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Otomo Yoshihide's New Jazz Ensemble

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Teatro Cavallerizza - Reggio Emilia - 10.11.2006

Quando un artista è talmente convinto della propria musica da dichiararlo apertamente sulla copertina di un disco è sempre bene prestare attenzione. Non sempre, ma spesso, capita di dover poi ammettere che - scripta manent - l’artista è stato lungimirante.

È stato ad esempio - e più di una volta - il caso di Ornette Coleman, che tra il ’58 e il ’59 è riuscito sul serio a dire qualcos’altro e ad indicare la forma del jazz a venire.

Come poter restare allora indifferenti ad Otomo Yoshihide, che infeltrisce e smaglia i suoi organici, ma conserva sempre e comunque un riferimento al ‘nuovo’?

Il passaggio al REC dell’Otomo Yoshihide New Jazz Ensemble - responsabile a Reggio Emilia di un concerto come sempre altamente godibile, anche se non tra i migliori offerti dall’artista giapponese - offre allora l’occasione per cercare di capire se e quale novità venga introdotta in questo fortunato e seguito progetto.

La questione potrebbe anche ridursi semplicemente ad una formalità sintattica: all’interno della denominazione del progetto, a cosa si riferisce esattamente quel ‘new’?

L’ipotesi più ovvia e immediata - nonché attraente - è che l’elemento di novità sostenuto da Otomo sia da legarsi alla componente strettamente musicale, lasciando intendere che qui si intende rinnovare la semantica ‘jazz’, o quanto meno offrire una prospettiva originale.

Il richiamo a tale semantica pare tuttavia voler ritagliarsi uno specifico quanto fortuito fondale entro cui muoversi per condurre un discorso ad essa particolarmente alieno; un richiamo che agisce per suggestioni linguistiche e strumentali e, soprattutto, di repertorio.

C’è probabilmente più jazz nell’inserimento in scaletta di un brano come Gazzelloni che non nel modo in cui l’ONJE lo propone, insomma.

Come da prassi oramai consolidata, Otomo alterna un campionario di brani tratti da un ben preciso immaginario jazzistico - Mingus, Haden e Dolphy in primis, oltre alla sigla del gruppo presa a prestito da Jim O’Rourke - alle proprie liquide e accidentate composizioni, che in genere testimoniano come la poetica del compositore giapponese ami bagnarsi in più d’un bacino, sovrapponendo stile, procedura ed effetto.

La musica proposta dall’ONJE si presenta come una docile protrazione in chiave distesa e rasserenante di quella thing che era new ormai decenni or sono, idealizzandola nel suo potere evocativo, operando quel processo di fissaggio memoriale e appiattimento dimensionale che si ha quando dalla visione diretta dell’opera d’arte si passa al bookshop per sfogliare il catalogo dell’esposizione.

Percorrendo a più riprese lo specifico immaginario di Otomo, che salda idealmente Takeo Yamashita a Song For Che, emerge il profilo di un impianto blandamente postmoderno che assembla cornici attorno a immagini sfocate dalla riproducibilità tecnica e semantica: scampoli di free forms, molte e molte aperture soniche di perforante profondità, senza assolutamente lasciar dubbi sulla provenienza dagli ambienti onkyo.

Musica oramai - certo non solo per Otomo - ridotta alla sua valenza di puro codice, avendo definitivamente perso il radicamento nella sua originaria matrice culturale; metabolizzata dalla prassi giapponese - ma qui mancano le prove antropologiche - di assimilazione culturale per riproduzione oleografica nella forma di pretesto: occasione per trattare altro attraverso un’interpretazione pregressa.

Un’altra eventualità è che l’elemento di novità sia da collegare al fattore ‘ensemble’.

Dalla fine degli anni ’90 Otomo ispessisce e contrae il tratto con cui scrive la storia del progetto, capace di esprimersi indistintamente in formule più o meno ampie e variabili dal quintetto con ospiti alla piccola orchestra, passando appunto per le varie incarnazioni dell’Ensemble.

Prassi non esattamente originale, quella di riprendere un certo repertorio variando l’entità (poco la qualità) dell’organico, che ad esempio riesce assai meglio al monumentale Masada di John Zorn.

Laddove l’americano riesce a nobilitare una scrittura risicata esaltandone le potenzialità latenti con sfumature (quasi) differenti originate da differenti contesti, il giapponese ripropone i propri prestiti e le proprie creazioni in maniera sostanzialmente univoca, intervenendo sulla retinatura della trama più che sulla composizione dell’ordito.

L’ensemble mescola suoni e suggestioni alla stessa stregua: la chitarra ora lacerante ora tutta aggricciata che Otomo maltratta pinzando e strusciando; i tenui colori propagati dall’impressionistico vibrafono di Kumiko Takara o il solido baricentro cinetico costituito dalla solidale combutta fra il sax speziato di Alfred Hart e quello chirurgico di Kenta Tsugami; le spinose incursioni di Sachiko M, eventi periferici come le macchie sottili che s’intravedono nell’umore oculare, frapposte inconsistenti alla visione, che passa loro impietosamente attraverso se non si limita ad esse perdendosi il quadro.

Il suono generato appare oltremodo viscoso, ma tende a preferire repentine sfaldature e ridimensionamenti, tagliando voci e lasciando spazi per dialoghi più intimi, come quando l’improvvisazione collettiva viene condotta da Otomo sulla scorta di un esile linguaggio gestuale.

Una novità intrinseca, insomma, sfugge all’ascolto.

Rimane, come sempre, il trasporto per un’esibizione in cui i volumi, l’impatto e la coesione sanno coinvolgere e soddisfare pienamente. Al di là della sostanza, in fondo (e anche qui non è una novità) secondaria.

Rimane la possibilità che l’idea che si andava cercando facesse riferimento ad un ‘nuovo’ Otomo.

In realtà, più che nuovo, quello che guida l’ONJE è solo uno dei tanti Otomo, che in questo contesto compila la sua predilezione per il collage sonoro, forse solo a tinte più tenui.

Poliedricità di un personaggio ardito e ardente, a proposito del quale recuperiamo un appunto preso ai tempi della Biennale di Venezia edizione 2003, quella fe/astosa e altale/isonante di Uri Caine:

Un messaggio di speranza: per noi, Caine e la musica contemporanea, al di là di gusti e retorica. Otomo Yoshihide, unico artista presente a questa Biennale a non possedere diritto di cittadinanza in un festival di musica contemporanea. Semplicemente Otomo è oltre la contemporaneità. Per linguaggio, concezione, fruizione della sua musica. Posto sia lecito ragionare ancora in questi termini. Esperienza vibratoria, è probabilmente una buona approssimazione della sua performance. Amniotica chiusura in se stessi. Totale abbandono del corpo, ricettacolo universale. Otomo, paradossalmente, proclama senza urlare. Con lui si realizza il postmoderno, quello vero: l’oltre la modernità. Speriamo.

Foto di Emiliano Neri [ulteriori immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini]


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