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Intervista a Mirko Guerrini

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Mirko Guerrini, trentaseienne sassofonista fiorentino, compositore e band leader ben noto per i suoi lavori, spesso molto diversi fra loro (I Diavoli del Ritmo, Cirko Guerrini, Italian Lessons), e per le sue collaborazioni con importanti musicisti, è personalità artistica poliedrica e di grande interesse. In occasione dell'uscita del suo ultimo CD, Il Bianco e l'Augusto, realizzato con il quintetto Cirko Guerrini, lo abbiamo incontrato per conoscere più a fondo la sua esperienza artistica e il modo in cui sia arrivato a mettere a fuoco un'identità musicale così complessa e ricca di stimoli.

All About Jazz: Mirko, puoi raccontarci quando e come ti sei avvicinato alla musica?

Mirko Guerrini: Da bambino, a sei anni. Nella mia famiglia c'erano molti musicisti: mio padre suonava il clarinetto e il sassofono, mio zio il pianoforte, mia zia cantava, e altri ancora... Così, nelle riunioni natalizie o pasquali si verificavano delle jam familiari, durante le quali veniva suonato tutto quel capitava: musica classica, popolare, canzoni... E tutti si divertivano moltissimo! Così fu naturale che a sei anni chiedessi di suonare il pianoforte. I miei me ne regalarono uno verticale e iniziai a studiare. Capii presto che era cosa tutt'altro che facile, ma i miei fecero sì che non abbandonassi: anche mia madre, infatti, pur senza essere una musicista aveva studiato il violino e conosceva la musica; mi seguiva, mi faceva fare gli esercizi, senza troppa insistenza ma faceva in modo che studiassi con continuità. Così, finita la quinta elementare, mi iscrissi al conservatorio, classe pianoforte, ed ebbi la possibilità di seguire le scuole medie all'interno del conservatorio.

Teoricamente era un bel vantaggio, perché non solo le scuole erano validissime, non solo includevano (dal liceo in poi) materie aggiuntive come storia della musica, analisi, armonia, ma soprattutto gli insegnanti tenevano conto del fatto che gli alunni dovevano esercitarsi allo strumento: pretendevano molta attenzione in classe, ma davano pochi compiti a casa. Purtroppo, però, l'infatuazione finì e alla fine della seconda media dichiarai apertamente ai miei genitori che alla fine delle medie mi sarei iscritto all'istituto per geometri...

Oggi credo che fosse una mia forma di protesta, perché in realtà a me di quella scuola non importava nulla e oltretutto sono un disastro in disegno tecnico... Comunque sia, i miei non ne vollero sapere: per loro io dovevo fare musica e iscrivermi senza discussioni al liceo musicale. Viste le loro resistenze, misi allora in atto un orribile ricatto: avrei potuto continuare il conservatorio solo a patto di cambiare strumento, passando al sassofono.

La scelta era legata al fatto che mio padre suona anche i sassofoni e io, di nascosto, avevo provato a suonarli, riuscendo anche a tirarci fuori qualcosa. Dopo un lungo braccio di ferro riuscii a spuntarla e alla fine della seconda media feci il passaggio da pianoforte a sassofono. Anche se in realtà il piano non l'ho mai abbandonato, prima suonandolo come strumento complementare, poi utilizzandolo nello studio della composizione.

AAJ: Infatti capita di vederti "aggirare" attorno al pianoforte in vari contesti.

M.G.: Lo suono per quello che mi serve. Quando scrivo, ad esempio, lo faccio al pianoforte, perché è troppo forte la tentazione di ascoltare subito assieme la melodia con l'armonia.

AAJ: Però sei anche al piano in alcuni brani registrati, ad esempio nel disco PresenteRemoto di Riccardi Tesi!

M.G.: Vero. Anche se qualche anno fa ero sicuramente più in forma. Il pianoforte è uno strumento difficile, richiede un esercizio che non sempre puoi permetterti, anche se conservo sempre la speranza di poterlo fare.

Tornando al mio percorso, ho poi studiato sassofono, diplomandomi a diciotto anni. Al diploma ero accompagnato da Stefano Bollani, perché eravamo compagni di banco al liceo musicale dalla terza in poi.

AAJ: Come sei arrivato al jazz?

M.G.: Quasi per caso. Mio padre, da giovane, suonava sulle grandi navi da crociera, sulle quali esistevano delle belle orchestre, composte anche di dodici o tredici elementi e che facevano sì musica da ballo, però suonavano sul serio: facevano le prove, studiavano i brani. Avevano una rotta magnifica: partivano da Genova, andavano ai Caraibi, poi in Scandinavia, a New York e tornavano indietro. Quando facevano tappa si fermavano alcuni giorni e i musicisti, alloggiati sulla nave, erano liberi. Durante le soste a New York il tempo libero lo passavano ovviamente andando per club a sentire jazz. Mio padre ha lavorato sulle navi negli anni a cavallo tra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60: questo vuol dire che ha sentito dal vivo quasi tutti i più grandi musicisti jazz! E poi lì comprava i dischi appena usciti, i vinili, e si è appassionato.

Perché poi, alla fine, tutti quelli che suonano musica da ballo si appassionano al jazz: anch'esso infatti è nato come musica da ballo, ma l'aggiunta dell'improvvisazione, dell'invenzione in tempo reale, non può che affascinare chi suona uno strumento. È qualcosa di più, è creatività, ed è anche una sfida con se stessi, un mettersi a nudo di fronte al pubblico. È offrire qualcosa di proprio e non solo la musica di altri: quello che tu hai da dire in quel momento. Così, anche mio padre e i suoi colleghi dell'orchestra della nave erano tutti appassionati di jazz. Tanto che, mi raccontava, prendevano i dischi, li riversavano su un registratore a bobine e lo mandavano a metà velocità per trascrivere le frasi e imparare questo linguaggio.

In questi suoi viaggi a New York, mio padre aveva messo assieme una bella collezione di dischi. Che, però, teneva chiusa a chiave in un armadio e non voleva che io mi ci avvicinassi! Sapeva che se lo avessi fatto avrebbe potuto essere fatale.

Solo che, una volta che i miei genitori non c'erano, trovai la chiave del mobiletto! L'aprii e presi il primo disco a sinistra. Erano in ordine alfabetico, pescai perciò - lo ricordo sempre - un disco di Art Blakey con i Jazz Messengers dal vivo, Live at Olympia. C'era un pezzo di Benny Golson, Are You Real?, con lui stesso al sax: e lì, per la prima volta, ho sentito un tenore che, suonando, faceva cose meravigliose e inspiegabili! Allora mi nutrivo di Mozart, Stravinskij, Verdi: non era la prima volta che sentivo il jazz, ma probabilmente avevo sentito solo Sinatra pensando che il jazz fosse tutto lì. Ascoltando Golson mi chiesi: "col sassofono si possono fare queste cose? Ma è fantastico!"

AAJ: Capisco perfettamente, anche perché è la stessa cosa che mi ha raccontato di aver provato dopo un concerto di Barney Kessel il chitarrista Andrea Massaria, in una recente intervista.

M.G.: Sono due modi diversi di suonare e per chi lo scopre dopo anni di conservatorio il jazz può effettivamente essere stupefacente. Quasi non arrivi a capire cosa stia facendo il musicista in un assolo: "Ma s'è scritto tutta questa roba?," ti chiedi, "O altrimenti come diavolo fa?" Questo probabilmente è il frutto di un errore, perché sarebbe opportuno che anche gli insegnanti di conservatorio di discipline classiche spiegassero che la musica si fa in tanti modi e non è solo aprire uno spartito ed eseguire, leggendo, quello che c'è scritto. Anche perché, se guardi alla storia della musica, è impensabile immaginare che certi musicisti non improvvisassero. Prendiamo Chopin: io credo che lui abbia scritto forse il dieci per cento di quello che ha suonato. E quel che ha scritto - penso ad esempio alle Polacche - sono spesso improvvisazioni poi messe su carta. La cosa è andata via via mutando soprattutto per responsabilità della didattica: dovendo insegnare, si è dovuto portare tutto su un piano meglio trasmissibile, creando un sistema che permettesse alla musica di essere accessibile a tutti. Oggi l'improvvisazione, nei dipartimenti classici dei conservatori, è rimasta solo nella classe di organo. Nonostante sia noto che gli ultimi pianisti virtuosi dell'Ottocento e Novecento nei concerti, oltre al programma, improvvisavano su temi popolari o proposti dal pubblico.

Per me, comunque, la rivelazione venne da quel primo disco con Golson. E mio padre non la prese bene: mi disse di lasciar perdere quella musica, perché io dovevo diventare un direttore d'orchestra, un musicista classico.

AAJ: Aveva davvero intuito il rischio, dunque ...

M.G.: Sì, lui sapeva. Ci ho pensato tante volte, e ne ho anche parlato con lui. E oggi credo che avesse cercato consapevolmente di tenermi lontano da questa "tentazione" per due motivi. Il primo è che, come dicevo, veniva da una vita dura: quando lui era giovane, avere un diploma significava poter entrare in un conservatorio o in un'orchestra, mentre chi faceva jazz, faceva tendenzialmente la fame. Non credo che ci fosse nessuno che viveva di jazz in Italia. Al massimo, i personaggi di spicco, tipo Basso e Valdambrini, vivevano suonando nelle orchestre Rai.

AAJ: È vero però che oggi le cose non stanno più così: forse di jazz non si vive, ma neppure essere un musicista classico garantisce molto. Il mio primo insegnante di sassofono era un bravissimo clarinettista, spesso convocato come sostituto al Comunale di Firenze; ma alla fine, per sposarsi e vivere una vita "normale," ha lasciato perdere tutto, con le lacrime agli occhi, ed è andato a lavorare nell'azienda di famiglia.

M.G.: È vero, certo. Infatti, della mia classe di liceo musicale - venticinque persone - io e Stefano siamo i soli a non aver seguito la strada classica, ma degli altri solo alcuni vivono di musica. Nonostante fossero tutti molto bravi. Però questo, allora, mio padre non poteva saperlo, per cui consapevolmente si opponeva alla mia volontà di spingermi in una direzione che rischiava di farmi ripetere la sua stessa storia. Dopo l'esperienza sulle navi lui ha iniziato a insegnare nelle scuole, ma a lungo lo ha fatto fuori Firenze e, per mandare avanti la famiglia (mia madre non lavorava), suonava nei locali notturni. Usciva di casa la mattina alle sei, rientrava alle tre del pomeriggio, mangiava e andava a dormire. Si alzava alle otto di sera, cenava e andava a suonare. Rientrava alle quattro e mezzo del mattino, faceva la doccia, si rivestiva e partiva per la scuola... Una vita che ha fatto per anni, tanto che ricordo bene come la mia infanzia sia stata segnata dalla frase: "Fai piano perché il babbo dorme". Forse per questo nella sua testa c'era l'idea che con la classica si può campare, con il jazz e la musica "leggera" no.

Ma ormai il "morbo" era entrato, e mi iscrissi al CAM, la storica scuola di jazz di Scandicci. Mi iscrissi a musica d'insieme e a pianoforte - entrambe con Mauro Grossi - perché ancora non ero diplomato in sassofono e pensavo che se avessi iniziato a suonare jazz con il sax in quel momento avrei potuto compromettere qualcosa: l'imboccatura, il rapporto generale con lo strumento. Francamente, penso ancora di aver fatto una scelta giusta.

Fu un'ottima scelta anche perché per un paio d'anni feci il pianista jazz (presi parte anche ad alcuni concerti!), perché Mauro è un insegnante fantastico e poi perché studiare il jazz sul pianoforte mi permise di iniziare subito con un approccio ben impostato su questioni come l'armonia e gli accordi, che sul pianoforte apprendi e comprendi meglio. Me ne accorgo oggi quando io stesso devo insegnarle a sassofonisti: l'accordo suonato al piano è più immediato dell'arpeggio sul sassofono.

Tutte le cose che, con molta attenzione, Mauro mi ha insegnato sul piano, poi me le sono ritrovate quando sono passato a tradurle al sax.

Fin lì avevo fatto solo poche e piccole serate; dopo il diploma mi sono immerso più profondamente nel jazz. Ricordo che mio padre spesso veniva a sentirmi, ma andava via prima, per non doversi esprimere. E la mattina dopo, a colazione, alle mie richieste o era reticente, oppure tendeva a sottolineare solo gli aspetti negativi: il suono non andava bene, non avevo swing... Alla fine veniva sempre fuori il fatto che, a suo dire, avevo una vocazione classica... Devo anche riconoscere che quando ho iniziato a suonare solo jazz e ad avere i primi riconoscimenti, lui a me non diceva mai nulla, però ogni tanto trovavo i suoi amici che mi dicevano: "Ho visto il tuo babbo l'altro giorno, m'ha detto che stai facendo proprio bene, che sei veramente bravo!". "Ma guarda un po,'" mi dicevo tra me e me, "lo dice agli altri e non a me...".

Era il frutto di una mentalità che condivido. Una delle ultime canzoni di Gaber, con il quale ho suonato, "Non insegnate ai bambini," dice proprio questo: non dite ai bambini che hanno talento se non ce l'hanno, perché non fareste loro nient'altro che del male. Lasciate che le gratificazioni arrivino da sole, perché se c'è il talento arriveranno comunque. Gratificare e basta non è una buona cosa.

AAJ: Mi verrebbe di dire: non glielo dite neppure se ce l'hanno, perché c'è comunque il rischio che perdano il gusto del lavoro che c'è da fare per farlo emergere e valorizzarlo.

M.G.: Certo, però c'è anche un momento in cui è giusto e necessario dire: "Bravo".

AAJ: Per te è arrivato poi quel momento?

M.G.: Sì, alla fine è arrivato anche direttamente, ma mi faceva piacere anche quando arrivava indirettamente. E comunque sono riuscito a capire che si trattava di un processo educativo: era come se lui, lasciando che il giudizio positivo arrivasse dai suoi amici, mi avesse detto: "Stai andando bene, ma non te lo dico perché devi ancora lavorare, non ti devi sedere sugli allori".

AAJ: È una modalità che condivido, anche se la pratico in altri contesti formativi. In fondo, a che servono gli elogi? Al morale, certo. Ma per la tua crescita servono molto più le indicazioni degli errori, dei punti deboli, dei limiti.

M.G.: Il secondo motivo, forse più inconsapevole, che spingeva mio padre a tenermi lontano dalla "tentazione" del jazz era il voler mettere alla prova le mie vere volontà e attitudini: se avessi voluto davvero fare jazz, avrei comunque fatto di tutto per riuscirci, anche se lui mi avesse ostacolato. Si tratta di una giusta cautela, perché nella musica puoi sbagliarti con facilità. Mio padre ha lavorato al contrario: mi ostacolava per vedere se davvero quel che facevo fosse quello che desideravo fare. Di questo gli sono grato.

AAJ: Bollani nella tua scelta del jazz ha avuto una parte, visto che eravate compagni di banco e avete stretto presto una bella amicizia?

M.G.: Certo mi ha influenzato, ma non molto. Finché siamo stati compagni di banco abbiamo suonato jazz assieme forse una sola volta. E poi, dopo la maturità Stefano iniziò a suonare con Raf, con Vallesi, entrò in un giro diverso e ci perdemmo perfino un po' di vista. Quindi, alla fin fine, nonostante la nostra amicizia, le nostre esperienze di ascolto in comune - al Teatro Comunale e alla Pergola a sentire classica, ma anche nei club a sentire jazz - e nonostante i gusti in comune in materia di letteratura e cinema (il comune fascino per il surreale), l'iniziazione da musicista jazz posso dire di averla fatta in autonomia. Eravamo uniti da un'amicizia che includeva mille altre cose, delle quali il jazz era una, ma a lungo non quella più importante.

AAJ: Da quel percorso iniziale, del quale ricordo la tua presenza come giovanissimo e brillante solista nella big band Duke of Abruzzi - l'orchestra del CAM, allora ospitato nella ex scuola "Duca degli Abruzzi" di Scandicci - sei approdato al tuo primo disco da leader.

M.G.: Sì, Tornando a casa, del 1994. Avevo ventuno anni, studiavo con Giammarco e avevo un po' di timore a decidere di registrare. Fu proprio Maurizio a consigliarmi: non dovevo farmi scappare l'occasione! Anche se fosse diventata una cosa nella quale in seguito non mi fossi riconosciuto, non dovevo preoccuparmi: sarebbe comunque stata, come tutti i dischi, un'istantanea di un momento. Se avevo qualcosa da dire - e ce l'avevo, perché avevo messo su un gruppo con il quale suonavo pezzi miei - dovevo farlo!

Così, chiamai un po' delle persone con cui suonavo. Anche Stefano, con il quale ci eravamo da poco ritrovati anche musicalmente, poi Riccardo Onori, Nicola Vernuccio, Andrea Melani, amici del liceo. Pubblicai con Modern Times. A parte qualche disavventura discografica, fu una bella esperienza e fu recensito molto bene.

AAJ: Ricordo infatti una lusinghiera recensione su Musica Jazz.

M.G.: Purtroppo non potei usarlo da trampolino di lancio, come avevo sperato, perché lo registrai a settembre e a ottobre dovetti partire per il servizio militare. Fu rifiutata la richiesta di rinvio per studi e me ne stetti un anno a Bergamo proprio mentre il disco usciva... Nonostante questo, feci delle interviste - dalla caserma! - ed ebbi modo di suonare con il pianista Carlo Magni, che è di Bergamo. Proprio lì suonai per la prima volta con Ares Tavolazzi, con il quale ho poi collaborato molto in seguito.

AAJ: Poi c'è stata la collaborazione con Stefano Battaglia.

M.G.: Mi iscrissi ai corsi di Siena Jazz, dove studiai con lui, ma anche con Trovesi, Bruno Tommaso, D'Andrea e Pietro Tonolo. Ho seguito diversi corsi, per più anni, assieme ad amici musicisti del CAM, alcuni dei quali poi si sono allontanati dalla musica. L'esperienza con Battaglia è stata importante. Ho suonato con molti giovani musicisti che poi hanno fatto belle cose, come Mariottini e Malvisi. Lì a Siena conobbi anche Dave Liebman, che nel '97 mi invitò in Pennsylvania a studiare con lui - altra esperienza bellissima. Come un'altra capitatami attraverso Siena: fui scelto per far parte di un'orchestra che raccoglieva il migliore giovane musicista di ogni nazione europea, la European Jazz Youth Orchestra. Facemmo venti concerti in dieci diversi paesi d'Europa, una straordinaria esperienza.

Dopo sette anni, nel 2001, ho poi registrato il mio secondo disco, con I Diavoli del Ritmo, ovvero Stefano, Lello Pareti e Walter Paoli, altro lavoro trattato molto bene dai giornalisti. Purtroppo dal vivo fummo indirettamente penalizzati dall'ascesa di Stefano, perché capitava che gli organizzatori ci chiamavano per avere Bollani a un costo minore, e poi presentavano la serata come "Stefano Bollani in quartetto". Non ci sono mai stati problemi di relazione tra me e lui, ma abbiamo dovuto prendere atto che la cosa non poteva funzionare e abbiamo lasciato perdere.

AAJ: Conosco il problema. Che poi è quello della comunicazione dello star system.

M.G.: Fortunatamente il rapporto con Stefano va ben oltre certe questioni. E poi il problema è anche legato alla location: non puoi fare un concerto di Bollani in un club da cento posti, perché rischi di creare un problema di ordine pubblico! Stefano unisce una grande capacità di porsi verso il pubblico, tale da avvicinare anche i non appassionati, a straordinarie capacità musicali. Ben venga, dunque, perché così fa ascoltare musica di qualità anche a un pubblico che viene per il "personaggio". Non è cosa che si può dire di tutti i "fenomeni" dello spettacolo.

AAJ: Poi arriviamo a Cirko Guerrini, nel 2006. Come mai metti queste pause tra un disco e un altro? Oggi tutti fanno dischi a getto continuo...

M.G.: Io faccio i dischi quando ho qualcosa da dire. Non ci sono ragioni per ingolfare il mercato, anche perché un mercato non c'è: siamo lontani da un Ramazzotti, obbligato dalla casa discografica a fare un disco l'anno. E questa, d'altra parte, per me è una fortuna, perché non mi piacerebbe essere "costretto a creare". Trovo invece stimolante fare un disco quando ho una certa quantità di materiale e devo completarlo. L'idea che la cosa finalmente si realizzi mi da una spinta per scrivere altre cose, o perfezionare quel che ho. Nel caso dell'ultimo disco, il secondo del Cirko, c'era un gruppo che esiste da tempo, che suona dal vivo e si diverte, per cui era naturale proseguire il discorso. Il primo disco era andato bene, avevamo pezzi nuovi che suonavamo in concerto, lo stimolo del disco è servito anche per scrivere altre cose, perfezionare il tutto e registrarlo.

AAJ: Il Cirko è un progetto abbastanza particolare: per certi aspetti potrebbe essere collocato in quell'orizzonte del jazz italiano che alcuni chiamano "folklore immaginario," ma per altri aspetti è invece piuttosto diverso. Tu come lo interpreti?

M.G.: In effetti è qualcosa di particolare. Il primo disco richiamava molto l'idea dello spettacolo del circo: c'era la sigla iniziale, la parata di personaggi circensi, la sigla di chiusura. Insomma, uno spettacolo da circo solo da ascoltare, la cui parte visiva era demandata all'immaginazione dell'ascoltatore. Questo secondo lavoro è diverso. Ho traslato l'idea di circo e ho provato a portarla su un piano onirico. La pista del circo è idealmente l'anima. Così, dentro al disco ci sono tutti i miei eroi culturali. Anche perché il circo non è un posto che concretamente mi piaccia molto: non amo il tendone, l'animale chiuso in gabbia... Mi piace invece l'idea della finzione per eccellenza: il circo è uno dei luoghi dove più si finge. Si fingono persino le emozioni.

AAJ: E poi nel circo c'è lo spettacolo, c'è l'improvvisazione...

M.G.: E c'è la padronanza tecnica esasperata: non puoi cadere dalla fune, perché altrimenti muori. Però devi far credere di non essere così sicuro, devi essere talmente abile da controllare tutta la tensione. E poi, in uno spettacolo del circo attraversi tutto l'arco emotivo: ridi, piangi, ti commuovi, diventi felice, stai in apprensione, ti impaurisci, provi rabbia di fronte a forme di ingiustizia... Eppure è tutto finto!

AAJ: Ma in questo ci metti dentro anche strutture tipicamente jazzistiche, anche alcuni temi di estrazione jazzistica. Però non tutti: ci sono atmosfere festose, una grande varietà di approcci alla musica. Un richiamare un'atmosfera e usarla per dimostrare qualcosa: nell'altro i personaggi del circo, qui i tuoi eroi.

M.G.: E sempre le emozioni. In questo ultimo disco c'è molto cinema, una forma d'arte che mi ispira sempre molto. E allora, in una botta di delirio di onnipotenza, mi sono detto: "perché non immaginare una pista nella quale si alternano Fellini, Stravinskij, Woody Allen?"

AAJ: In questa varietà anche abbastanza complessa che ruolo ha il tuo sentirti compositore e che hai messo in risalto, ad esempio, nel tuo bel Italian Lessons?

M.G.: Spesso quando si parla del jazz si mette forse troppo da parte la componente compositiva, che invece è sempre molto importante e per me lo è in particolare, perché - come hai visto - fa parte della mia storia. A otto anni componevo già i miei pezzettini e - anche se in realtà non scrivevo ancora nulla - questo testimonia un desiderio, una necessità di tradurre in composizione un'intuizione musicale. Così, nei miei dischi l'improvvisazione ha probabilmente meno rilievo che nella media dei dischi di jazz: sono dei momenti, importanti, ma non il momento. L'improvvisazione per me è uno degli elementi tra i tanti. In questo ultimo disco, in particolare, sono arrivato in studio di registrazione con tredici pezzi, pensando di registrarne almeno dieci, quasi tutti nuovi. I musicisti ne conoscevano bene solo due! Una cosa neppure tanto simpatica per chi suona con te, che deve registrare musica che non conosce. E tuttavia abbiamo registrato tutti i tredici pezzi e c'è avanzato un giorno di studio rispetto al previsto. Questo perché, evidentemente, anch'io ho imparato a conoscere quelli con cui suono e ho iniziato a comporre non più pensando solo al pezzo di musica, ma anche a chi lo suonerà.

AAJ: Un'idea ellingtoniana di composizione...

M.G.: Ti ringrazio del paragone così elevato... e scomodo! Ma effettivamente l'idea è quella: in ogni testo credo di aver inserito qualcosa che sapevo di poter chiedere a ciascuno di loro. Tanto che alcuni pezzi li abbiamo registrati alla prima e loro stessi mi hanno elogiato per la qualità della musica. Forse non era tanto la qualità quel che è piaciuto, quanto il fatto che la sentissero adatta a loro. Perché so che, ad esempio, a Saverio Tasca piace fare certe cose e gli ho preparato il terreno compositivo sul quale, quando gli ho chiesto un solo, si trovava a meraviglia.

Credo cioè di aver composto - un po' consapevolmente, un po' inconsapevolmente - pensando al gruppo. Che è poi il vero legame della musica. Così che, ascoltando il disco dall'inizio alla fine e nonostante la diversità che anche tu osservavi, si sente che c'è un percorso. E questo percorso lo offre il gruppo, il suo proprio suono.

AAJ: Hai dato una bella idea del Guerrini compositore per il Cirko. Ma il Guerrini compositore di Italian Lessons è tutta un'altra cosa, mi pare.

M.G.: Il Guerrini compositore di Italian Lessons lo vedo più vicino allo studente di conservatorio. Ma uno studente che poi è stato al CAM, a Siena Jazz, che ha studiato con Liebman, e via dicendo. Il compositore de Il Bianco e l'Augusto è invece lo studente del CAM, di Siena Jazz, eccetera, che però è stato anche studente di conservatorio. Si invertono gli accenti.

Tra l'altro a maggio riproporremo dal vivo, al Teatro Verdi di Pisa, le musiche di Italian Lessons, più altre scritte appositamente, con l'Orchestra Regionale Toscana e Bollani al pianoforte. Dopodiché registreremo un nuovo disco che uscirà in autunno. Io, come per l'altro, dirigerò. E se da un lato sono orgoglioso ed eccitato, dall'altro sono estremamente in ansia: dirigere l'ORT...!

AAJ: Il Guerrini di Italian Lessons è forse più vicino al "pianista mancato" che al sassofonista realizzato?

M.G.: Sì, ma è anche un Guerrini che prende in mano un'orchestra sinfonica: una cosa che ti offre un'infinità di spunti. A livello di matrice, una continuità con l'altro Guerrini compositore io ce la vedo, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti melodici. A livello di dettaglio, invece, entrano in campo tutta una serie di cose che per me vengono da lontano: riguardo agli archi, ad esempio, adoro Mahler, sulle cui partiture mi sono "finito gli occhi," adoro Ravel, Debussy, Puccini... E poi viene fuori un'altra mia segreta passione: scrivere per il cinema. Anche perché, alla fine, quando scrivo un pezzo mi ispiro sempre a qualcosa: a un film, a un libro, a un quadro, così che l'idea della colonna sonora viene naturale. Tanto che spesso mi sento dire che la mia musica si adatterebbe già così com'è a svolgere questo ruolo. E Puccini è un po' l'inventore della colonna sonora.

AAJ: Ma anche Mahler, direi.

M.G.: Senza dubbio. Infatti, nei più grandi compositori di colonne sonore ritrovi spesso Mahler e Puccini. Per dirne una, nel tema di Star Wars trovi la Manon Lescaut, o il tema di C'era una volta in America è il secondo tema del sesto movimento della Terza Sinfonia di Mahler. Mi capita di farlo sentire a degli amici e mi dicono sempre: è Morricone! Invece è Mahler...

AAJ: Concludiamo, dopo il Guerrini compositore, con il Guerrini strumentista.

M.G.: Certe volte passo dei momenti di profonda crisi. Perché se è un vantaggio saper fare tante cose diverse, capita anche che una sera non suoni come vorrei e mi chieda chi sono veramente, perché mi ostini a fare tante cose facendole tutte "maluccio," perché non mi decida a farne una sola... Però, sai com'è, l'indole la cambi con difficoltà... Come strumentista credo di avere molti margini di miglioramento, che potrei sfruttare studiando. Ma, da un lato sono molto pigro, dall'altro mi attraggono la composizione e l'arrangiamento, e così...

AAJ: Per quanto può valere, posso dire che la mia impressione sentendoti dal vivo in contesti anche diversi è che al sassofono tu abbia una straordinaria facilità a fare, con naturalezza, quasi tutto, ma anche che tu possa dire - lì, in quel momento - qualcosa che non sempre dici.

M.G.: È molto difficile parlare di se stessi. Una cosa però posso dire, perché è quello su cui sto lavorando oggi sullo strumento: vorrei pensare un po' meno. Sono molto affascinato dalla teoria, dalle regole, dall'armonia; ma - fermo restando il rigore - la musica non deve venir fuori dalla testa. Mi piacerebbe che mi uscisse più da dentro. Mi ricordo che, a un concerto con Stefano, dovevo suonare un pezzo che non ricordavo bene e gli chiesi gli accordi. Stefano aveva da fare, e poi in questo è molto diverso da me, per cui mi disse di lasciar perdere, che non importava e che l'avrei ricordata benissimo. Così, suonammo e mi buttai con un ricordo vago di un pezzo che avevo forse suonato una volta. Alla fine del concerto Stefano mi disse: "Ascolta: tu devi buttar via tutti gli spartiti! Hai suonato benissimo, forse come non l'hai mai fatto". Come se l'io razionale si mettesse in secondo piano, continuando a fare il suo lavoro, ma lasciando sotto i riflettori l'io istintivo, che poi è la differenza tra il clown Bianco e il clown Augusto!

AAJ: E le esperienze con Gaber e Fossati?

M.G.: Sono state semplicemente superbe. Gaber è stato un personaggio importantissimo per la storia culturale del nostro Paese, e sarei proprio curioso di conoscere il suo punto di vista riguardo alla situazione socio-politica di questi giorni. Era un uomo d'altri tempi, con uno stile e un carisma inarrivabili. Fossati lo ascoltavo da ragazzo, mi è sempre piaciuto il suo modo di scrivere sia la musica che i testi. Ha sempre avuto gruppi con musicisti eccellenti e le sue canzoni non sono mai banali, non sono mai "leggere". È anche un cantante fantastico, intonatissimo e estremamente duttile. Sul tempo può fare qualunque cosa. Ci collaboro dal 2003, ho registrato tre dischi e preso parte a tre tour. Sai, spesso i colleghi musicisti di jazz mi chiedono: ma non ti annoi a suonare musica leggera? Tutte le sere le stesse cose? La risposta per me è semplice: è proprio questo il bello! Tutte le sere le stesse cose, stessa scaletta, stessi brani, stessi colpi di scena (ah, il circo...), e nonostante questo devo trovare il modo di divertirmi. E' una sorta di sfida interiore. Un mettere alla prova il mio processo creativo, che si deve rinnovare ogni sera, anche se sono conscio che ripeterò il concerto della sera prima. Una sorta di esercizio di autodisciplina artistica. Un approccio da artigiano, che deve soddisfare delle richieste senza sacrificare la sua personalità, e trovando soddisfazione in quello che fa. Inoltre, ne parlavo prima, non credo al binomio improvvisazione=creatività. Glenn Gould ha dimostrato di poter essere creativo ogni volta suonando lo stesso brano di Bach...

AAJ: Sai fare e fai molte cose; sei passato dall'una all'altra tutto sommato senza mai abbandonarne nessuna, ma dando a ciascuna una nuova veste; prevedi altre evoluzioni?

M.G.: C'è una cosa, una sola, che potrebbe anche mettermi in condizione di concentrami su una "specializzazione," ma anche farmi smettere di suonare: la direzione d'orchestra. L'ho scoperta di recente, quando ho cominciato a studiare direzione per Italian Lessons. È un'altra delle cose che mi affascinavano da bambino. Però solo quando mi sono messo per la prima volta davanti a un orchestra ho capito quanto il mio precedente giudizio, un po' snob, sui direttori d'orchestra fosse sbagliato. Credevo che, sì, alcuni direttori fossero bravissimi, ma che alla fin fine i meriti fossero dell'orchestra: se dirigi i Berliner, una volta dato il via il resto lo fanno loro. Invece non è per nulla così! Quando ho fatto il primo esercizio di direzione con un quintetto d'archi, un semplice attacco di una nota, ho dato l'attacco con la bacchetta, ma loro non suonavano tutti assieme. E l'insegnante mi ha spiegato: loro leggono le mani, i piccoli dettagli che tu esprimi con le dita, con il modo in cui le muovi. Mi ha preso la mano e mi ha fatto dare un attacco: e il suono, improvvisamente, è arrivato! E ho sentito, provandolo sulla pelle, che se giri la mano di dieci gradi, cambia tutto! Che se fai un movimento più ampio di un solo centimetro, il suono si modifica completamente! Una sensazione fortissima, quasi paurosa...

AAJ: Una specie di "megastrumento".

M.G.: Esatto, l'orchestra è uno strumento che fai suonare, e che puoi far suonare a tuo piacimento con il solo movimento delle tue mani! E qui va in gioco anche un fattore psicologico: ti senti dio. Hai al tuo servizio, in tuo potere, non solo l'orchestra, ma perfino la musica che un altro a scritto. Una sensazione che può far paura, ma che se supportata da un'adeguata preparazione, da uno studio attento della partitura, da una conoscenza dell'orchestra e degli strumenti, è straordinariamente affascinante, perché offre una potente sensazione di libertà e di possibilità creativa. Se poi dirigi musica tua...

AAJ: ...hai a disposizione lo strumento del compositore...

M.G.: ...l'unico che può metterti completamente nella condizione di esprimere tutte le sfaccettature della tua musica. Ecco, non so se lo farò mai, ma certo se c'è una possibilità di chiudere il cerchio della mia biografia artistica, è questa: dopo tutte le mie esperienze, accademiche e jazzistiche, completarle dedicandomi a suonare l'orchestra!

Foto di Claudio Casanova


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