considerata all’interno di quella semiotica d’importazione che noi europei ci siamo fatti della saudade brasiliana, ma in questo disco, dedicato interamente a Jobim, risulta un po’ monocorde, a tratti persino scolastica, dal carisma appannato (basti confrontare la versione di “Samba do Aviao” con quella presente sul disco di Hamilton de Holanda…). Tuttavia, viene da pensare che la responsabilità non sia tutta sua, dal momento che i pur rispettabili Joe Lovano (la cui latinità lascia invero perplessi) Randy Brecker o i brasiliani doc come Claudio Roditi, Duduka Da Fonseca, Nilson Matta (lo strepitoso bassista dell’African Brazilian Connection di Don Pullen…) nonché Romero Lubambo, affrontano i capolavori di sempre con una piattezza incomprensibile. Niente di nuovo in definitiva. Rendiamo pure omaggio ad una artista esperta che forse però ha dimenticato il gusto per la sfida, limitandosi a riandare per strade che non possono che portare al punto di partenza.

The Classical Jazz Quartet

Play Rachmaninov

Kind of Blue

(2006 - distr. Ducale)

Valutazione: 3 stelle

Torniamo in Europa. La musica classica ed il jazz? Niente di più facile per il Classical Jazz Quartet, quattro indiscussi fuoriclasse del jazz che pare abbiano trovato un “nuovo” filone. Kenny Barron, Ron Carter, Stefon Harris e Lewis Nash esordiscono in Kind Of Blue lanciandosi goliardicamente all’interno del Concerto n.2 per Pianoforte ed Orchestra di Serghey Rachmaninov, per reinterpretarlo in chiave jazz. Superfluo parlare dei musicisti, sempre superbi, ciò che davvero conta qui è l’operazione, assai ardua, di swingare improvvisando sui temi offerti dai vari movimenti del maestro russo. Come altri, anche noi saremmo indotti a comparare tCJQ al famoso Modern Jazz Quartet ma qui l’operazione denota maggior rispetto per l’originale, nonostante quegli accenti blues sul primo movimento, denotino un approccio sempre mainstream ma decisamente più swingante. Complice anche l’arrangiamento dell’inossidabile Bob Belden che porta l’interpretazione a vivere anche di vita propria, in una sorta di miracoloso sdoppiamento.

Il risultato è egregio e premiabile di lunghi applausi e la formula si dimostra vincente anche se, dando un’occhiata alle prossime uscite incontriamo non soltanto la riedizione dei precedenti “Play Tchaikovsky” e “Play Bach” (già usciti per l’etichetta Vertical Jazz) ma anche un minaccioso “Christmas” che, ci auguriamo, non inflazioni la serie delle “riletture a tutto campo”.

Detto questo, dopo la buona partenza confermiamo anche la buona posizione della KofB e aspettiamo di poter ascoltare i prossimi, promettenti, dischi già annunciati sul sito Kind of Blue.


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