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Claudio Filippini

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Si può essere originali anche con le cose più semplici del mondo, purchè ci sia sincerità, gusto e consapevolezza, senza starsi a inventare chissà cosa.
È giovane, ha talento, ha già incorniciato un piano solo di spessore considerevole, ma Claudio Filippini non si siede sugli allori e mette lo studio quotidiano tra i punti fissi attorno ai quali costruire la sua personale idea di musica. Gli abbiamo rivolto le domande di The Shape of Italian Jazz to Come? - la nostra rubrica dedicata ai musicisti che si affacciano nel panorama jazzistico italiano - via mail. Questo ci ha impedito di assaggiare le sue polpette abruzzesi, ma non di delinearne un profilo interessante.

All About jazz Italia: Raccontaci come è andato il primo incontro con il pianoforte e con il jazz.

Claudio Filippini: Prima ancora del pianoforte, più o meno all'età di tre anni, ero affascinato dagli interruttori. Non hai idea di quante lampadine ho fulminato o di quanti elettrodomestici ho mandato in corto quando ero piccolo. Mi piaceva schiacciare qualsiasi tipo di pulsante, in continuazione. Accendere. Spegnere. Accendere. Spegnere. Ero un bambino "binario"! Zero, Uno, Zero, Uno. Quando poi mio nonno mi regalò la mia prima tastiera giocattolo, ero sempre lì a schiacciare i tasti, e questa volta non solo l'interruttore. In quel periodo non facevo altro. Mangiavo, schiacciavo i tasti, dormivo. E il giorno dopo stessa cosa. Verso i cinque anni avvenne la folgorazione: mi ero messo in testa di voler suonare un pianoforte vero. Così da buon moccioso pensai che fosse ora di rompere le scatole ai miei genitori che per disperazione mi hanno iscritto a una scuola di musica. Per il jazz ci volle ancora qualche lustro.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione?

C.F.: Ho cominciato a sette anni con la musica classica e quando mi annoiavo suonavo a orecchio. Mi piaceva ascoltare le canzoni dei cartoni animati o delle pubblicità e risuonarle al primo colpo. Fu proprio questo gioco che innescò in me la voglia di diventare un musicista. Quando mi annoiavo di leggere le note, viaggiavo con la fantasia. Con la musica classica c'è sempre stato un rapporto di amore-odio, dovuto al fatto che la musica mi teneva impegnato a tempo pieno e non avevo quindi tempo di dedicarmi ad altre attività. Il mio primo insegnante di pianoforte era molto esigente, e le lezioni con lui erano dedicate per la maggior parte del tempo alla tecnica. Cercavo qualche altro modo di fare musica. Per me la musica rimaneva un gioco e non volevo solamente fare ginnastica con il metronomo! Fu proprio in quel periodo di turbamenti psicologici adolescenziali che per uno strano scherzo del destino istituirono un corso di piano jazz nella scuola dove studiavo. Per me fu un segnale! Mi iscrissi all'istante, con la promessa che non avrei abbandonato comunque la classica, e per farlo avrei dovuto pedalare, visto che comunque andavo anche a scuola. Con un colpo al cerchio e uno alla botte sono riuscito a conseguire il diploma di pianoforte, per merito di un'altra insegnante che mi fece scoprire sotto un'altra veste le meraviglie di Bach, Beethoven, Chopin, Mendelssohn, Debussy, Ravel.

AAJ: Quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?

C.F.: Più o meno verso i quattordici anni, quando cominciai a esibirmi con gli amici in giro per i locali ed a frequentare seminari e workshop. Il primo fu a Lanciano con George Cables, e fu proprio quello che mi cambiò la vita. Da allora capii che volevo fare di questo gioco la mia professione e continuai a frequentare altri corsi, da Lanciano a Siena Jazz a Chicago e a fare jam session fino all'alba. Ho cominciato a "campare" letteralmente di musica da quando mi sono trasferito a Roma, sette anni fa. Vivevo in un appartamento con altre sette persone e dividevo la mia stanza di cinque metri quadri con un contrabbassista e un pianoforte verticale. Abitavo praticamente in un tugurio. Durante quel periodo ho cominciato ad andare alle prime jam session romane e di lì a poco sono iniziate le prime collaborazioni. Da qualche anno ho la fortuna e il piacere di lavorare con musicisti come Maria Pia De Vito, Giovanni Tommaso, Roberto Gatto, Fabrizio Bosso. Quest'anno sono stato sempre in giro per l'Italia con il tour di Mario Biondi.

AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?

C.F.: Sto lavorando a un disco in trio con Luca Bulgarelli al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria, musiche originali. Spero di farvi ascoltare qualcosa al più presto.

AAJ: Tintura madre è il tuo esordio in piano solo. A soli 27 anni è un bel traguardo.

C.F.: Mi è sempre piaciuto suonare da solo, ma non avevo mai pensato di registrare un disco. Quando mi fu proposto di incidere un album in solo, il mio pensiero è stato: non sono ancora pronto. Pensavo fosse un'esperienza che richiedesse una lunga preparazione. Confrontarmi con me stesso da una parte mi intrigava, ma nello stesso tempo mi suscitava un discreto imbarazzo. Per fortuna la notte porta consiglio, in fondo avrei dovuto solamente rilassarmi e suonare la mia musica, così una notte qualsiasi sono entrato in studio.

AAJ: In che modo sono stati sviluppati i brani autografi?

C.F.: Tutti i brani originali sono nati in sala di incisione, ad eccezione di "Ivre à Paris" che avevo già scritto. Mi sono seduto al piano e ho cominciato ad improvvisare, inventando melodie semplici, immaginando spesso personaggi o paesaggi che non ho mai visto. Non avevo mai registrato da solo, ma era come se l'avessi sempre fatto. Credo che l'elemento più importante per un musicista sia non mentire a se stesso e suonare semplicemente quello che si è. Ecco il perché di Tintura madre: una voglia irrefrenabile di comunicare i miei sentimenti attraverso la musica. È un disco per la maggior parte improvvisato, racchiude le emozioni di quell'istante. Se oggi dovessi registrarne un altro, farei sicuramente una cosa completamente diversa.

AAJ: Il fatto che molti ti considerino un pianista maturo, ti spaventa? O quale sensazione ti trasmette?

C.F.: Non mi spaventa affatto. Vuoi sapere cosa realmente mi terrorizza? È la situazione culturale in Italia. La televisione sta rovinando questo Paese, abbassando il livello culturale sotto lo zero. Basti pensare ai contratti discografici con cifre da capogiro regalati a dei poveri ragazzi che vanno in televisione per diventare famosi. Ormai l'essere famosi per saper fare qualcosa è più importante del saper fare quella stessa cosa! È incredibile pensare anche a quanta gente si arricchisce nel campo della musica pur non sapendo nulla al riguardo. Oggi per la maggior parte dei giovani la musica è solamente X-Factor o Amici e questo per me è imbarazzante. Ormai sono tutti artisti. Tutti quanti sanno suonare, tutti quanti si intendono di jazz. I tempi sono cambiati, tutto è più veloce. Nel 2010 un ragazzo entra in un negozio, si compra la chitarra, torna a casa, si registra il suo disco con il computer portatile e lo pubblica su iTunes. Tutto questo non ha niente a che fare con l'arte. L'Italia, che nella storia è stata la culla degli illuminati, dei grandi artisti e dei grandi pensatori, è diventata la patria della mediocrità. Per non parlare della situazione cinematografica e dei milioni di euro spesi per i film "panettone". I vari "Natale a Miami," "Natale in India," "Natale in Egitto," tutti "film" prodotti con i soldi nostri. Sinceramente non riesco a capire come siamo potuti "scadere" così in basso.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

C.F.: Un punto fondamentale è lo studio, riuscire a studiare il più possibile, anche quando si è fuori casa. Quando non dispongo di un pianoforte tengo in allenamento l'orecchio ascoltando tantissima musica. La pratica quotidiana è sacrosanta, specialmente quando si è piccoli. Non sono d'accordo con quelli che essendo talentuosi si siedono sugli allori e non studiano mai perchè tanto sono bravi lo stesso. La pensavo così anch'io tempo fa, ma ho capito che è un approccio del tutto sbagliato. Prendiamo ad esempio Brad Mehldau. Mehldau è uno dei talenti più grandi che io abbia mai ascoltato, ma il suo punto di forza è proprio il fatto che lui abbina il suo genio e la sua facilità sullo strumento con la pratica continua. Ed è per questo che è uno tra i più grandi. Un altro punto per me fondamentale è la conoscenza della tradizione, e questo riguarda qualsiasi tipo di forma d'arte. Salvador Dalì, ad esempio, viene ricordato come il pioniere della corrente surrealista, ma non tutti sanno che Dalì era in grado di riprodurre alla perfezione la Madonna di Raffaello. Sia ben chiaro, Dalì non ha dedicato tutta la vita a riprodurre la Madonna di Raffaello e non è certo diventato famoso per questo motivo. Mahler diceva: "la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l'adulazione della cenere". Per questo motivo Dalì non solo era un grande conoscitore della tradizione, ma sfruttava gli insegnamenti dei grandi maestri per inventare cose nuove. La storia insegna che è proprio nel passato che nasce il futuro. Per questo motivo mi imbestialisco quando sento gente che snobba Coltrane, Scarlatti, Dante Alighieri perchè "roba vecchia," o quando ascolto quei musicisti-mercenari, che suonano a caso, con i piedi, senza nessun criterio e nessuna logica per mettersi solamente in mostra e per sembrare originali. Si può essere originali anche con le cose più semplici del mondo, purchè ci sia sincerità, gusto e consapevolezza, senza starsi a inventare chissà cosa. Oltre allo studio e alla ricerca individuale è molto importante suonare con quante più persone possibili, cercando di immischiarsi in quante più situazioni musicali possibili, e tirare fuori il massimo con i mezzi che si hanno a disposizione. Nel caso di un pianista, che si tratti di un pianoforte a coda, un pianoforte a muro, un pianoforte scordato, un sintetizzatore ossidato, una pianola sgangherata, una scatola di mentine.

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

C.F.: Un cocktail di musica. Da Miles Davis a Ray Charles ai Radiohead a Bjork a Beethoven a Shostakovic. Amo tutta la musica che mi trasmette emozioni, non mi piace etichettare i generi. Le etichette lasciamole ai negozianti di dischi.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

C.F.: Mi piace molto cucinare e da buon abruzzese "mi piace pure a magnà una frega!". I miei piatti forti sono gli spaghetti con le vongole e le polpette (chiamate anche "pallotte"). Mi sono cimentato anche con il sushi con buoni risultati. Credo che ci sia qualcosa che accomuni il jazz alla cucina: si impara strada facendo, poi i piatti improvvisati al momento sono quelli che riescono meglio in assoluto!

Foto di Roberto Panucci (la prima) e Paolo Iammarrone (la seconda e la terza).

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