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Io studio il suono: intervista a Emanuele Cisi

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Quello che mi infastidisce molto è l'aspetto più mediatico, legato a un'esposizione superficiale. Ha preso molto piede una logica di marketing che una volta non apparteneva a questa musica.
«Un attimo che poso il saxofono e arrivo, stavo studiando». Per questa intervista abbiamo sottratto una mezzora di studio a Emanuele Cisi, da diversi anni uno dei migliori sassofonisti della scena italiana e non, anche se quando si stilano le classifiche di fine anno spesso sono solo i più attenti a ricordarsi di lui. Sarà per quel suo aspetto un po' da vichingo, per quella sua agilità nel defilarsi dalla luce dei riflettori. Sta di fatto che il nostro ha dato alle stampe l'ennesimo ottimo album dal titolo rappresentativo Homecoming, dopo l'altrettanto riuscito The Age of Numbers (Auand), e ha già in programma una prossima avventura in trio negli Stati Uniti.

All About Jazz: Imporsi come musicista in una famiglia dove non ce ne sono deve essere stato abbastanza difficile.

Emanuele Cisi: Sì, è stato molto difficile. Perché non avendo questo tipo di tradizione in famiglia ho dovuto conquistare il fatto di poter studiare uno strumento, e di poterci dedicare del tempo. Era quello che desideravo fin da piccolissimo, quindi ho dovuto affrontare vari problemi famigliari. Quando avevo quindici anni mi sono scontrato con la mia famiglia, mi sono ritirato dal secondo superiore, dove tra l'altro andavo molto bene, e ho dato un ultimatum ai miei genitori: "O mi fate studiare musica oppure smetto di andare a scuola perché non m'interessa". Puoi immaginare cosa è potuto succedere. Questo però mi ha consentito di ottenere in regalo per il mio compleanno un sassofono contralto, pessimo, di seconda mano, ma per me era il più bello del Mondo.

AAJ: Poi però non hai fatto il conservatorio. Rimpianti?

E.C.: Sono completamente autodidatta, ho preso qualche lezione all'inizio, ma poi ho sempre studiato da solo. Sì, a volte ho dei rimpianti. Dire questa cosa adesso che insegno al conservatorio è un po' buffo in effetti. Mi sarebbe piaciuto avere un approccio accademico fin da bambino, però è anche vero che forse non avrei sviluppato allo stesso modo questa mia propensione naturale, che poi è la cosa che mi contraddistingue.

AAJ: Hai dichiarato tempo fa: "Quando studio, io studio il suono, da lì parte tutto il resto". Questo è il concetto centrale del tuo modo di intendere il jazz?

E.C.: Assolutamente sì. Il suono è il centro di tutto; studiando il suono riesco veramente a entrare dentro la musica e comprendere sempre meglio le complesse relazioni che ci sono tra il ritmo, l'armonia, la melodia. Tutto si basa sul suono.

AAJ: Nel tuo percorso musicale hai suonato con tanti musicisti. Su quale pensi di avere avuto un maggiore impatto?

E.C.: Credo che il concetto di impatto sia reciproco. Il jazz è una musica che si basa sulla condivisione. Come dico sempre ai miei studenti: "Non puoi suonare bene, o come vorresti, se qualcuno che suona con te suona male, e viceversa". È una questione di scambio, di circolo di energia, quindi faccio fatica a rispondere a questa domanda. Per una questione generazionale, quando suono con i più giovani, posso avere un impatto su di loro di un certo tipo. Con alcuni musicisti ci sono delle particolari alchimie e con i quali posso avere un impatto maggiore che con altri.

AAJ: Fai parte della generazione di musicisti che ha visto il jazz in Italia uscire dai club e conquistare platee più ampie. Ti infastidisce la spettacolarizzazione del jazz?

E.C.: Non mi infastidisce nel senso di grandi numeri, questo è solo un bene. L'iconografia del jazz che appartiene solo ai piccoli club è un qualcosa che appartiene al passato. Il club vero, e in Italia non ce ne sono molto pochi, è un elemento fondamenteale per il rapporto tra i musicisti e il pubblico. Quello che mi infastidisce molto è l'aspetto più mediatico, legato a un'esposizione superficiale. Ha preso molto piede una logica di marketing che una volta non apparteneva a questa musica. Se non hai un grosso ufficio stampa o un manager che promuove la tua immagine fai fatica. Credo che sia una cosa che non dovrebbe appartenere al jazz, non in modo così evidente.

AAJ: Sei tornato a vivere a Torino, la tua città natale, per un motivo particolare?

E.C.: Non per motivi musicali. Qui sono nato, è una città che mi piace molto. Credo che sia una delle migliori città italiane quanto a vita culturale. Ci sono molti giovani musicisiti. C'è una bella comunità. Sono sempre stato attratto dall'estero, e lo sono tuttora. Suono spesso negli Stati Uniti, come in passato ho fatto in Francia e in nord Europa.

AAJ: Da qui il titolo per il tuo lavoro Homecoming?

E.C.: Non proprio. Il titolo nasce dal fatto che il gruppo è formato da musicisti con i quali ho avuto molte collaborazioni in passato, e dunque tornare a suonare insieme è stato un ritorno a casa in quel senso. È stato bello ritrovare un sound familiare.

AAJ: Homecoming testimonia una seduta di registrazione di un paio di anni fa. Nel frattempo ti ritrovi ancora in quella musica o ti senti cambiato?

E.C.: Mi ritrovo perché è una musica per me molto familiare. Nelle composizioni, anche non mie, mi ci riconosco. Nel frattempo ho già registrato altre cose. Questo CD è stato importante per un mio processo di maturazione.

AAJ: In questo lavoro hai messo da parte il tuo lato più sperimentale a favore di un certo lirismo.

E.C.: Rispetto a The Age of Numbers sicuramente sì. Quello è stato un disco molto particolare. Si distacca molto dai miei lavori, è stato un album di ricerca, però la parte predominante del mio approccio al jazz è contenuta in Homecoming.

AAJ: Nella tua vita quanto sono importanti i numeri?

E.C.: Sono stati l'origine di The Age of Numbers, dal mio interesse per la numerologia è nata l'idea di mettere in relazione musica e numeri. Non tanto dal punto di vista matematico, ma astratto e di suggestione. I numeri mi interessanto moltissimo, mi affascinano e molto spesso, anche quando scrivo musica, mi capita di mettere in relazione le note con i numeri.

AAJ: Parliamo delle tue tante passioni. La Norvegia che lato del tuo carattere rappresenta?

E.C.: Quello più attratto dalla natura, rappresenta una terra di sogno, di fiabe, dove tutto è bello, incontaminato, soprattutto se rapportato al nostro paese. Rappresenta la mia passione per il nord che ho sempre avuto, fin da piccolo. Sono affascinato dal clima e da tutto il resto.

AAJ: Vai ancora in bicicletta?

E.C.: Ultimamente vado meno, però è lo sport per eccellenza, l'adoro. Mi toglie gli stress e le ansie che accumulo, ha una funzione depurativa sia per il corpo che per la mente.

AAJ: Hai lavorato molto sul tuo fisico negli ultimi anni. Oltre che sulla tua persona questo fattore di dimagrimento pensi che possa aver influito sul tuo modo di suonare?

E.C.: Non saprei. C'è sempre una correlazione, non è una cosa separata. Il modo in cui ti senti ha influenza su come suoni, ci sono dei legami. Me lo sono chiesto anche io, no saprei dirti di preciso.

AAJ: Poi c'è la letteratura. Da lì prendi spunto per qualche composizione?

E.C.: A volte sì. Sono un lettore vorace, però ho dei gusti variegati, vado dalla poesia ai classici. Negli ultimi anni mi sono appassionato sempre di più alla storia del jazz. Leggo molte biografie, ne ho lette tre di Lester Young, ho letto quelle di Coltrane, di Rollins e di tutti i miei idoli, dei miei maestri.

AAJ: Prima accennavi al suonare negli Stati Uniti e a una nuova registrazione.

E.C.: Ho registrato a giugno un lavoro a New York in trio, con due musicisti italiani che suonano lì da molti anni, che sono Joseph Lepore (contrabbasso) e Luca Santaniello (batteria). Sono molto soddisfatto per la forza, la spontaneità e l'energia che c'è in questa musica. Abbiamo registarto in cinque ore a Brooklyn, la musica è uscita in maniera voloce, fluente. Sono in partenza per incontrare un produttore che speriamo pubblicherà il lavoro per un'etichetta americana. È un po' il mio sogno, incrocio le dita.

AAJ: Ti piace molto suonare in trio?

E.C.: Tra tutti i dischi che ho fatto questo sarà quello più profondamente di jazz. C'è un grande swing, il trio è sempre più la forma in cui mi ritrovo. Sì, mi piace molto, mi sento a mio agio.

Foto di Andrea Palmucci (la prima), Daniela Crevena (la penultima) e Sergio Cimmino (l'ultima).


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