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Ensemble Tabula Rasa - Synolon

Ensemble Tabula Rasa - Synolon

Courtesy Roberto Testi

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Ensemble Tabula Rasa Chigiana Siena Jazz
Micat in vertice
Siena
Teatro dei Rozzi
10.3.2023

A dieci mesi di distanza da ΠÅTΣR¥Æ, l'Ensemble Chigiana Siena Jazz Tabula Rasa, diretto da Stefano Battaglia, ha presentato un nuovo capitolo della propria ricerca: Synolon, completamento dell'indagine della relazione tra musica e materia iniziata con il precedente lavoro.

La formazione era in quest'occasione lievemente diversa e ampliata da quindici a diciassette membri; mancava il vibrafono, sostituito da altre percussioni, ed entrava (per metà dell'opera) l'arpa di Stefania Scapin, già presente in altri lavori dell'ensemble; raddoppiava la presenza il contrabbasso con Stefano Zambon accanto a Michele Bondesan. Inoltre, Battaglia si alternava tra un pianoforte e un piano preparato, posti l'uno di fronte all'altro e al centro di un arco formato dai musicisti, al cui apice erano posti i percussionisti —Pierluigi Foschi, Giovanni Nardiello, Nicholas Remondino e Giuseppe Sardina —, mentre dalla sinistra si disponevano Elsa Martin alla voce e i fiati —nell'ordine Stefano Agostini ai flauti, Christian Thoma a oboe, corno inglese e clarinetto basso, Cosimo Fiaschi al sax soprano, Tobia Bondesan al sax contralto, Francesco Panconesi al sax tenore, Ludovico Franco alla tromba —e dalla destra l'arpa e gli archi —Seyedehsaba Safavi alla viola, Sarvin Asa al violoncello e i contrabbassi.

Il progetto, "pensato" in modo analogo al precedente, includeva tuttavia un maggiore spazio per la parola, in quanto erano presenti un cospicuo numero di testi di autori anche diversissimi tra loro —Aristotele, Cicerone, Bruno e Darwin accanto a Montale, Deledda, Pasolini, Quasimodo, Cantarutti e molti altri, tra cui anche la stessa Martin—i quali, tuttavia, si inserivano nella trama sonora in forma vocalizzata più che cantata o recitata. L'opera era divisa in quattro parti —"Aeriforme," "Solida," "Liquida" e "Synolon"—a loro volta suddivise in altre sezioni e proposte a coppie in due set divisi da un breve intervallo—scelta quasi necessaria a cagione di una durata complessiva di oltre tre ore. Difficile cogliere, dall'esterno, quali elementi scritti guidassero il lavoro improvvisativo, la cui ampia presenza ha portato a un'estendersi della musica che ha in parte sorpreso anche alcuni dei protagonisti. Certo, oltre alla direzione—peraltro gestualmente misuratissima—di Battaglia, fungevano da scansioni determinati cambi di scena—spesso caratterizzate dall'interventi di Remondino, il cui ruolo è parso centrale—nonché il posizionamento delle parti testuali.

La prima parte, pur nella sua costante varietà di stilemi e atmosfere, era caratterizzata da un andamento generale molto jazzistico, fatto risaltare sia dagli interventi dei fiati, sia da ripetuti momenti magmatici collettivi, sia, infine, dalla presenza di un vero e proprio episodio in piano trio incastonato al suo centro.

La seconda parte era inizialmente dominata dalle percussioni—tutta l'orchestra ha a un certo punto fatto uso di improvvisati oggetti percussivi—e da un ritmo etnico tribale, sul quale il flauto ha improvvisato liberamente in modo molto espressivo. Dopo numerosi cambi di scena—tra cui una narrazione sospesa, guidata dall'oboe ma caratterizzata da un mirabile impasto timbrico—un nuovo crescendo percussivo lanciato dal piano preparato ha aperto scenari per interventi della voce, seguiti da un episodio cameristico, protagonisti prima piano e archi, poi il corno inglese, infine un duetto tra il piano e il contrabbasso di Bondesan. Il tutto è confluito in una conclusione magmatica, con uno splendido scoppiettare dei molti timbri.

Dopo la pausa, la terza parte s'è aperta con un sognante solo dell'arpa, fin lì assente dalla scena. Dopo il suo ingresso, intimo, la voce della Martin è stata pian piano affiancata in crescendo dall'orchestra quasi al completo, in seguito dispersasi in un baluginare di suoni metallici prodotti da corde, percussioni e piano preparato. Il rientro dei fiati, introdotto dal flauto, ha anticipato un altro testo, seguito da un lungo ostinato del piano, attorno al quale gravitava tutta l'orchestra disegnando figure sempre diverse, fino a una conclusione stavolta quieta.

L'ultima parte, maggiormente caratterizzata dai testi e quindi dalla voce, è iniziata con fiati e percussioni su stilemi spigolosi, ai quali hanno fatto seguito canti stavolta più lirici. Una pausa e un progressivo addensarsi di suoni hanno preluso a un insistito intervento di Remobdino, al tamburo su ritmi irregolari, e alle vocalizzazioni della Martin, che è poi tornata al canto lirico su un affascinante tema mediorientale, precedentemente introdotto da piano e batteria e descritto dal flauto di legno. Lo stesso tema è poi stato ripreso dagli archi, dal pianoforte su toni più scuri, infine dall'intera orchestra. Dopo un nuovo ostinato del piano ad accompagnare una suggestiva progressione del tenore, gli ultimi testi hanno infine condotto a un collettivo finale cacofonico, conclusosi in dissolvenza.

Queste poche suggestioni raccolte all'interno di una performance, come detto, estremamente lunga, possono dare solo una vaga idea dell'affresco complessivo, caratterizzato soprattutto dall'estrema ricchezza timbrica e dal continuo trasmutarsi l'una nell'altra delle forme parcellizzate. Quel che si può dire, in conclusione, è che—a dispetto dell'impegno che richiedeva, ancor più tenendo conto della sua durata—l'ascolto di questo nuovo lavoro di Tabula Rasa è stato ancora una volta non solo di grande interesse, ma anche costantemente affascinante e pienamente coinvolgente. Ben vengano perciò progetti di questa arditezza, che è un vero peccato vivano solo di "esecuzioni uniche," quali meravigliose farfalle multicolori che volano un solo giorno, senza poter più essere ammirate da altri.

Foto per gentile concession dell'Accademia Chigiana

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