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Ornette Coleman Quartet - Dave Holland Quintet

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Padova Porsche Jazz Festival [recensione del concerto di Michael Blake]

Teatro Verdi - 23-24.11.2006

Sottolineava acutamente il sassofonista e direttore artistico Claudio Fasoli [per leggerla clicca qui, nel presentare a AllAboutJazz il programma di questa fortunata edizione 2006 del Porsche Jazz Festival di Padova, come la scelta di inserire in cartellone Ornette Coleman e Dave Holland fosse in un certo senso accomunata dalla qualità di entrambi di fare evolvere il linguaggio jazzistico, cosa evidente nel caso di Coleman, ma ben presente anche, specie a livello ritmico, nell'idioma più tradizionale del contrabbassista inglese.

Di fronte a due nomi di questo livello il pubblico al Teatro Verdi non si è fatto aspettare e ha accolto con straordinario calore entrambe le formazioni.

Quello di Ornette Coleman è un concerto che va in un certo senso a chiudere quel cerchio ["with the hole in the middle"] tracciato dalle memorabili serate in terra emiliana di poche settimane prima. Come a Reggio Emilia e a Modena, Coleman ha presentato un repertorio prevalentemente tratto dal suo recente Sound Grammar, per una musica che alterna temi frenetici a ballads di un lirismo a tratti sconvolgente.

I due bassi, quello acustico di un impeccabile Tony Falanga e quello elettrico di Al McDowell, sono perfettamente fusi in una rete ritmico-armolodica che nemmeno le incongrue bordate di Denardo alla batteria [fortunatamente meno invadente di altre volte nella serata padovana] scalfiscono nella sua materica funzionalità. Su questa base Ornette ha innestato come al solito il suo linguaggio tagliente e scintillante al contralto, di invidiabile nitore timbrico, dando spazio anche alla tromba e, in misura minore, al violino.

La musica di Ornette è ormai distillata nei suoi elementi essenziali, cui non abbisogna altro: le frasi, inconfondibili, pronte a piegarsi in ogni attimo al continuo divenire sonoro, la meravigliosa asciuttezza con cui ogni dettaglio viene fatto rotolare dentro l'altro rendono ogni concerto del sassofonista texano un'esperienza di rara intensità. Il concerto si è chiuso come previsto con una emozionante versione di "Lonely Woman", alla quale, per l'insistenza del pubblico, Coleman ha fatto seguire una rapida "Turnaround" prima di congedarsi.

Diversi motivi di curiosità hanno accompagnato anche, la sera successiva, l'esibizione del quintetto di Dave Holland: il forfait del vibrafonista Steve Nelson ha infatti permesso l'innesto nel gruppo del pianista Jason Moran, artista la cui sensibilità creativa non lascia in partenza dubbi sulle potenzialità di un inserimento anche all'interno di una formazione così collaudata.

In realtà il concerto di Holland, basato sulle composizioni dei dischi più recenti, ha evidenziato una certa stanchezza creativa, fattore che non si è tanto manifestato nell'impatto della serata - la musica è stata infatti accolta con entusiasmo dal pubblico - ma che chi ha seguito negli anni le vicende del quintetto ha forse scorto da una serie di dettagli.

La formula, sebbene evoluta, è quella ormai collaudata: i temi di Holland sono veicoli efficaci per la grande fantasia dei solisti e la carica ritmica connota progressivamente l'andamento dei brani. Il trombonista Robin Eubanks e il sassofonista Chris Potter sono tra gli improvvisatori più fantasiosi e travolgenti di cui si possa disporre, ma si è avuta talvolta l'impressione di assoli troppo lunghi, in un'ottica da jam session che una scrittura articolata come quella di Holland è solitamente in grado di superare agevolmente.

In realtà è come se la mancanza del vibrafono abbia tolto profondità alle architetture del quintetto: Moran ha suonato ottimamente, producendosi in assoli mai banali, ma nell'impasto complessivo l'assenza di Nelson ha spostato pesantemente l'asse ritmico sul versante del puro groove, fattore che sia Holland che il muscolare batterista Nate Smith hanno cavalcato in modo spesso eccessivo, scivolando verso più prevedibili toni da jazz-rock, divertenti e impeccabili, ma forse riduttivi per una musica che proprio sulla mobilità delle sue parti interne ha un punto di forza. Comunque un gran bel sentire.

Foto di Nicola Bonetto


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