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Ceci n'est pas une guitare: intervista a Emanuele Forni

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Il suono è una parte essenziale: se non si tiene in considerazione questo parametro si rischia semplicemente di perdere qualcosa o di aggiungere un sapore estraneo, poco attinente o addirittura fuorviante
In occasione dell'uscita del sedicesimo volume della Guitar Collection curato da Emanuele Forni e intitolato Ceci c'est pas une guitare vi proponiamo un'intervista a questo giovane e talentuoso chitarrista, continuando così l'approfondimento che avevamo intrapreso. A Forni sono state sottoposte le medesime domande poste ai musicisti che avevano precedentemente partecipato all'intervista a più voci e, sullo stesso canovaccio, si è sviluppato un nuovo, stimolante e diverso percorso di ricerca, ascolto, studio e registrazione.

Indice

Guitar Collection: il progetto

La formazione musicale

Conversando di musica: il repertorio contemporaneo

Gli strumenti usati nelle incisioni

Il repertorio e le tecniche d’interpretazione

Il jazz

GUITAR COLLECTION: IL PROGETTO

AAJI: Perché hai deciso di aderire a questo progetto?

Emanuele Forni: Stradivarius è un punto di riferimento importante per coloro che ascoltano musica antica e contemporanea. In casa mia ci sono sempre stati dischi di questa etichetta, quindi, quando ho terminato la registrazione del CD Ceci n’est pas une Guitare, ho spedito loro una copia proponendomi per la Guitar Collection. Fortunatamente il prodotto è piaciuto.

AAJI: Secondo quali criteri è stato scelto il repertorio che interpreti?

E.F.: Nel caso specifico di quest’ultimo CD ho cercato di rispondere alla domanda: “Come viene concepito oggi il suono di una chitarra?”. Ho scoperto composizioni di diversi autori dai suoni molto diversi tra loro, dall’assoluta purezza della chitarra classica secondo l’estetica di Takemitsu, fino alla trasfigurazione della chitarra elettrica di Dufourt, dove è perfino difficile riconoscere, all’ascolto, lo strumento. La scelta definitiva dei brani da includere nella registrazione è stata fatta sia seguendo un gusto personale sia pensando all’accostamento di composizioni così diverse tra loro.

AAJI: La Guitar Collection così come è stata pensata unisce opere che si potrebbero definire classiche (per quanto riguarda compositore, repertorio, epoca) ad opere dal taglio nettamente più contemporaneo e forse anche di ricerca. Le scelte che sono state fatte puntano senza dubbio a rendere in modo esaustivo e articolato la letteratura per chitarra. Cosa ne pensi?

E.F.: Mi auguro che diventi un punto di riferimento per un numero sempre maggiore di persone che amano e/o studiano questo strumento.

AAJI: Ci sono opere che in futuro ti piacerebbe venissero incise in questa collana ma al momento non sono ancora state incluse? C’è qualche partitura che avresti voluto realizzare ma non hai potuto?

E.F.: Al momento ho vari progetti che mi piacerebbe fissare con una registrazione: le partiture di Alessandro Piccinini e Michelangelo Galilei per arciliuti e liuto a 10 cori; un programma centrato sulla musica per chitarra elettrica e live electronics e un paio di progetti di musica da camera con repertorio contemporaneo per chitarra e sassofono e per un settimino. Vedremo cosa piacerà di più alla Stradivarius.

AAJI: Cosa aggiunge, secondo te, questa collezione della Stradivarius a quanto già esiste sul mercato discografico internazionale?

E.F.: Molto: in pochi anni sono riusciti ad imporsi creando un punto di riferimento molto alto qualitativamente parlando, sia dal punto di vista artistico che intellettuale. Inediti CD monografici, esaustive opere integrali di autori non molto conosciuti ma di indubbio valore, prime esecuzioni moderne di preziose partiture antiche: sono poche le case discografiche che fanno scelte di questo tipo con uno scopo culturale non solo assoggettato alle regole del mercato.

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LA FORMAZIONE MUSICALE

AAJI: Hai voglia di raccontare brevemente i tuoi studi e gli incontri con i maestri che maggiormente ti hanno influenzato... per meglio comprendere la ragione per la quale hai scelto le opere che interpreti (se le due cose hanno eventualmente un rapporto).

E.F.: Ho iniziato molto tardi a suonare, verso i 16 anni, da autodidatta, facendo un percorso guidato da vari stili musicali e molta improvvisazione libera (non tonale). Successivamente mi sono accostato alla musica classica ed al repertorio per chitarra: sono stati determinanti gli incontri con Lena Kokkaliari, Paolo Cherici ed Elena Casoli, persone che mi hanno aiutato moltissimo sotto il profilo tecnico ed artistico. Gli incontri con uomini straordinari non sono stati molti, ma tra questi vorrei ricordare Pierre Boulez, Jordie Savall, Peter Eötvös ed Georges Aperghis, che hanno cambiato radicalmente qualcosa in me e nel mio approccio con la vita/musica.

AAJI: Qual è stato il chitarrista che ti ha maggiormente influenzato / ispirato / emozionato e perché?

E.F.: I miei punti di riferimento musicali sono preferibilmente legati a cantanti, pianisti e violinisti. Se però dobbiamo restare nell’ambito chitarristico, da Jimi Hendrix e Ritchie Blackmore ho imparato molto sul fraseggio e quanto si possa trasmettere con un semplice “solo” di chitarra; da Robert Fripp quanto possa risultare “pulito” un suono distorto (e viceversa) e la bellezza della musica a fasce (Frippertronics); da Django quanto è geniale la semplicità; da Julian Bream che anche il passaggio più difficile tecnicamente deve sembrare facile grazie alla tua comunicatività; da Tuck Andress la poliritmia; da Mick Goodrick il ragionamento melodico; da Nguyên Lê l’arte dell’accompagnamento sulla chitarra elettrica; da Bill Frisell la flessibilità in un suono che continua comunque ad avere caratteristiche inconfondibili; da Fred Frith l’uso della creatività a tutto campo; da Jim Hall che una cosa non è mai la stessa due volte di seguito; da Elliott Sharp l’arte di percuotere uno strumento; da Egberto Gismonti il suo concetto pianistico dello strumento; da Baden Powell il contrappunto ritmico; da Paco de Lucia... che musicista geniale! E poi David Gilmour, David Tanenbaum, Frank Zappa, David Starobin, Charlie Cristian, ce ne sono troppi e tutti con qualcosa di prezioso da capire.

AAJI: Che musica ascolti abitualmente?

E.F.: Sono assolutamente onnivoro (ad eccezione, forse, di rap e hip pop: trovo comunque geniale il primo Eminem). Ascolto da Gilles Binchois a Francesco Landini, da Gesualdo a Étienne Moulinié, da Bach al Ludovico van, da Cage a Kaija Saariaho, da Eric Dolphy a Django Bates, da De André a Van des Froos, dalla musica sefardita all’irlandese ai tanghi senza ovviamente dimenticare i Pink Floyd e i Led Zeppelin. Siamo veramente viziati in questo momento, grazie a Internet abbiamo talmente tanta musica a portata di mano che spesso dimentichiamo di ascoltarla (attentamente).

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CONVERSANDO DI MUSICA: IL REPERTORIO CONTEMPORANEO

AAJI: Quali sono i compositori del Novecento che secondo te hanno dato maggior rilievo alla chitarra nel loro repertorio? E quali hanno introdotto i cambiamenti più interessanti?

E.F.: Anzitutto bisogna fare una distinzione tra i compositori hanno avuto un ruolo centrale e quelli che hanno realmente cambiato la tecnica: Malher ha aperto una porta decisiva includendo il nostro strumento in un importante lavoro orchestrale, ma tecnicamente non ha cambiato nulla al retaggio che aveva il nostro repertorio. Anche i lavori di Weber o Boulez sono stati fondamentali in tale senso: grazie a questi compositori siamo riusciti ad avere un ruolo paritario con altri musicisti e questo ovviamente ha allargato le nostre possibilità comunicative e “sociali”.

Non ci dobbiamo dimenticare che ancora oggi questo strumento ha grandissime difficoltà ad uscire da un ghetto che spesso i chitarristi stessi coltivano amorevolmente. Al contrario, personaggi come Villa Lobos (gli studi), Turina (la sonata), Ponce (tutto), Henze (le sonate), Berio (la sequenza) hanno creato quella chiave di volta tecnica essenziale nella storia della sei corde. Nell’arco del Novecento gli unici rimpianti che potremmo avere sono in Nono, anche se c’é la piccola parte in una composizione da camera, e Ligeti. Infine hanno un posto di estrema rilevanza storica quei compositori che da qualche anno stanno dando un cospicuo contributo al repertorio specifico per chitarra elettrica quali Murail, Barret, il compianto Romitelli e Krieger...

AAJI: Hai la sensazione che la “chitarra classica” sia uno strumento poco usato dai compositori contemporanei?

E.F.: Direi di no anzi... ma avere tanta (buona) musica non vuol dire che venga eseguita in stagioni prestigiose. Qualche passo in avanti si è fatto: ora siamo riusciti a catturare l’attenzione di molti compositori con nomi di rilievo, ma pochissime istituzioni musicali mettono in cartellone musica con chitarra per varie complicazioni quali ad esempio il dover assumere un esterno o per esperienze negative con chitarristi che non hanno saputo seguire un direttore. Basti pensare che esistono pochissimi (se non inesistenti) posti ufficiali/stabili di chitarra in ensemble rinomati, e questo ci fa vedere la realtà in una dimensione diversa: non esistono audizioni ufficiali, funziona tutto a passaparola e siamo ancora, per moltissimi musicisti, una specie di setta o, peggio, dei saltimbanchi che si barcamenano tra big band e folklore. Sarebbe interessante vedere la reazione di Maurizio Pollini se gli domandassero: “Scusa, tu sei quello che accompagna alle tastiere?”.

AAJI: Qual è il repertorio che prediligi e perché?

E.F.: Ancora non ho trovato una risposta definitiva. So che mi piace molto suonare con altre persone, scambiare, comunicare, ma se si parla una lingua oppure un’altra, non cambia molto. Sicuramente dopo un intenso studio in una direzione posso avere problemi a saltare su un’altro strumento (con un’altra accordatura) e in uno stile diverso, ma è questione di tempo, gusto, concentrazione, flessibilità e comunicazione.

Adoro suonare il continuo del periodo barocco, pratica utilissima per migliorare le proprio conoscenze armoniche ed improvvisative. Mi appassiona tantissimo sondare le possibilità dell’elettroacustica in quanto mi piace avere dei dialoghi non solo con musicisti ma anche con ricercatori nel campo della musica elettronica. Non perdo comunque l’occasione di fare un solo su All Along the Watchtower e pagherei per accompagnare Gloria Gaynor in I will survive. Insomma sono chiaramente un musicista... specializzato!

AAJI: Cosa in particolare ti piace della musica per chitarra spagnola e sudamericana?

E.F.: Il senso del ritmo e la contaminazione con la musica popolare sublimata o esplicita.

AAJI: La musica e i musicisti (compositori e interpreti) per chitarra subiscono senza dubbio numerosi luoghi comuni attribuiti a questo strumento. Secondo te quali sono gli aspetti che contribuiscono maggiormente a questo?

E.F.: Il repertorio e i chitarristi stessi: nel primo caso si è fatto molto, nel secondo, anche se la scuola di chitarra classica sta migliorando molto tecnicamente, l’aspetto artistico e di approfondimento è a volte di scarso livello o unidirezionale. La lettura musicale da parte di un chitarrista è spesso sotto la media, in musica da camera si vedono addirittura chitarristi che suonano “da soli”, c’è rigidità nel fraseggio e la prassi esecutiva antica e contemporanea risulta spesso poco affinata. Se non si conosce a fondo Mozart o Beethoven come si riesce a suonare Giuliani o Sor? Mi è capitato tantissime volte di sentire una sonata di Sor suonata come fosse Turina, questo è inammissibile, ad esempio, per un pianista.

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GLI STRUMENTI USATI NELLE INCISIONI

AAJI: Vorrei ora approfondire alcuni aspetti tecnici. Puoi descrivermi la/le chitarra/e che usi, raccontando le eventuali innovazioni che hai introdotto. Quante chitarre possiedi e che differenze hanno fra di loro?

E.F.: Credo che ogni musica sia legata ad un particolare strumento adatto a valorizzare le sfumature legate al pensiero del compositore ed allo stile di un’epoca. Cerco di utilizzare lo strumento specifico richiestomi in partitura oppure quello che si possa accostare meglio, di modo da ricreare una specifica sensazione. Ci sono casi dove non è riportata nessuna richiesta e quindi tento d’informarmi sulle preferenze del compositore, per poi fare una scelta. Non amo molto le trascrizioni se non quelle autorizzate dall’autore e mi risulta difficile ascoltare o suonare qualcosa che non tenga in considerazione lo strumento per cui una musica è stata scritta: sarebbe come suonare Hendrix con una Gibson o con un liuto barocco.

Il suono è una parte essenziale: se non si tiene in considerazione questo parametro si rischia semplicemente di perdere qualcosa o di aggiungere un sapore estraneo, poco attinente o addirittura forviante.

Come chitarre elettriche posseggo una Fender Stratocaster con 1 pick up al ponte Seymour Duncan ed una Fender Telecaster; come chitarre classiche una Masaru Kohno del 1977, una Roberto de Miranda del 1986 ed una Cuenca r50 del 2000; come chitarra acustica una Robert Taylor n 110 del 2001. Per la musica antica utilizzo un arciliuto su modello Venere di Andreas von Holst del 2001, una tiorba su modello Magno Tieffenbrucker sempre di Andreas von Holst del 1997 ed un liuto medievale di Richard C. Earle del 1985. Suono anche un charango di Sabino Huaman del 1999, un banjo ed un buzuki di ottima fattura ma di liutaio ignoto. Per l'amplificazione delle classiche (in alcuni contesti essenziale) non sono ancora riuscito a trovare una dimensione che mi soddisfi. Sarei veramente grato a colui che mi indichi una buona e pratica soluzione.

AAJI: Quale strumento, in particolare, utilizzi per le incisioni in studio e quale per i live?

E.F.: Uso tutti gli strumenti che ho elencato prima per entrambe le situazioni. Forse in futuro avrò uno strumento talmente prezioso da non sballottarlo su treni ed aerei, ma non credo che ciò accadrà a breve: se uno strumento mi piace, voglio che condivida la mia vita. Ovviamente ho l’accortezza di non portare un arciliuto in un festival open air a dicembre.

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IL REPERTORIO E LE TECNICHE D’INTERPRETAZIONE

AAJI: Per il repertorio che esegui hai studiato o usato particolari e nuove tecniche?

E.F.: Dai compositori contemporanei s’imparano sempre nuovi punti di vista e dunque l’essere flessibile a richieste inusuali diventa una caratteristica indispensabile per una collaborazione in tale direzione. Con il tempo si sviluppa un repertorio di tecniche non convenzionali quali l’uso di preparazioni dello strumento e i vari moduli d’attacco fatti anche con oggetti diversi.

Ma il punto interessante è che quando noi pensiamo a “tecniche”, ci immaginiamo qualcosa da fare con le nostre mani su uno strumento: l’esperienza tecnica più complicata che mi è capitata fino ad ora, invece, è stata coordinare i piedi su 4 pedali del volume/espressione mentre recitavo un testo in francese e suonavo (con le mani) la mia chitarra con un E-bow in quartine di sedicesimi irregolari a 128 di metronomo. Abbiamo ancora molto da imparare da persone come Stanley Jordan.

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IL JAZZ

AAJI: Volevo sapere cosa ne pensi del jazz, se lo ascolti abitualmente, se conosci celebri chitarristi e quali in particolare sono interessanti per il tipo di musica che abitualmente suoni.

E.F.: Ho sempre ascoltato jazz, dal più tradizionale al più sperimentale, è una fonte inesauribile di piacere ed informazioni utili per il lavoro di un musicista di qualsiasi estrazione. Ascoltare anche solo un breve estratto di un CD di Bill Evans basterebbe per mesi di studio: spunti melodici, armonici, scale, uso del pedale (armonico, ma anche quello fisico), interplay, aspetto ritmico... Per il reparto chitarristico credo di averti già risposto.

AAJI: Quali sono gli eventuali limiti o viceversa potenzialità espressive che vede nel jazz rispetto alla musica classica?

E.F.: Non trovo che ci siano sostanziali differenze espressive. A volte si rimprovera ai musicisti classici di avere una rigidità ritmica e ai musicisti jazz di avere un suono generalmente “grezzo” o poco ricercato, ma questi sono aspetti legati ad un fattore di studio e non, in senso assoluto, ad un genere. Se ascolto i grandi maestri di uno stile o di un’altro non riscontro delle differenze sostanziali nella loro espressività, le dinamiche di Keith Jarrett non credo siano più o meno ampie di quelle create da Martha Argerich e questo è un possibile paragone su un solo parametro. Inoltre, da qualche anno, esistono corsi, diplomi ed ensemble d’improvvisazione libera dove confluiscono sia jazzisti che musicisti classici: ho assistito a qualche lezione o concerto e non mi è sembrato che la differenza di background creasse un diverso livello comunicativo: è la personalità del musicista che fà la differenza.

AAJI: Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca? In un repertorio come quello per chitarra è un elemento importante?

E.F.: Certo, e il suo ruolo è determinante per trovare sempre nuovi spunti o motivazioni per lasciarsi sorprendere. Come tutte le pratiche però, vanno coltivate, studiate ed elaborate. Essere un bravo improvvisatore vuol dire aver assimilato uno stile talmente bene da poterlo variare a piacimento in quanto il vocabolario è interiorizzato, altrimenti si rischia di essere ripetitivi o una copia. Purtroppo non si può fare tutto e già assimilare lo stile di un musicista é uno studio molto lungo.

A Basilea ho conosciuto Rudolf Lutz, un improvvisatore incredibile, in particolare nello stile tardo barocco: penso che abbia assimilato gran parte delle partiture di questo periodo e quindi riesce tranquillamente a tenere banco per ore con il suo clavicembalo in modo originalissimo, ma ha studiato una vita per riuscirci, tralasciando altre pratiche. Mi viene in mente anche un’altro esempio interessante: qualche tempo fa ho suonato con un famoso jazzista di Milano, ad un certo momento ho proposto una romanesca (brano standard per i barocchisti che consiste in un basso ostinato sul quale creare diminuzioni). Mi ha confidato alla fine del concerto di non riuscire a trovare idee valide per quel brano in quanto forma chiusa troppo breve e troppo ripetitiva. Questa dichiarazione mi aveva fatto riflettere: chi studia improvvisazione in un certo stile, può non essere a proprio agio in uno stile differente. Chissà cosa avrebbe creato Parker su un raga indiano? Ne sarebbe stato capace?


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