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Il gigante si è (ri)svegliato: vita e musica di Horace Tapscott

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Quando arrivera' la fine vorrei essere in grado di dire, e dimostrare, che sono stato capace di rimanere al passo con il mondo, perche' amo la gente e ho imparato ad amare la vita
Prologo

Capita spesso a chi scrive di jazz di cedere alla tentazione di ragionare per dischi. Coltrane, Miles, Monk, il periodo Impulse e quello Atlantic, il periodo Blue Note e quello Columbia, il pre-Bitches Brew e il post-Bitches Brew, il primo quintetto e il secondo quintetto, la svolta di Giant Steps e quella di Ascension: categorizzare è un bel vantaggio, ma il rischio è quello di trascurare il dato umano e storico, di escludere sistematicamente tutto ciò che non è riconducibile ai solchi di un vinile o alle trace di un CD.

Ora, se si dovesse ragionare per dischi con uno come Horace Tapscott, venticinque anni di musica e vita si ridurrebbero a un pugno di scarne righe, con qualche dato anagrafico di circostanza e un paio di riferimenti alle rare pubblicazioni. Di artisti allergici alla sala d'incisione ce ne sono stati parecchi nella storia del jazz, ma la ritrosia di Tapscott è qualcosa di leggendario: dalla seconda metà degli anni Cinquanta al 1978 (data di fondazione della "sua" Nimbus West Records) il pianista losangelino ha pubblicato, a conti fatti, un solo disco a proprio nome, The Giant Is Awakened, anno di grazia 1969, più una manciata di comparsate su lavori altrui (come arrangiatore o come session-man). Poco, pochissimo; ma non è tutto.

La scelta, portata alle estreme conseguenze, di spendere l'intera esistenza nell'indifferente e violenta Los Angeles, vivendo nella comunità, rifiutando di cercare fortuna altrove (e per altrove s'intende New York), ha relegato Tapscott ai margini: ai margini dell'industria discografica, ai margini dell'attenzione di critici e addetti ai lavori. E così, una delle più incredibili storie raccontate dalla musica afroamericana, è ancora patrimonio di pochi iniziati.

Peccato, perchè siamo di fronte a un artista immenso, musicalmente parlando, e a un pensatore straordinario, che attraverso l'UGMAA (l'AACM losangelina, tanto per intenderci) ha messo in pratica una delle più fruttuose, originali e durature esperienze di associazionismo musicale afroamericano.

A undici anni dalla scomparsa (27 febbraio 1999) e in occasione della ristampa di The Dark Tree, i tempi sono maturi per tornare a parlare di Horace Tapscott.

From day one it was music

Horace Elva Tapscott nasce a Houston, Texas, il 6 aprile del 1934. Figlio del reverendo Robert Tapscott e di Mary Lou Malone, cresce nel quartiere nero di Third Ward, all'interno di una famiglia di stampo matriarcale orbitante intorno alla signora Mary Lou, cantante e pianista, a "woman jazz lady" come la definisce Tapscott nella sua autobiografia [Nota 1]. È lei a regalare al piccolo Horace il primo strumento musicale, un trombone, e a impartirgli le prime lezioni di pianoforte.

L'influenza della famiglia e della comunità nera di Third Ward è fondamentale nella formazione del musicista. La chiesa (e il coro della chiesa), i vicini, i conoscenti della madre, gli amici (tra i quali Floyd Dixon e Johnny "Guitar" Watson, futuri bluesman di successo): il senso di appartenenza e il solidarismo sono molto forti, anche perchè la presenza di bianchi è ridotta praticamente a zero nel ghetto di Houston.

Nel '43, quando Horace ha solo 9 anni, la famiglia Tapscott si sposta a Los Angeles a causa del lavoro del patrigno, Leon Jackson (il reverendo Robert ha preso il volo da un pezzo, regalando a Horace pure un paio di fratellastri). Il nostro trascorre solo qualche mese a Los Angeles: i Malone-Jackson non se la passano bene e per un paio d'anni parcheggiano il figlio a Fresno, dagli zii della madre, dove per la prima volta il giovanotto entra in contatto, o meglio, in collisione con bianchi e messicani.

Al ritorno nella città degli angeli iniziano le prime, vere, esperienze musicali. Horace frequenta la Lafayette Junior High, prima, e la Jefferson High School poi: sono gli anni d'oro della Central Avenue, la via del jazz losangelina, sulla quale si affacciano tutti i maggiori locali della città [Nota 2]. Tapscott ha la fortuna di poter ascoltare Buddy Collette e Red Callender, Art Tatum e Bill Douglass, Illinois Jacquet e Arnett Cobb: la scena californiana è in fermento.

Nel '45 Charlie Parker e Dizzy Gillespie, scritturati al Billy's Berg, portano sulla West Coast il verbo be-bop, facendo proseliti fin da subito (Dexter Gordon, Wardell Gray, Sonny Criss, amico intimo di Tapscott, Charles Mingus). Di qualche anno più giovane, il trombonista venuto da Houston si muove all'interno della Black California con un gruppo di compagni fidati, tra i quali Eric Dolphy, Don Cherry e Frank Morgan [Nota 3].

Sono anche gli anni delle prime, vere, lezioni di musica, impartite dal trombettista Gerald Wilson (che regala al giovane Tapscott i 25 dollari necessari per iscriversi al sindacato), dal pianista Lloyd Reese, ma soprattutto dal leggendario Samuel Browne, docente di musica alla Jefferson High, direttore della big band della scuola e mentore di un esercito di jazzisti cresciuti a Los Angeles negli anni Quaranta e Cinquanta. Horace impara a scrivere e arrangiare (arte che si rivelerà preziosa in futuro, vista la forte richiesta in California di ghost writers per il cinema, le case discografiche e la televisione), trova i primi ingaggi e forma i primi gruppi.

Poi, nel '53, dopo un disastroso approccio al College, si arruola con l'idea precisa di entrare a far parte di una banda militare, ancora convinto che il suo strumento sia il trombone. Con la divisa arriva anche il matrimonio: Tapscott entra nell'esercito il 27 marzo e il 5 luglio conduce all'altare Cecilia Payne, che allora ha diciannove anni e porta in grembo la sua primogenita, Renée. Cecilia gli resterà a fianco, tra alti e bassi, per tutta la vita, dandogli cinque dei suoi dieci figli (!). Gli altri cinque Tapscott li avrà da quattro donne diverse nel corso degli anni Sessanta.

From Orchestra to Arkestra

È il 1957 quando Tapscott si congeda dall'esercito e lascia il Wyoming, dov'era di stanza con la banda della Marina, per rientrare a Los Angeles, una città diversa da quella che ha lasciato qualche anno prima: i giorni della Central Avenue sono finiti, gli ingaggi più difficili da trovare e, con già quattro figli a carico, è un'impresa non da poco sbarcare il lunario.

L'occasione per racimolare qualche soldo gliela offre, nel '58, Lionel Hampton, chiamandolo a suonare nella sua big band con l'amico trombonista Lester Robertson. La paga è di 125 dollari a settimana, quanto di meglio si possa trovare sul mercato. C'è poco da fare gli schizzinosi: Horace, reduce dall'esordio in sala d'incisione agli ordini del batterista-cantante Preston "Peppy" Prince, pianta tutto e s'imbarca alla volta di New York, prima tappa di un viaggio che lo condurrà a spasso per l'America fino al 1961.

La militanza nell'orchestra di Hamp è un'esperienza decisiva sotto molti punti di vista. Innanzitutto, a causa della frequente indisponibilità del pianista titolare, Tapscott abbandona quasi definitivamente il trombone per convertirsi agli ottantotto tasti. E poi, entrando in contatto con lo spietato mondo del jazz (droga, viaggi massacranti, razzismo, frustrazioni e insicurezza), si fa strada nel giovane Horace, poco più che ventenne, la convinzione di non essere tagliato per la vita del musicista. Certo, New York è la città dove tutto sta accadendo, dove capita di sedersi allo stesso tavolo con John Coltrane e Ornette Coleman, ma per i suoi figli, che nel frattempo sono diventati cinque, e per la sua musica, Tapscott ha in mente altro.

Nella primavera del '61 lascia Hampton, torna in bus a Los Angeles e inizia a mettere in piedi quella che sarebbe poi diventata la Pan Afrikan People Arkestra (per gli amici PAPA). L'idea di Tapscott è molto semplice: preservare le arti nere nella comunità («Preserve the black arts in the community» [Nota 4]). Il modello di riferimento, che Tapscott conosce, è l'Arkestra di Sun Ra, anche se l'accento in questo caso è posto sul rapporto con la comunità nera, sulla dimensione sociale. Il richiamo all'Africa è perfettamente in linea con lo spirito del tempo, con i colori e gli umori del vasto spettro di movimenti, culturali e politici, riconducibili alla lotta per i diritti civili. Analogie, ovviamente, si possono trovare, negli intenti e nelle prassi, con l'AACM di Chicago (Association for the Advancement of Creative Musicians), che sarebbe nata nel '65; o con il BGA di St. Louis (Black Artists Group), creato nel '68 da Julius Hemphill, Oliver Lake e Baikida Carroll.

Il primo nucleo dell'Arkestra è composto da sette musicisti: con Tapscott ci sono il fidato Lester Robertson, la pianista e cantante Linda Hill, i bassisti David Bryant e Alan Hines e i sassofonisti Jimmy Woods e Guido Sinclair. Poco dopo si unisce alla combriccola Arthur Blythe, destinato a lasciare un segno indelebile. All'inizio l'attenzione è rivolta più che altro alla musica, ma nel giro di un anno la band si dota di una ragione sociale ben precisa.

Nasce così l'UGMA (Underground Musicians Association), della quale l'Arkestra diventa l'estensione musicale collettiva. Le attività della neonata associazione spaziano dai corsi musicali per bambini e adulti alla raccolta fondi per famiglie disagiate, dalle ripetizioni gratuite per scolari in difficoltà all'insegnamento della danza, della filosofia e della storia afroamericana.

Musicisti come i fratelli Wilber e Lawrence "Butch" Morris, Azar Lawrence, Everett Brown Jr., Will Connell, danno man forte al nucleo originale dell'Arkestra. Ogni sabato la band si esibisce nei parchi della città gratuitamente coinvolgendo centinaia di persone. A metà anni Sessanta l'UGMA è una presenza consolidata all'interno della comunità nera, una presenza che gravita attorno al nuovo centro della Los Angeles in black, Watts.

The Giant Is Awakened

Fondato agli inizi dell'Ottocento da coloni messicani e famoso per le omonime torri (erette fra il 1920 e il 1955, con meticolosa e certosina pazienza, dall'immigrato italiano Simon Rodia), Watts, a metà degli anni Sessanta, è attraversato da fortissime tensioni sociali dovute a un generale peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, composta per l'85% da afroamericani [Nota 5]: il tutto in un quadro di crescente politicizzazione del ghetto, accompagnata da un inusitato aumento delle violenze e dei soprusi perpetrati dal famigerato Los Angeles Police Department (LAPD). Dunque, sono in pochi a stupirsi quando l'11 agosto del 1965, l'ennesimo arresto immotivato di un afroamericano (Marquette Frye), scatena la più estesa e sanguinosa sommossa a sfondo razziale mai vista fino ad allora.

In sei giorni per le strade di Los Angeles muoiono 34 persone, i feriti sono più di 1000 e gli arresti quasi 5000. In città arriva persino la Guardia Nazionale, mentre la conta dei danni, una volta sedata la rivolta, parla di 3000 incendi appiccati, 600 edifici gravemente danneggiati e 40 milioni di dollari letteralmente andati in fumo [Nota 6]. L'estate del '65, in qualche modo, segna uno spartiacque anche per la vita dell'UGMA: il clima si fa pesante in città, episodi

di grave intimidazione funestano l'esistenza di molti musicisti, mentre lo stesso Tapscott viene inserito nella lista nera dei sorvegliati speciali dall'FBI (del famigerato J. Edgar Hoover), pedinato, minacciato e continuamente importunato (nella sua autobiografia il pianista confessa di aver spesso temuto per la propria vita e quella dei suoi cari [Nota 7]).

È il prezzo da pagare per le "relazioni pericolose" che l'associazione e il suo leader intrattengono con il Black Congress, con la Nation of Islam (Malcolm X viene assassinato proprio nel febbraio del '65) e, soprattutto, con il Black Panther Party for Self-Defense, le Pantere Nere: Alprentice "Bunchy" Carter e John Huggins, membri delle Pantere assassinati il 17 febbraio del '69, fanno parte dell'UGMA, l'attivista Elmer "Geronimo" Pratt (in carcere dal '70 al '97 per un omicidio mai commesso) collabora spesso con Tapscott e i suoi, Elaine Brown, destinata a diventare uno dei maggiori leader del partito negli anni Settanta, frequenta il pianista e con il suo aiuto, tra il '69 e il '73, incide due dischi. Insomma, il legame è stretto e alle autorità il dettaglio non sfugge.

Fortunatamente, sono anche anni molto fecondi dal punto di vista artistico. Watts brulica di musicisti, performer, pittori: tra i tanti, i poeti Kamau Daáood, Ojenke, Jayne Cortez (moglie di Ornette Coleman dal '54 al '64), Sonia Sanchez e Quincy Troupe (destinato a futura fama nei panni di critico musicale), il poliedrico Stanley Crouch (scrittore, batterista, performer, polemista, rapper ante litteram), i Watts Prophets (la versione losangelina dei The Last Poets), Bobby Bradford e John Carter, altri eroi misconosciuti del jazz californiano.

Nel '68 l'associazione cambia nome: da UGMA a UGMAA (Underground Musicians and Artists Association, che dal '70 si trasformerà in Union of God's Musicians and Artists Ascension).

Il '68 segna anche il ritorno in sala d'incisione. Dopo apparizioni di secondo piano su lavori del trombonista Lou Blackburn e del sassofonista Curtis Amy, troviamo Tapscott in Sonny's Dream (Birth of the New Cool), piccolo grande capolavoro firmato Sonny Criss (il sottotitolo fu scelto per rimarcare le similitudini dal punto di vista della strumentazione con l'originale davisiano). Il pianista non suona, ma scrive e arrangia tutti i pezzi per il tentetto, dimostrando estrema perizia in gemme come "The Black Apostles" (dedicata a Malcolm X, Martin Luther King e Medgar Evers), "Ballad for Samuel" (per il maestro Samuel Browne) e "Daughter of Cochise" (con dedica a una donna Apache conosciuta da bambino). Un disco notevole, dalle intricate trame e atmosfere cangianti, primo indizio della grandezza del Tapscott compositore e arrangiatore.

Per apprezzarne invece le doti pianistiche bisogna aspettare il '69, anno della prima volta da leader. L'11 aprile, per conto della Flying Dutchman del produttore Bob Thiele (fino a poco prima con la Impulse!), il pianista entra in studio alla testa di un quintetto completato dai contrabbassi di David Bryant e Walter Savage, dal contralto di Arthur Blythe (al debutto assoluto su nastro) e dalla batteria di Everett Brown Jr. Il risultato di quella session è The Giant Is Awakened. Quattro le composizioni in scaletta: "For Fats" di Blythe, "The Giant Is Awakened," appunto, "Niger's Theme" e la mitica "The Dark Tree," tutte e tre a firma Tapscott.

Il messaggio politico che il disco veicola è potente: il gigante che si è svegliato è il popolo afroamericano, l'albero scuro è la storia dei neri d'America, che pianta le radici nel passato e proietta le fronde sul futuro. La musica ha una carica ritmica feroce, il piano di Tapscott si distingue per gli ostinato martellanti della mano sinistra, i toni oscuri e inquieti delle lunghe improvvisazioni, gli scarti armonici improvvisi; il contralto salmodiante di Blythe è una sintesi meravigliosa tra la spiritualità di Coltrane e la musicalità di Ornette. Il doppio contrabbasso e la batteria del fenomenale Everett Brown Jr. spingono il motore della band al massimo dei giri, soprattutto nel brano che dà il titolo al disco, una cavalcata lunga 17 minuti.

The Giant Is Awakened meriterebbe ben altra fortuna rispetto alle poche copie vendute, ma purtroppo, per un diverbio con Thiele (che lo pubblica a New York senza l'approvazione definitiva dell'artista), Tapscott finisce per rinnegarlo, così come aveva già rinnegato Sonny's Dream a causa del voltafaccia del signor Prestige Don Schlitten, che, dopo aver promesso di scritturare per la session solo membri della Pan Afrikan, aveva deciso all'ultimo momento di affidarsi a turnisti di lusso come Dick Nash, Conte Candoli, Tommy Flanagan e Teddy Edwards.

Gli incidenti con Thiele e Schlitten, gente che conta nell'ambiente, gli valgono l'etichetta di piantagrane, e la partecipazione ai già citati lavori della Pantera Nera Elaine Brown (Seize the Time nel '69 ed Elaine Brown nel '73) di certo non aiuta. A Tapscott poco importa: il feeling con sale d'incisione e produttori non c'è mai stato, il pianista ne fa volentieri a meno e si rinchiude in un "silenzio stampa" che durerà fino alla fine degli anni Settanta, quando ci penserà la nascita della Nimbus a riportarlo in studio.

Gli anni Settanta e la Nimbus

Il decennio successivo agli "euforici" Sessanta si apre in un clima ingrigito dalla guerra del Vietnam e dall'attenuarsi dell'impulso, culturale e politico, della lotta per i diritti civili. La presenza dell'UGMAA all'interno della Los Angeles nera resta comunque un punto di riferimento per i giovani musicisti, e questo nonostante siano in tanti, tra il '73 e il '75, a cedere alla sirene newyorchesi: i fratelli Morris, Wilber e Lawrence "Butch," Stanley Crouch, Azar Lawrence, Arthur Blythe e il giovane David Murray.

A far fronte alle partenze ci pensano però le nuove leve, giovani di belle speranze come Adele Sebastian, Dadisi Komolafe, Billie Harris, Michael Session, Roberto Miranda, Gary Bias (futuro Earth, Wind & Fire), Jesse Sharps, Reggie Bullen e Sonship Theus, non più immigrati o figli della Central Avenue, ma ragazzi nati e cresciuti a Watts. L'Arkestra mantiene dunque, e anzi rafforza, il proprio ruolo di "palestra" per gli improvvisatori losangelini. Le condizioni in cui è costretta a muoversi l'UGMAA non sono facili, ma nel suo piccolo l'associazione riesce a creare nuove sinergie con i campus universitari e con la comunità artistica di Venice Beach, che ruota attorno all'Azz Izz Jazz Culture Center del sassofonista Billie Harris. Inoltre, a partire dal 1973 fino al 1981, la PAPA si esibisce l'ultimo sabato di ogni mese a nord di Watts, nella Immanuel United Church of Christ del reverendo Edgar Edwards, attivista e membro del Black Congress: la chiesa diventa una sorta di seconda casa, un porto sicuro per Tapscott ei suoi, oltre che un'insostituibile sala prove.

La crescita complessiva dell'UGMAA culmina il 28 agosto del '75 con la definitiva istituzionalizzazione attraverso la nascita dell'UGMAA Foundation. Lo status di fondazione apre le porte dei finanziamenti pubblici, schiudendo nuovi orizzonti e facendo fare un notevole salto di qualità alle possibilità dell'associazione. Purtroppo, il decennio si chiude con un drammatico imprevisto.

Nell'estate del '78 Tapscott è vittima di un aneurisma celebrale. Viene ricoverato d'urgenza e operato in fretta e furia. Resta in coma qualche giorno, ma i medici lo strappano alla morte: gli ci vorrà però un anno per riprendere confidenza col pianoforte.

L'ultimo scorcio dei Settanta segna anche la fine del lungo silenzio discografico. L'uscita dall'isolazionismo la si deve alla buona volontà di due produttori improvvisati: Toshiyo Taenaka, fondatore della Interplay Records, e Tom Albach, padre della Nimbus West. Taenaka è il primo, nel febbraio del '78, a riportare in studio Tapscott per il suo debutto in piano solo, Songs of the Unsung. In scaletta otto brani, dei quali solo due originali. Tra gli standard spiccano le splendide riletture di "Lush Life" di Billy Strayhorn e "Something for Kenny" di Elmo Hope. Lo stile del nostro è già maturo, figlio, in quanto a eleganza e senso ritmico, di Duke Ellington e Randy Weston, anche se negli azzardi armonici si possono rintracciare gli insegnamenti di Andrew Hill e Cecil Taylor, dei quali Tapscott si è sempre dichiarato indefesso ammiratore («Mal Waldron, Cecil Taylor, Randy Weston e Andrew Hill per me sono come fratelli» scriverà nella sua autobiografia [Nota 8]).

Ancora su commissione dell'Interplay, nel gennaio del '79, appena riemerso dal calvario della riabilitazione post-aneurisma, il pianista attraversa l'America per incidere, in trio con Art Davis al contrabbasso e Roy Haynes alla batteria, il delizioso In New York, lavoro pregevolissimo, ma non ai livelli di quel che sarà. Ben più interessante Autumn Colors, registrato nel maggio del 1980 alla testa di un trio completato dai fidati Everett Brown Jr. alla batteria e David Bryant al contrabbasso.

È per la Nimbus West di Tom Albach, tuttavia, che il nostro dà il meglio di sé. Albach, un semplice appassionato di jazz, crea l'etichetta appositamente per registrare l'Arkestra e nell'aprile del '78, per la prima volta da quando è nata nel 1961, la PAPA finisce su disco. Il materiale viene spalmato su due LP: Flight 17 (ristampato su CD nel 1997 e dedicato alla memoria del pianista Herbert Baker, membro dell'UGMAA morto in un incidente stradale a diciassette anni) e The Call. Alla testa di sedici elementi (ai quali in tre brani si aggiunge una sezione d'archi), Tapscott mette in fila una serie di originali (firmati da una decina di membri della band, compreso Herbert), che svelano le varie anime dell'Arkestra: quella più free e militante, quella R&B, le inclinazioni africaneggianti, l'influenza della musica latina, in particolare delle tradizioni messicana e caraibica.

Albach è entusiasta del risultato e nel '79, tra febbraio e giugno, decide di produrre una serie di registrazioni live nella Immanuel United Church of Christ. Sul doppio Live at I.U.C.C. (ristampato in doppio CD nel 2006) finiscono otto lunghi brani, sempre a firma di vari membri dell'Arkestra. Con quanto registrato l'anno prima, è tutto quel che al momento si può ascoltare della PAPA prima dei bootleg relativi agli anni Ottanta [Nota 9].

Un lascito non certo cospicuo, ma dal valore immenso, documento essenziale nella storia del jazz moderno. Prima della fine del decennio arriva anche il doppio Lighthouse 79, registrato al Lighthouse di Hermosa Beach e ristampato nel 2009 dalla Nimbus. Con Tapscott ci sono Reggie Bullen alla tromba, Gary Bias al contralto, George Goldsmith alla batteria, Roberto Miranda e David Bryant al contrabbasso. Siamo dalle parti di The Giant Is Awakened, ma con maggiore consapevolezza, lucidità.

Uno dei migliori dischi in assoluto firmati Tapscott.

Un nuovo pubblico, l'Europa e i fatti del '92

L'incontro con Albach "scioglie la lingua" al ritroso pianista e nella prima metà degli Ottanta le pubblicazioni fioccano: At the Crossroads, in duo con Everett Brown Jr., Dial "B" for Barbara, ancora in sestetto ma con un contrabbasso in meno e un fiato in più rispetto a Lighthouse 79 (Sabir Mateen per David Bryant), ma, soprattutto, il doppio Live at Lobero, in trio con Roberto Miranda al contrabbasso e Sonship Theus alla batteria.

Sul palco del Lobero Theater di Santa Barbara, la sera del 12 novembre del 1981, i tre si esibiscono in un live a dir poco incendiario, che restituisce fedelmente la forza d'urto della formazione; un autentico fiume in piena che spinge ciascun brano in scaletta oltre i venti minuti (in "Inception" si sfiorano i trenta) per dare libero sfogo alla torrenziale ispirazione del leader.

Un gradino sotto il pur bellissimo Dissent or Descent, in trio con la batteria di Ben Riley e il contrabbasso di Fred Hopkins, mentre sono tutti da scoprire gli undici volumi di The Horace Tapscott Sessions, che, registrati con assoluta devozione tra il 1982 e il 1984 («a tarda sera, solo io, Tom Albach, il piano e Horace» racconterà il tecnico del suono Dennis Moody [Nota 10]), rappresentano una monumentale testimonianza dell'arte in solo del pianista, che spazia tra originali e riletture di brani altrui (Monk, Elmo Hope, Sun Ra, Coltrane, John Lewis, Ellington, Horace Silver).

Il ritorno sugli scaffali dei dischi di Tapscott schiude le porte a un'inedita moltiplicazione degli ingaggi, in primis in California, ma anche altrove, persino in Europa. Nel giugno del 1980, ad esempio, Tapscott si esibisce per la prima volta in Italia, a Verona. Seguono apparizioni a Willisau, a Moers, Nickelsdorf, in solo, trio e in altre formazioni. Nel 1987 torna per la seconda volta in Italia, ancora a Verona, in una serata che vede il suo ottetto condividere il palco con Andrew Hill. Del concerto, svoltosi al Teatro Romano, il pianista conserverà un vivido ricordo, tanto da citarlo nella propria autobiografia quale esempio del sommo rispetto degli europei per il jazz [Nota 11] (clicca qui per leggere l'intervista inedita che Angelo Leonardi fece a Horace Tapscott in occasione del Verona Jazz Festival del 1987).

Il culmine del riscatto mediatico arriva nel '91, quando il suo trio viene scritturato dal Village Vanguard di New York.

Visti in chiave UMGAA, però, gli anni Ottanta e Novanta non sono tutti rose e fiori, anzi. Il legame con la città di Los Angeles si fa meno stretto e le condizioni in cui operare molto complicate. Inoltre, stenta il ricambio generazionale nei ranghi dell'associazione (e questo non era mai capitato nemmeno ai tempi dell'esodo newyorchese dei primi Settanta). Particolarmente dolorose, e pesanti dal punto di vista dell'economia interna dell'UGMAA, sono le scomparse di Everett Brown Jr, Lester Robertson, Adele Sebastian e Linda Hill.

Certo, non mancano le nuove reclute (come Sabir Mateen, Curtis Clark e Kafi Roberts), ma per la prima volta si ha la sensazione che qualcosa si sia spezzato nella dialettica con la città e, in particolare, con la comunità nera, che ha perso gran parte di quella coesione che la caratterizzava nei decenni precedenti. I finanziamenti pubblici, poi, sono di difficile accesso, le scuole hanno sempre meno fondi a disposizione per occuparsi di musica, mentre la violenza tra i minori cresce in maniera sconosciuta fino ad allora.

A segnare una svolta, come già era successo nel '65, è un riot, una sollevazione popolare. Siamo nel 1992 e le immagini del pestaggio di un tassista di colore, Rodney King, da parte di quattro poliziotti bianchi (in seguito assolti da ogni accusa) vengono trasmesse in prima serata dai maggiori network, scatenando la più violenta rivolta nella storia degli Stati Uniti. Tra il 29 aprile e il 4 maggio Los Angeles brucia: i morti, alla fine, saranno 53, ma, a differenza di quanto accaduto a Watts, la maggior parte degli uccisi sono vittime di regolamenti di conti tra bande rivali o crimini comuni, mentre la protesta a sfondo razziale resta sullo sfondo.

Colpita al cuore, la comunità artistica di Los Angeles reagisce ricompattandosi attorno a Leimert Park, che diventa il nuovo cuore pulsante della città raccogliendo, simbolicamente, l'eredità della Central Avenue e di Watts. In Leimert Park ha sede The World Stage, il centro culturale fondato nell'89 dal batterista Billy Higgins e dal poeta Kamau Daáood; in Leimert Park aprono i battenti nuovi locali che propongono musica jazz, come il 5th Street Dick's Coffee e il Jazz Emporium. Insomma, nello slancio che segue i fatti del '92 l'UGMAA ritrova stimoli, motivazioni e nuovi spazi di manovra.

Gli anni che vanno fino alla morte di Tapscott segnano anche il ritorno agli antichi splendori dell'Arkestra, nuovamente presenza costante sui plachi del South Central di Los Angeles. A suggello della rinascita, nel giugno del 1995, per la prima volta la PAPA al gran completo, diciassette elementi in tutto, attraversa l'Atlantico per esibirsi al festival di Moers, in Germania.

Epilogo

Purtroppo, l'ultimo scorcio della vita di Tapscott segna un rallentamento dal punto di vista dell'attività discografica. Da segnalare, nell'87, Horace Tapscott Octet Live, che esce per la Americana Records, mentre è del dicembre dell'89 il superbo The Dark Tree (del quale ci riserviamo di tessere le lodi a parte). Tra il capolavoro griffato Hat Hut e il disco successivo passano quasi sei anni. È il giugno del '95, infatti, quando la Arabesque pubblica Aiee! The Phantom, che vede il nostro alla testa di un quintetto stellare completato dalla tromba di Marcus Belgrave, dal contralto di Abraham Burton, dal contrabbasso di Reggie Workman e dalla batteria di Andrew Cyrille.

Ancora meglio l'episodico incontro con il sax tagliente di Sonny Simmons. Registrato un mese dopo Aiee! The Phantom, Among Friends è senza dubbio la migliore testimonianza del Tapscott anni Novanta. Il pianista e Simmons, sostenuti dal drumming proteiforme di John Betsch e dal basso impeccabile di James Lewis, si confrontano con le davisiane Milestones e So What, con l'eterna Body and Soul e con l'ellingtoniana Caravan. Il disco, che cattura un live in terra francese, a Longwy, esce per la transalpina Jazz Friends.

Infine, il primo luglio del 1996, il pianista entra in uno studio di New York per registrare l'ultimo disco a proprio nome, Thoughts of Dar Es Salaam, in trio con Ray Drummond e Billy Hart, prodotto ancora una volta dalla Arabesque. Ne segue un lungo tour, l'ultimo nel quale lo si può ammirare in piena forma.

Nel marzo del '98 inizia ad avvertire i primi dolori ad una gamba, seguiti da una paresi momentanea del braccio destro (durante un ingaggio all'Iridium di New York). Di lì a poco gli viene diagnosticato un tumore ai polmoni. Dopo una lunga agonia, Horace Tapscott si spegne la notte del 27 febbraio del 1999.

Nonostante siano passati quasi undici anni dalla morte, la sua figura e la sua musica restano drammaticamente patrimonio di pochi. Non altrettanto i suoi insegnamenti, che vivono in decine di artisti, e uomini, cresciuti a Los Angeles tra gli anni Settanta e Ottanta; artisti, e uomini, entrati in contatto profondo con l'UGMAA o ai quali è solo capitato di assistere a concerti del pianista o della Pan Afrikan People Arkestra. Horace Tapscott ha passato la propria vita nella comunità, ed è nella comunità che va cercata la sua vera grandezza.

Note

1) Tapscott, Horace, Song of the Unsung, Duke University Press Durham & London, Durham, 2001, p.13. 2) Alla scena californiana ha dedicato un'ampia retrospettiva in due capitoli Angelo Leonardi: prima parte, seconda parte. 3) Tapscott, Horace, in Central Avenue Sounds, University of California Press, Berkeley e Los Angeles, 1998. 4) Tapscott, Horace, Song of the Unsung, cit., p.82. 5) Isoardi, Steven L., The Dark Tree. Jazz and the community arts in Los Angeles, University of California Press, Berkeley e Los Angeles, 2006, p.69. 6) Il rapporto della commissione governativa chiamata a indagare sui fatti di Watts (Watts Riot) è interamente consultabile sul sito della University of Southern California. 7) Tapscott, Horace, Song of the Unsung, cit., p.117-124. 8) Ibidem, p.181. 9) Al momento perchè negli archivi della University of California sono custodite numerose registrazioni risalenti ai primi anni Settanta e addirittura alla fine dei Sessanta. I nastri fanno parte della Horace Tapscott Jazz Collection, che raccoglie anche scritti, spartiti e fotografie del pianista. Il fondo è stato donato alla University of California nel 2003 da Cecilia Payne, moglie di Tapscott. Il materiale è stato catalogato ed è possibile consultarne l'elenco sul sito della Online Archive of California. 10) Isoardi, Steven L., The Dark Tree. Jazz and the community arts in Los Angeles, cit., p.215. 11) Tapscott, Horace, Song of the Unsung, cit., p.181.

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