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Jazz&Wine of Peace 2011

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Cormons e Nova Gorica, 20-23.10.2011

Programma come e più di sempre di alto livello per la XIV edizione del Jazz&Wine of Peace di Cormons, con il concerto di apertura, la sera del giovedì, affidato a Bobby Previte.

Il batterista statunitense per l'occasione unificava il suo gruppo americano - Bump - con quello europeo - Pan-Atlantic. La musica, largamente scritta, presentava strutture minimali ma rigorose, con elementi ritmici reiterati in modo ossessivo, quasi ipnotico (magistrale la conduzione di Steve Swallow al basso elettrico), e improvvisi cambi di scena. Su di esse si innestava il lavoro dei solisti, quasi sempre operanti in dialoghi con il vero perno della musica: il leader, raro esempio di batterista che sostanzia

(non solo ritmicamente) e dirige tutto il lavoro del gruppo. Intensi e coinvolgenti i duetti di Previte con Puschnig, leggermente più rarefatti quelli con Petrella (non rari i momenti di unisono dei due fiati), mentre il piano di Wayne Horwitz era perlopiù impiegato con una funzione additiva di colori, tutt'altro che trascurabile e, per questo, forse sottoutilizzata. Complessivamente un ottimo inizio, che alla lunga peccava solo di una qualche prevedibilità.

Il concerto del venerdì mattina, nella suggestiva chiesa di S. Giovanni, vedeva alla prova gli "eretici" (è il titolo del loro recente album per Artesuono) Saverio Tasca e Roberto Gemo. Un duo sperimentato a lungo per cogliere gli elementi di originalità di un impasto tra strumenti così atipicamente accoppiati quali sono la chitarra e il vibrafono. I risultati sono apparsi molto cameristici, anche quando Gemo ha usato la chitarra elettrica, esaltati dalla dialogicità dei due. Forse un po' penalizzato dall'acustica della chiesa, il concerto ha avuto momenti molto coinvolgenti, ma alla lunga è apparso un po' uniforme, forse anche perché Tasca non aveva l'alternativa della marimba, come invece avviene nel disco.

Diciamolo. una buona volta: l'improvvisazione radicale è troppo spesso eguale a se stessa. Noiosa. E lo è di più, quanto più è rumorosa e cacofonica - probabilmente perché è rumorosa e cacofonica per simulare una originalità che non c'è. È il caso di That Trio, cioè Paul Rogers, Uwe Oberg ed Emil Gross, andato in scena nel pomeriggio: impetuoso e rumoroso, improvvisato e occasionale, neppure malvagio, ma in tutto ciò a tal punto prevedibile e pacificante che nel momento più intenso e (apparentemente) caotico chi scrive si è beatamente addormentato... Sembrava che sul palco succedesse di tutto, invece succedeva quel che succede da trent'anni, così l'effetto era lo stesso che fa Mario Biondi a chi conosce Sinatra come le proprie tasche. Forse, se gli improvvisatori radicali provassero a interrogarsi di più sul senso della loro musica, magari con un po' d'autocritica, ne trarrebbero vantaggio loro stessi e la musica in generale.

Viceversa originale - e oggi non è poco - il progetto di Rob Mazurek, che chiudeva la giornata di venerdì: una sorta di "double duo" nel quale tromba e batteria erano doppiati da vibrafono e flauto. La musica stessa, denominata Violet Orchid Suite, era scritta appositamente per il festival e vedeva la partecipazione speciale di Nicole Mitchell al trio di Mazurek. E proprio la Mitchell (interprete anche di passaggi vocali) e il vibrafonista Jason Adasiewicz spiccavano sul palco, grazie al modo largamente rivoluzionato di usare gli strumenti, interpretati rispettivamente come una tromba e come una batteria, in modo impetuosamente atipico. La cifra del gruppo era incentrata largamente sull'intensità, con il risultato - tutto sommato inconsueto per una formazione acustica - di produrre una massa sonora che teneva lo spettatore costantemente qualche centimetro da terra. Ciò inevitabilmente con qualche svantaggio per la nettezza dei suoni e la dialogicità delle tessiture, ma offrendo in cambio una costante stimolazione e una musica inusitata quanto ad assegnazione di ruoli e, pur in una struttura lucida e intelligibile, non prevedibile e gioiosa - come testimoniato dai reiterati e spontanei balletti della Mitchell.

Dopo l'appuntamento "fuori confine" a Nova Gorica - con il gruppo New Bag di Christy Doran, dalle tinte fortemente rock - il sabato pomeriggio è stata la volta del trio per due terzi femminile di Kris Davis, Ingrid Laubrock e Tom Rainey. Musica molto, anzi troppo scritta, con la sola sassofonista tedesca in condizioni di esprimersi, la pianista canadese decisamente sottoutilizzata e il batterista apparentemente fuori luogo. Peccato, perché tutte e tre sono figure di grande spessore, ma il progetto è parso davvero troppo costruito, ridondante e alla fine freddo persino nei momenti più intensi dinamicamente.

Sorprendente e (forse per questo?) non per tutti convincente il quartetto di John Abercrombie ha chiuso la seconda giornata di festival. Rispetto al passato, la formazione ha inscenato una musica molto più pacata, articolata e cameristica, fatta di fraseggi perfino ricchi di lirismo, che però hanno in parte offuscato la verve di Mark Feldman e hanno ad alcuni fatto apparire il chitarrista più invecchiato di quanto non sia. In realtà l'unico autentico limite del gruppo è parso il contrabbassista Thomas Morgan, neppure lontano parente di Marc Johnson, presente fino a qualche tempo fa. Viceversa strepitosa la performance di un sempre sorridente Joey Baron, a proprio agio anche in un contesto dinamicamente contenuto: una gioia per occhi e orecchie.

L'ultimo giorno del Jazz&Wine s'è aperto con il piano trio piemontese guidato da Fabio Giachino, fresco vincitore del premio Massimo Urbani, con Davide Liberti al contrabbasso e Rruben Bellavia alla batteria. Buon gruppo, affiatato e paritetico, con musicisti strumentalmente maturi - Liberti era diverse spanne sopra il contrabbassista di Abercrombie - interpreti di apprezzabili composizioni, tutte di Giachino. Certo, la formazione è assai classica e perciò manca ancora di elementi stilistici personali; tuttavia le qualità ci sono e possiamo attendere con fiducia.

Al pomeriggio, sul palco del Teatro Comunale sono saliti Bojan Zulfikarpasic e Julien Lourau, spesso assieme in gruppi allargati dell'uno o dell'altro, qui invece impegnati in un duo un po' troppo cameristico che ne annacqua le doti espressive, per entrambi davvero fuori del comune. Lo si è visto bene nell'interpretazione intimistica e sofisticata di "El Gato Porteno," di Lourau e dedicata a Gato Barbieri, che sul disco del sassofonista francese The Rise, in quartetto, suona maestosamente potente, qui invece appariva come un distillato un po' spento. Comunque i due non hanno fatto mancare momenti di grande musica, anche grazie alla notevole intesa che permette loro di dialogare con molta inventiva.

Finale davvero con il botto, quello affidato a Steve Coleman, per una volta in trio invece che nelle sue formazioni allargate. Il sassofonista afroamericano ha sorpreso tutti, suonando per due ore una musica ovviamente intensissima, ma soprattutto - dopo tre brani in bilico tra la tensione ritmica che lo contraddistingue e alcuni spunti quasi lirici - mettendo in scena una suite senza soluzioni di continuità, durata oltre un'ora, nella quale ha riproposto in forma scarnificata e distillata le lunghe narrazioni che caratterizzano i suoi lavori per organici più ampi. Lo splendido lavoro, pur incentrato sul suono teso e freneticamente frammentato del contralto di Coleman, ha dato modo di apprezzare anche i suoi due partner, David Virelles al pianoforte e Kassa Overall alla batteria, anche perché il trio s'è spesso scomposto in duetti, via via cangianti come le atmosfere, più volte sorprendentemente rarefatte, meditative, liriche. La suite è alla fine risultata un po' impegnativa, per lunghezza e complessità, ma ha egualmente catturato il pubblico non solo grazie al suono, ma anche per il modo in cui le sue strutture complesse apparivano e sparivano nel corso dell'esecuzione, ora legando visivamente i tre musicisti in una rete di attenzione reciproca (le pause, le riprese, gli stacchi erano chiaramente predeterminati e i tre li sottolineavano quasi volutamente), ora invece lasciandoli apparentemente liberi di esprimersi individualmente con spontaneità.

Grande esempio di jazz contemporaneo, ricco di originalità e libertà, ma dalla struttura forte e rigorosa, il concerto di Coleman ha degnamente concluso un festival che anche quest'anno non ha tradito le aspettative, a dispetto dei sempre maggiori problemi materiali per la sua messa in scena.

Foto di Luciano Rossetti.

Ulteriori immagini di questa rassegna sono disponibili nel foto-racconto ad essa dedicato.


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