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Vinicio Capossela, cant(autor)ando fra jazz e tango

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Ho sempre avuto un debole per la tromba, soprattutto quella intimistica. Chet Baker è sempre stato il mio faro, così come Bill Evans fra i pianisti.
L'intervista che segue era uscita sul n. 697 di "Ritmo" (novembre 1995), quando un non ancora trentenne Vinicio Capossela aveva sfornato tre soli album, e la "mitologia" che oggi lo avvolge era ancora quasi tutta da costruire (per questo, magari, alcuni passaggi della stessa potranno apparire oggi quasi ovvi). La riproponiamo in occasione dell'uscita del suo nuovo album di inediti, Marinai profeti e balene, arricchita di alcuni passaggi attinti dalla trascrizione originale della conversazione.

Al primo impatto devo ammettere di non averne colto lo spessore. Vinicio Capossela era lì, sul palco del Teatro Ariston, apparentemente frastornato, in mezzo a un manipolo di fedelissimi contiani (Villotti, Marangolo...) per presentare il suo album d'esordio, All'una e trentacinque circa. Si era al Premio Tenco edizione 1990, e dopo il suo set me ne uscii con un "questo, ogni volta che canta, deve pagare i diritti d'autore a Paolo Conte" che non prometteva nulla di buono, sulla strada di un rapporto che invece, nel prosieguo, si sarebbe andato configurando come il più stimolante intessuto con un nuovo cantautore da vari anni a questa parte.

Già ascoltando di lì a qualche giorno il disco, per la verità, certe valenze avevano iniziato a rivelarsi. Intanto un "contismo" molto meno pronunciato di quanto il "contorno" di quella serata sanremese avesse fatto trasparire. Tom Waits, tango e jazz, e anche strani personaggi tipo un Ciampi o un Buscaglione, mi erano parsi anch'essi referenti da non sottovalutare, all'interno di una proposta che mostrava comunque notevoli tratti personali. La voce del Vinicio, soprattutto, biascicata, impastata, quasi "masticata". "Etilica," come l'avevo definita recensendo il disco, anche in rapporto alle succitate parentele. "E se poi Vinicio fosse astemio..?," mi domandavo.

Col tempo mi sarei accorto che no, Vinicio non era astemio. Era, per contro, un artista di fecondissimo talento - musicale, testuale e interpretativo - uno capace, nei due successivi album da lui partoriti, di porre l'ascoltatore sempre di fronte a qualcosa di nuovo, in parte anche sorprendente. Come l'intimismo solitario e sofferto di Modì, o il bizzarro mélange di umori dell'ultimo nato, Camera a Sud.

Capossela è tornato altre volte al Premio Tenco, in particolare nel '91, per ritirare la targa alla miglior opera prima assegnata a All'una e trentacinque circa e per presentare in anteprima il suo nuovo lavoro, appunto Modì, dedicato a Modigliani, livornese come Piero Ciampi, mentre Vinicio è reggiano-modenese, pur essendo nato ad Hannover da genitori di origine irpina. E' lì, al Tenco, che l'ho ascoltato sempre con grande piacere (nel '94 ha presentato una canzone dello stesso Luigi Tenco, poco nota, ma grazie alla sua sensibilissima interpretazione oggi scolpita nella memoria: "Se potessi, amore mio"), ma è soltanto questa primavera che sono finalmente riuscito a godermi un intero suo recital, prima del quale è anche avvenuta la conversazione qui di seguito riportata.

Partiamo dal jazz: come mai fra i musicisti che ti accompagnano, dal vivo e su disco, figurano così tanti jazzisti?

Secondo me esistono due tipi di approccio alla musica: o cresci nell'ambiente rock, oppure - com'è toccato a me - in quello jazz. Io ho imparato a suonare il pianoforte attraverso gli standard, con un jazzista come insegnante. Quindi sono partito di lì. Poi la prima cosa che ho fatto è stata cercare un contrabbassista, perché lo vedevo come il mio sbocco naturale. Le mie prime composizioni erano tutte in forma di ballad. In ogni caso di impostazione jazzistica. Stiamo parlando del 1990, l'anno in cui sono andato al Premio Tenco per promuovere il mio primo disco. La produzione era la stessa di Paolo Conte, e quindi anche vari orchestrali. Però mi sono portato il mio contrabbassista - Enrico Lazzarini, quello di cui parlavo prima, che suona con me tuttora - e il mio batterista.

Proprio Lazzarini è uno dei protagonisti del tuo ultimo album, così come i jazzisti a cui accennavo prima: Marco Tamburini, che suona con te fin dal primo disco, e poi Paolo Fresu, Antonello Salis...

Certo. Anche umanamente sono cresciuto di fatto fra la gente del jazz. Ho avuto modo di conoscerne molta. Reclutare in questa cerchia chi suonasse con me era del tutto naturale, cercando questo o quel solista a seconda del brano che avevo concepito. Se parliamo di trombettisti, per esempio, Tamburini ha una grande forza trainante soprattutto nei pezzi prevalentemente ritmici. Però in un brano intimistico come "Amburgo" (in Camera a Sud) ci voleva una tromba diversa: quella, appunto, di Paolo Fresu.

Ci sarebbe stato benissimo anche un Enrico Rava...

Infatti: il terreno è quello. Personalmente ho sempre avuto un debole per la tromba. Soprattutto quella intimistica, appunto. Chet Baker è sempre stato il mio faro, così come amo moltissimo Bill Evans, fra i pianisti. Per quanto riguarda Antonello Salis, l'ho ascoltato una volta in duo con Richard Galliano e ne ho tratto una grande impressione. E' un grosso musicista, con uno straordinario talento.

Al di là di quello per il jazz, mi pare che nella tua produzione siano riscontrabili, accanto a tratti evidentemente tuoi personali, alcuni altri amori. Inizio a buttarti lì due nomi: Tom Waits e Astor Piazzolla.

Ah, senza dubbio si tratta di due amori molto forti! Waits, soprattutto nel primo periodo, è stato a mio parere un grande artista jazz, perché ha coniugato quello che era l'ideale del beat, nel senso di Kerouac e soci, a cui del resto si rifaceva spesso anche in scena, nel suo stesso concetto di "performance". Soprattutto nel suo terzo album, Nighthawks at the Diner, il suo approccio era proprio quello di un grande jazzista della parola. E' un universo che personalmente mi affascina parecchio. Ad esempio amo molto Louis Prima. Mi sono sempre sentito attratto dalla figura del crooner, di colui che racconta, accompagnandosi col piano, con la band o con quello che vuoi. Credo che le sonorità naturali di questo universo siano proprio quelle del jazz. E poi c'è appunto il tango. Mi piace molto Piazzolla, e più ancora Roberto Goyeneche, che è stato il più grande cantante di tango dai tempi di Carlos Gardel. E' morto purtroppo di recente. Una grande recitazione tenorile, la sua.

Passiamo ad altro. Si potrebbe dire che, per quel particolare tipo di approccio che definirei "climatico," il tuo modo di proporti come cantautore, al di là degli amori di cui abbiamo appena detto, appare abbastanza francese, anche se sarebbe onestamente difficile fare un nome piuttosto che un altro, fra i grandi capiscuola. Esiste, questo amore?

Non espressamente. Tuttavia alla figura dello chansonnier - che è diversa da quella del cantautore, perché più poetica, più di cantante-attore - idealmente mi sento molto vicino, pur senza essermi mai addentrato in questo mondo, e quindi senza poter citare questo o quel nome. Certo, conosco i vari Brel, Edith Paif, Yves Montand, però ripeto che non li ho mai approfonditi. E' un umore che è nell'aria e che come tale io ho colto. E' un modo, secondo me, di vivere la canzone.

Parlando sempre di punti di eventuale riferimento, ascoltando il tuo primo disco - al di là della linea Conte-Waits, tutto sommato abbastanza battuta, almeno a certi livelli - mi era parso spontaneo fare altri due nomi, che poi in parte sarebbero venuti fuori anche loro come modelli per la nuova generazione di cantautori: Fred Buscaglione e Piero Ciampi.

In effetti li conosco a fondo tutti e due, e sono fra gli autori italiani che prediligo. Buscaglione, in particolare, mi è sempre parso un po' la versione italiana di Louis Prima, che come dicevo amo molto. C'è il problema che purtroppo questi modelli arrivano regolarmente in Italia molto filtrati, spesso sotto forma di macchietta. In fondo per questo, benché mi diverta molto, non sono mai riuscito a prendere del tutto sul serio Buscaglione. Ciampi è naturalmente molto più amaro, beffardo, ma in fondo di tratta quasi di due facce della stessa medaglia. Di lui ho sempre apprezzato l'estrema originalità.

Abbiamo fatto diversi nomi, e tuttavia colui al quale ti sei rivolto nel momento in cui hai deciso di tentare seriamente la carta della canzone è stato Francesco Guccini, alquanto lontano dalle coordinate che abbiamo fin qui tracciato.

In realtà io praticamente non lo conoscevo. Però, trovandomi in compagnia di una ragazza che era invece una sua grande fan, l'ho avvicinato, visto che d'istinto mi sembrava una persona per bene, per chiedergli se poteva consigliarmi qualche locale di Bologna a cui propormi, perché a Bologna non avevo mai suonato. Col tempo ho poi imparato ad apprezzare la sua vena di grande narratore, per rifarmi al discorso precedente. Comunque fin da allora, pur essendoci un abisso fra le mie cose e le sue, gliele ho fatte ascoltare e lui è riuscito evidentemente a trovarci qualcosa, tanto da farmi arrivare a Renzo Fantini, e così tutto è cominciato.

Chiudendo ancora con una nota jazzistica, mi parlavi prima del tuo apprendistato pianistico vissuto per il tramite degli standard. Ce n'è qualcuno che ami, o hai amato, in maniera particolare?

Voglio sorprenderti, citandoti, con grande piacere, uno standard italiano: "Estate" di Bruno Martino.

Foto di Claudio Casanova (la quarta).


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