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Bergamo Jazz 2013

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Bergamo Jazz 2013

Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea / Auditorium di Piazza della Libertà / Teatro Donizetti - Bergamo - 22-24.03.2013

Al secondo anno di direzione artistica, Enrico Rava ha confermato i suoi criteri di scelta, proponendo nomi noti da lui stimati o emergenti che lui stesso è interessato ad ascoltare. Bergamo Jazz 2013 ha presentato un giusto equilibrio fra gruppi americani e italiani, fra stimolante attualità - destinata a un pubblico più specializzato e ospitata per lo più nei concerti pomeridiani all'Auditorium di Piazza della Libertà - e consolidata tradizione, di maggior richiamo - concentrata prevalentemente nelle tre serate al Teatro Donizetti, che hanno registrato sempre il tutto esaurito. Si sono succedute proposte d'indubbia qualità, con punte eccelse ed uno scivolone forse evitabile: quell'Hermeto Pascoal che nelle sue apparizioni italiane dell'ultimo decennio ha irrimediabilmente deluso.

Un concentrato e applauditissimo set solitario di Marc Ribot ha aperto il festival nel pomeriggio del 22 marzo in una gremita sala della Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea (dove era allestita l'interessante mostra Pop, realismi e politica - Brasile-Argentina Anni Sessanta) . Nei suoi lunghi brani, caratterizzati da andamenti contrastati e dalla sonorità ronzante data dalle corde metalliche di una vecchia chitarra folk, omaggi ai temi di Ayler e Coltrane si sono saldati con le rintracciate radici popolari di quei temi medesimi (un'operazione stranamente analoga a quella realizzata dal nostro Paolo Botti in Angels & Ghosts). In altri momenti, veloci sequenze, limpide e ritorte, hanno affrontato una più densa ricerca sperimentale, lasciando comunque emergere temi e sviluppi di struggente melodismo, salvo poi destrutturarli a loro volta.

La programmazione al Teatro Donizetti si è aperta con il Dino & Franco Piana Septet, che ha confermato quanto esposto in Seven (Alfa Music, 2012). Le composizioni e gli arrangiamenti di Franco Piana hanno sempre tenuto sotto controllo gli andamenti, che hanno incluso i concisi assoli di ognuno dei membri; hanno ovviamente spiccato quelli brillanti di Fabrizio Bosso, ma sono da segnalare anche l'incedere smooth del tenore di Max Ionata e la rotonda pulsazione del contrabbasso di Giuseppe Bassi.

Ne è risultato un modern jazz che filtra con sensibilità, eleganza e swing alcuni momenti del jazz degli anni Cinquanta, soprattutto le trame colorate del West Coast, escludendo qualsiasi tendenza espressa dal jazz a cominciare dal free degli anni Sessanta fino ai nostri giorni. Revival allora? Non proprio, anche se si tratta indubbiamente di una visione che guarda con nostalgia a un certo passato. Operazione legittima comunque, condotta con classe, anche se la più interessante ricerca jazzistica attuale, sia italiana che straniera, si sta muovendo in altre direzioni.

Un esempio probante è la direzione indicata da Peter Evans, la cui apparizione bergamasca in trio non ha certo deluso le forti aspettative. Del trombettista americano ha colpito innanzi tutto la capacità di strutturare e reggere brani dilatati, in cui reiterazioni ritmiche e melodiche si addensano e sfaldano gradualmente, creando una sostenuta e continua tensione. A questa concezione compositiva sono risultati congeniali i contributi dei due partner, il contrabbassista John Hebert e il batterista Kassa Overall, i cui disegni puntigliosi, unitamente ad una forte motivazione, hanno evidenziato la compattezza dell'interplay e di conseguenza la statura della leadership di Evans.

Quanto alla sua pronuncia strumentale essa è apparsa allucinata, crepitante, mobilissima, quasi possibilista, dalla voce acidula e di enorme ricchezza timbrica; una pronuncia della quale non è facile individuare diretti precedenti e che si connette strettamente all'originale concezione compositiva. Evans si è imposto dunque come musicista completo e di forte personalità, rappresentando la presenza più innovativa ed esaltante del festival.

Come Evans, ma con mezzi e obiettivi diversi, Giovanni Guidi si è confermato autore e leader maturo e coraggioso, oltre a sviluppare un pianismo pensoso che ora si appiana in distensioni di una delicatezza disarmante ora si aggroviglia in evoluzioni rapsodiche. All'inizio della performance del suo quintetto ha sorpreso il basso livello dell'amplificazione, quasi un concerto cameristico in acustico, ma presto si è compreso che ciò faceva parte della visione estetica del leader: un intimismo minimale, ma con crescendo graduali che si andavano gonfiando a piccole ondate come le maree, fino a sfociare nei temi melodici decisi, esposti all'unisono con voci di vibrante lirismo. I temi appunto costituiscono un carattere distintivo dell'autore: temi già ben noti, ora dalla vena struggente e un po' malinconica, ora più mossi e danzanti di matrice ornettiana.

In alcuni brani sono stati praticamente assenti gli spazi solistici, essendo chiamati tutti i membri a tessere le progressioni lentamente, con interventi ridotti e flebili sussulti. La musica odierna di Guidi appare quindi estremamente rischiosa, in quanto propone delicate trame collettive, difficili da tenere costantemente in tensione. Se il risultato complessivo è convincente, raggiungendo nei finali dei brani culmini emozionanti, ciò lo si deve anche all'affiatamento con cui i membri del quintetto interpretano le intenzioni del band leader: la front line coniuga i timbri complementari del tenore di Dan Kinzelman e della tromba di Shane Endsley, mentre Thomas Morgan e Gerald Cleaver col loro lavoro attentissimo, ma frastagliato e insinuante, costituiscono una delle sezioni ritmiche oggi più richieste e attive proprio per le loro qualità intrinseche.

La prevalenza della scrittura, la dimensione collettiva, la compattezza dell'interplay con ruoli ben definiti per ognuno dei partner divengono ancor più determinanti nel quintetto di Mary Halvorson: le limpide pronunce dei fiati, il contralto di Jon Irabagon e la tromba di Jonathan Finlayson, si inseriscono con misura nel lavoro tramato dal contrabbasso di John Hebert e dal drumming freddamente organizzato di Ches Smith. Nella musica austera e rigorosa della bionda chitarrista americana, la cui pronuncia strumentale prende inflessioni oblique dai riverberi madreperlacei, gli aspetti melodici ben evidenti volgono verso astrazioni algide e gli slanci lirici vengono quasi banditi. Tutto è estremamente originale e coerente, ma le vincolanti griglie strutturali rischiano di diventare soffocanti; tutto si svolge perennemente e pericolosamente sul crinale dell'artificio intellettualistico, anziché perseguire una sintesi fra cuore e cervello.

Seguire il filo rosso della concezione compositiva e strutturale ci porta a valutare l'impostazione del nuovo quintetto di Tino Tracanna, che è parsa di una concretezza strutturale ineccepibile, particolarmente solida, ma più risaputa rispetto ai tre gruppi precedentemente recensiti (...e ciò è forse da mettere in relazione anche con la distanza generazionale, ancorché non marcata, fra i rispettivi leader). La nascita e l'esposizione dei temi ben caratterizzati si coniuga con il tipo di interplay, contrapponendosi agli spazi solistici, per altro trattati con la giusta concisione. Il leader ha privilegiato il soprano nei confronti del tenore e tutti i suoi partner si sono dimostrati all'altezza della situazione: Mauro Ottolini, Roberto Cecchetto, Paolino Dalla Porta e anche il meno noto Antonio Fusco alla batteria (la line up presente su Acrobats). Fra l'altro nei due brani finali si è inserito con efficacia e intelligenza il giovane pianista Seby Burgio, componente del trio Urban Fabula, che si era esibito subito prima.

Un discorso a parte merita Gregory Porter; a circa tre mesi di distanza dalla sua esibizione a Umbria Jazz Winter abbiamo avuto modo di verificare le impressioni ricevute su di lui, ottenendo sostanzialmente conferma delle qualità e dei limiti emersi a Orvieto. Egli ha infatti la fortuna/sfortuna di appartenere alla strana e difficile categoria dei cantanti: strana perché su di essa si puntano tutte le attenzioni del mercato, sempre spasmodicamente teso a trovare la nuova stella da consacrare, che possa rinverdire un'antica e gloriosa tradizione. Ma il business prende in considerazione esclusivamente chi non si discosta da quella tradizione appunto, garantendo lo spettacolo e risultando immediatamente comprensibile al grosso pubblico. Ci sarebbe da domandarsi allora, ma le risposte ci porterebbero lontano, perché mai cantanti come Dee Alexander, Eric Mingus, Leena Conquest e tanti altri, altrettanto profondamente radicati nella tradizione afroamericana, non possano avere le medesime opportunità di assurgere al ruolo di star.

Detto questo bisogna riconoscere che Porter, collegando tradizioni diverse come il Gospel, il Soul e il confidenziale canto crooner, manifesta doti indubbie. Su un repertorio composito e insolito, la sua voce dal timbro caldo e bronzeo possiede un timing efficace ed enfasi marcate. Fra i suoi accompagnatori, apparsi di gran lunga più quadrati e affiatati rispetto ad Orvieto, ha avuto modo di spiccare il contraltista Yosuke Satoh, che ha palesato una sonorità pigolante e un fraseggio pirotecnico dal drive fin troppo plateale.

Improvvisazione assoluta invece, ma sulla sottotraccia di famosi standard, è venuta dal duo Uri Caine (che fu direttore artistico delle edizioni 2006, 2007 e 2008 del festival di Bergamo) - Han Bennink, Sonic Boom, che vanta già un CD alle spalle: un'improvvisazione fortemente radicata nella storia del jazz, ma resa irruenta, eccessiva, quasi trasgressiva e a tratti autocritica. Il vero responsabile di tale approccio è stato il batterista olandese: il suo drumming ludico e fracassone, ma con una precisione ritmica perenne e swingante, non costituisce certo una novità, anzi da decenni rappresenta un classico; stupisce semmai che Han, superati i settant'anni, non abbia perso un grammo di vitalità, riuscendo a sostenere un ritmo frenetico senza alcuna sbavatura.

Come in altre occasioni in passato, egli ha proceduto imperterrito determinando la direzione del discorso e senza preoccuparsi troppo di dialogare con il comprimario. Caine da parte sua, per quanto immaginifico e padrone del pianismo jazz di ogni epoca, non ha potuto fare altro che adeguarsi; inizialmente un po' penalizzato acusticamente, ha potuto emergere con il suo fraseggio contrastato e dinamico solo quando, nel finale, Bennink ha in parte ripiegato nel ruolo di accompagnatore, per altro frizzante e stimolante.

A conclusione del festival, il duo ha lasciato il palco a un superclassico del jazz più comunicativo degli ultimi trent'anni: il John Scofield's Organic Trio. Un repertorio variato, uno swing incalzante e un sound sontuoso hanno dato senso e corpo a un'improvvisazione canonica, modulata su varie inflessioni melodiche e ritmiche. La fusione fra la chitarra del leader, l'organo Hammond di Larry Goldings e la batteria di Greg Hutchinson si è retta sulla definizione di ruoli, che si sono intrecciati e completati vicendevolmente.

Poco rimane da dire sui due rimanenti appuntamenti: l'Hermeto Pascoal Group e il giovane trio siciliano Urban Fabula. Tutto sommato il concerto del primo è risultato meno banale e insignificante di altre apparizioni italiane recenti. Si è verificata una sequenza abbastanza meccanica di temi vivaci esposti all'unisono, di colori brasiliani un po' cartolineschi, di effetti burleschi. Se i partner sono sembrati sufficientemente professionali, con una nota di merito per il pianista Andrè Marquez, punto debole del settetto si è confermata Aline Morena, cantante e compagna del leader, il quale, al di là di una maldestra regia, non ha certo fatto cose memorabili.

Urban Fabula (Seby Burgio, Alberto Fidone e Peppe Tringali rispettivamente piano, contrabbasso e batteria) ha proposto un jazz brioso e narrativo, che ha alternato fasi di decantata poesia e accensioni dai speziati sapori folklorici; non sono mancati tuttavia ammiccamenti non indispensabili, che hanno reso la proposta non particolarmente consistente.

Foto di Gianfranco Rota.


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