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Biennale Musica 2022

Biennale Musica 2022

Courtesy Lucio Fiorentino

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Venezia
Varie sedi
Biennale Musica 2022
14—25.09.2022

Grande spazio alle donne e ai giovani autori e interpreti: Lucia Ronchetti, al suo secondo anno di direzione artistica della Biennale Musica, ha confermato e precisato in modo ancor più deciso gli orientamenti che l'hanno animata nell'edizione 2021. Soprattutto, è stata posta un'attenzione metodica e programmatica al "teatro musicale," strumentale e/o vocale, vale a dire alle creazioni in cui il messaggio musicale si nutre di una stretta interdipendenza con la componente visiva e scenica. Non a caso questa edizione è stata aperta e chiusa con due lavori di Giorgio Battistelli, Jules Verne (1987) ed Experimentum mundi (1981) sotto la direzione dello stesso autore, che rappresentano due capisaldi di questo ambito musicale. Ma anche le performance più raccolte, basate sull'identità fra compositore e interprete, erano caratterizzate da un'unitaria e istantanea compenetrazione fra spazio, suono e immagine.
Un altro obiettivo esplicito nella programmazione di quest'anno era quello di presentare opere di compositori europei ispirate al confronto con specifiche composizioni di musica antica, elaborando un rifacimento, una rigenerazione del materiale originario per giungere alla creazione di un'autonoma espressione attuale. D'altra parte, come già sosteneva molti decenni fa Franco Donatoni, è impossibile per il compositore europeo sottrarsi al raffronto con l'ingombrante e multiforme patrimonio linguistico che lo ha preceduto, a differenza di una più vergine visione/intenzione che caratterizza l'operato dei compositori americani. In particolare nelle produzioni di questa edizione si è cercato un collegamento con la storia musicale di Venezia, rievocandone i primi teatri impresariali, i compositori attivi nella città, le creazioni musicali del passato strettamente collegate ad essa.

Proprio da due ambiziosi e imponenti lavori compositivi che presuppongono il confronto con composizioni di musica antica partiamo nel resoconto delle giornate finali (dal 21 al 24 settembre) della Biennale Musica 2022, precisando che tutti i concerti ascoltati erano prime assolute di lavori espressamente commissionati dalla Biennale. Visions, per ensemble vocale, cori spezzati ed ensemble strumentali, è stato pensato dalla compositrice estone Helena Tulve (1972) appositamente per essere eseguito nella Basilica di San Marco, basandosi su frammenti di manoscritti di sacre rappresentazioni ritrovati da Giulio Cattin a Santa Maria della Fava e del Vangelo gnostico di Maria Maddalena in lingua copta.
La nutrita compagine degli esecutori, dislocata organicamente in varie parti della monumentale Basilica, ha creato effetti stereofonici avvolgenti e suggestivi, con risultati di eco, di fuga, di prossimità o lontananza, riverberando nello spazio la dolente rievocazione della Passione di Cristo, accompagnata da uno scarno tessuto strumentale, evocativo ed evanescente, a tratti addensato in nuclei più consistenti. La Tulve è riuscita a unificare e compenetrare in modo inscindibile il materiale storico e l'elaborazione contemporanea; articolata in mille episodi, la performance, come ritorta su se stessa, ha perseguito una costante circolarità e rimandi interni, quasi a sottolineare la coesistenza stratificata e persistente nella memoria di immagini, atteggiamenti e contenuti di varia natura, anche arcaici. Sotto la regia scenica di Marius Peterson, la musica e il libretto della Tulve hanno trovato un'interpretazione concentrata e partecipe delle parti strumentali e soprattutto del prevalente contesto vocale, affidato alla storica Cappella Marciana diretta da Marco Gemmani.

Ospitato in un'altra sede prestigiosa, la sala superiore della Scuola Grande di San Rocco, tappezzata dalle tele di Tintoretto, nella penultima serata di tutt'altro tenore è risultato Notwehr della belga Annelies Van Paris (1975), per due voci soliste, ensemble vocale e strumentale da Barca di Venetia per Padova, dilettevoli madrigali a cinque voci di Adriano Banchieri. Nel libretto di Gaea Schoeters, frammenti della suddetta raccolta di madrigali sono stati interpolati all'interno di una vicenda, tutt'altro che dilettevole, che accomuna due donne detenute in carcere per reati diversi, impersonate dalle due cantanti protagoniste. La diversa estrazione sociale mette in relazione le due carcerate e i viaggiatori che s'incontrano casualmente sulla barca.
In questo caso si è assistito alla difficile intersezione, quasi a una contrapposizione dialettica fra la gioiosa fonte storica cinquecentesca, timidamente reinterpretata dalle cinque voci del gruppo Venetiaeterna, diretto da Francesco Erle, e la composizione contemporanea intesa nel senso più classico del termine, vale a dire secondo una concezione un po' troppo eurocentrica e colta. Il testo, in lingua tedesca, era interpretato dalle ineccepibili Johanna Zimmer e Els Mondelaers, rispettivamente soprano e mezzo soprano, le cui voci hanno esaltato gli ampi spazi intervallari, le spigolosità, i glissando e le emissioni declamatorie previsti dalla partitura, mentre l'esile parte strumentale era a carico dell'Ermes Ensemble (trombone, flauto, violoncello, percussioni), in cui a tratti sono emersi in evidenza gli interventi dei due fiati. L'audace messa in scena, ad opera di Sjaron Minalo, ha previsto al centro della sala una gabbia metallica, sopraelevata e sapientemente illuminata, all'interno e all'esterno della quale si alternavano le movenze delle due cantanti. Il tutto, sia dal punto di vista musicale che scenico, è risultato nel complesso un po' artificioso e conflittuale, zeppo di simbologie non facilmente decifrabili, non sorretto da un respiro naturale, da un'essenziale concordanza.



Potremmo parlare di rappresentazione, non sacra bensì profana, direi antropologica, anche nel caso di Çiatu, scritto dal siciliano Paolo Bonvino (1968), che a cominciare dagli anni Novanta ha firmato numerose colonne sonore (da citare almeno quella di Caos calmo). E questo lo si è percepito chiaramente nella conduzione narrativa di Çiatu, termine che in siciliano significa "respiro" nel senso più ampio del termine, quindi anche "afflato vitale" o espressione di affetto, o "anima," come intesa da diverse culture religiose del mondo. Il percorso si è focalizzato in scene caratterizzate da accattivanti impianti melodici, per lo più lenti, evocativi e sereni, salvo accendersi in un episodio martellante di stampo minimalista e in un finale dai colori più vivaci e tonici, di chiara ispirazione folclorica.
Sempre in particolare evidenza la sezione vocale, recitata, sospirata, cantata con appropriate modulazioni, registrata o interpretata dal vivo da un trio di ottimi vocalist: il poliedrico soprano Rossella Ruini, il senegalese Badara Seck e il palestinese Faisal Taher, ma siciliano d'adozione. Pertinente l'esecuzione strumentale da parte di una decina di validi elementi, anche se in questo tipo di esperienze è da riconoscere un peso determinante anche al sound design e alla diffusione del suono. Altrettanto rigoroso, pacificante e quasi lezioso è risultato l'impianto scenico. Oltre ad un uso molto sobrio delle luci sugli interpreti, tutti in nero con abiti firmati Dior, e a un pianoforte verticale meccanico, che autonomamente a tratti azionava i suoi tasti e martelletti, lo sfondo accoglieva un allestimento dell'artista italo-tedesca Irma Blank: tre rettangoli verticali di luce azzurra, in una simmetria quasi neoclassica, erano animati da un "respiro," da una sfumatura, ora tenuissima ora appena più accentuata, che periodicamente dall'asse centrale si spostava ai bordi laterali dei riquadri.



Assai interessanti si sono rivelate due solo-performance elettroniche parallele, proposte da giovani compositori-performer: il senese Jacopo Cenni (1995) e l'ecuadoriana Tania Cortés Beccera (1993). Hunt di Cenni è un lavoro di teatro sonoro, per elettronica e lampade ad incandescenza, che parte da un presupposto simbolico: l'uomo-performer-demiurgo nell'oscurità della sala, immobile di fronte alla sua postazione di manovra elettronica, affronta una ricerca perenne, conflittuale e anche frustrante della luce-verità, rappresentata da una circonferenza di lampadine pulsanti e crepitanti al centro della quale è posto appunto l'operatore umano. Il contesto sonoro creato, mai banale, mai ripetitivo, stereofonico per la distribuzione di molteplici fonti sonore, e soprattutto l'interazione istantanea fra la gestualità del performer, il suono e l'accensione imprevedibile delle lampadine, hanno prodotto situazioni di grande impatto.
Come in una staffetta, Tania Cortés ha ricevuto il testimone dal collega che l'ha preceduta, iniziando Rizoma, la sua composizione performativa, con un fitto, elettrizzante scoppiettio delle lampade del cerchio esterno. Poi ha preso il sopravvento via via un affollato paesaggio sonoro fatto di voci, calpestii, rumori di lavori manuali, sibili... Si è concretizzata un'aggregazione vibrante, stratificata in veloce sequenza, provocando sorprese e sussulti a non finire nell'ascoltatore, che poteva riconoscere in questo magma percettivo situazioni della propria esperienza personale. Su uno schermo alle spalle dell'autrice, in simultanea sincronia con il percorso sonoro, scorrevano velocissimi frammenti di immagini in scansioni verticali.
Si presenta davvero incoraggiante e fresca la ricerca di questi autori non ancora trentenni, soprattutto perché propositiva e innovativa nell'uso disinvolto dei mezzi dell'attuale tecnologia.



Un'altra coppia di performance di autori altrettanto giovani è stata accomunata dall'interpretazione esaltante, estremamente espressiva del soprano Esther-Elisabeth Rispens, anch'essa giovane e messasi in luce in questi ultimi anni in varie occasioni, anche all'interno della stessa Biennale Musica. Relict, composto dal russo Daniil Posazhennikov (1994) su libretto e drammaturgia di Egor Zaytsev, ipotizza una possibile esperienza alienante dell'uomo alle prese con il linguaggio, un abnorme sviluppo del quale può portare a una situazione entropica, a una babele di suoni, fino alla perdita della funzione comunicativa propria del linguaggio stesso. Questo non comporta una regressione a una verginità primordiale, bensì un approdo a una nevrosi ossessiva e compulsiva dovuta alla perdita dell'identità personale. La cantante ha reso efficacemente questa condizione, inerpicandosi in una serie ripetitiva di fonemi archetipici, di sillabe, di suoni, secondo una metrica claudicante, conservando ben pochi frammenti di senso verbale e raggiungendo effetti grotteschi, paradossali, di grande virtuosismo vocale e teatrale.

In Still Drowsy invece, per voce, trio di percussioni e diffusione sonora, l'irlandese Timothy Cape (1991) pone al centro dell'attenzione l'uso della caffeina, considerata come la droga imperante e insostituibile del mondo capitalista, con tutte le conseguenze che ne possono derivare. La cantante, nelle vesti di un'impiegata, dapprima alle prese con la formulazione di una lettera commerciale che stenta a prendere forma, esausta decide di concedersi la tanto sospirata pausa caffè. Da qui l'azione si movimenta in un crescendo incontenibile con i tre bravissimi percussionisti di Ars Ludi, che agiscono anche come attori, una macchina per espressi che va continuamente in funzione emettendo sibili, mentre la sfrenata Rispens si agita fisicamente e vocalmente al limite della follia. Nel finale la performance assume toni parossistici, culminando nella liberatoria distruzione dell'arredamento dell'ufficio e nella doccia di autentico caffè che la cantante si versa addosso a più riprese. Sono risultati evidenti i contenuti paradossali e soprattutto allegorici, anche umoristici, di questa messa in scena; eppure i momenti finali hanno sollevato prospettive inquietanti... basterebbe pensare, molto realisticamente, a cosa porterebbe la sostituzione dell'eccitante caffeina con la sempre più diffusa cocaina!

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