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Nuove possibilità per me stesso - intervista a Libero Mureddu

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Non sono interessato alla complessità fine a se stessa, né all'intelletualizzazione eccessiva della musica, quanto a trovare nuove possibilità per me stesso.
Libero Mureddu è un pianista e compositore, ma non solo, che cerca attraverso la musica - prima di ogni cosa - di essere se stesso. E lo fa attraverso una serie di esperienze lontane per approccio e forma, e personali dal punto di vista della singolarità e della voglia di allargare perimetri espressivi ed emozionali. Lo abbiamo scovato in Finlandia, alle prese con sperimentazioni strumentali, algoritmi applicati agli spartiti, e interessi di vario genere. Il tutto per un profilo decisamente distante dai luoghi comuni e dalle banalità concettuali.

All About Jazz: Questa intervista doveva essere realizzata un anno fa, poi cosa è successo?

Libero Mureddu: Tante cose, tutte legate al lavoro e al fatto di essere tornato in Finlandia dopo una parentesi in Italia tra il 2007 ed il 2009. Il tempo è semplicemente volato via, niente di particolare, just "normal" life. Grazie di questa seconda possibilità!

AAJ: Perché ti trovi in Finlandia?

L.M.: Sono arrivato in Finlandia nel 2003, come studente Erasmus, e ho deciso immediatamente di restare. Dopo aver finito il corso di Composizione a Milano mi sono iscritto al Music Technology Department dell'Accademia Sibelius dove sto per finire, finalmente, il Master's of Music.

AAJ: Com'è lì la scena musicale e in particolar modo quella jazzistica?

L.M.: La scena musicale è incredibilmente ricca, sicuramente caratterizzata da un'eccellente preparazione dovuta al famoso sistema scolastico finlandese (considerato il migliore del Mondo), da una grande curiosità e apertura e, fondamentalmente, da una grande serenità. I musicisti sono assistiti finanziariamente dallo Stato durante i loro studi, anche durante i loro eventuali studi all'estero. Fare il musicista è inoltre un'attività molto rispettata socialmente; la Finlandia è piccola e quindi nella scena musicale (mi viene da dire in generale) ci si conosce tutti. La scena jazzistica, che conosco un po' meno rispetto a quella della musica classica, è sicuramente caratterizzata da una profonda conoscenza della tradizione, e allo stesso tempo da una buona apertura rispetto ad altre realtà musicali. La musica improvvisata e il free jazz non sono particolarmente diffusi e la mia impressione è che la scuola finlandese sia piú americana che europea, piú newyorchese che norvegese, per intenderci. I musicisti, comunque, sono molto preparati, professionali e aperti a nuove esperienze.

AAJ: Partiamo dalla fine. La tua ultima composizione "Impromptu," per orchestra d'archi, è stata eseguita dall'Orchestra Soidaan all'Università di Helsinki nel festival Soivat Kaupungit - Sounding Cities 2012 e costituisce un ulteriore approfondimento del rapporto tra improvvisazione e musica classica. Ce ne vuoi parlare?

L.M.: In passato sono stato contrario alle commistioni tra musica scritta e improvvisazione, ma negli ultimi anni ho leggermente cambiato idea. In particolare, mi interessa creare delle reti di regole che lascino al musicista una certa libertà e allo stesso tempo lo forzino a eseguire una certa idea musicale nel modo che desidero, usando altre strategie in aggiunta alla notazione musicale. Ho trovato qui molti musicisti classici (quasi tutti) assolutamente disposti a mettersi in gioco in questo senso. In "Impromptu" le costrizioni erano queste: il brano sarebbe stato provato solo tre volte da un'orchestra semi-professionale. Dovevo quindi scrivere un brano il più facile possibile senza rinunciare alla complessità sonora della musica contemporanea.

Il modo più semplice per ottenere questo era e il rinunciare a un po' di precisione ritmica a favore di una limitata libertà. In questo modo ho anche ottenuto da parte dei musicisti la giusta intenzione musicale invece di un'esecuzione rigida. In un senso più generale il brano è fortemente ispirato, idealmente, da alcuni brani della tradizione classica legati, molto indirettamente a dire il vero, all'improvvisazione, in particolare gli "Impromptus" di Franz Schubert. Quello che volevo conservare nel mio brano di questa musica è la sua apparente fluida semplicità, in cui le idee sembrano susseguirsi con la naturalezza di un'improvvisazione e allo stesso tempo volevo io stesso forzarmi a comporre seguendo il flusso delle mie idee piú che una pianificazione a priori. Come sempre il risultato è stato in realtà un misto di tutti questi approcci.

AAJ: Dal rapporto tra improvvisazione e musica scritta, sia in senso strumentale che attraverso algoritmi creati al computer, derivano le composizioni "Movements in Possible Histories". Di cosa si tratta?

L.M.: Si tratta di composizioni basate su una serie di frammenti composti da me. Ognuno di questi frammenti contiene anche una serie di regole per permettere al musicista di improvvisare in un modo coerente con il frammento. Il musicista deve anche collegare i diversi frammenti, spesso molto diversi tra loro, nel modo più graduale possibile, seguendo anche in questo caso una serie di regole precomposte. L'ordine finale dei frammenti viene deciso da un software che, in maniera algoritmica, segue un processo simile, con la differenza che la parte improvvisativa è convertita in una casualità controllata attraverso delle catene di Markov. In aggiunta a questo, i suoni degli strumenti sono elaborati in real-time da una serie di effetti a loro volta programmati per seguire in maniera organica i diversi materiali musicali e le loro trasformazioni. In un'ultima versione, il software che si occupa della scelta dei materiali è stato sostituito da un direttore d'orchestra che segue una partitura basata sullo stesso concetto.

AAJ: Sembra un procedimento molto complesso.

L.M.: In parole semplici "Movements" è uno studio continuo del rapporto tra lo sviluppo di un materiale musicale, la creatività del musicista e la generazione di regole - anche attraverso l'uso del computer - usate come mezzo per allargare lo spettro delle scelte operate dal musicista. Collegare diversi materiali musicali può essere fatto in infinite modalità: a me interessa, come improvvisatore e compositore, trovare scelte a cui non avevo pensato e uscire dalla gabbia di quello che conosco e che le mie dita possono creare quasi automaticamente. Su un altro livello queste composizioni esplorano anche il rapporto tra forma musicale e i suoi elementi costitutivi, quanto un certo materiale debba durare, quanto può essere esteso, come creare relazioni interne a vari livelli tra i vari materiali. Sembra molto complesso e astratto, ma non è cosí! Non sono interessato alla complessità fine a se stessa, né all'intelletualizzazione eccessiva della musica, quanto a trovare nuove possibilità per me stesso.

AAJ: Nel tuo percorso di compositore e musicista c'è l'esplorazione delle possibilità dello Yamaha Disklavier, un pianoforte meccanico controllabile dal computer. A che punto è la tua ricerca?

L.M.: La ricerca è in realtà appena iniziata: ho finalmente deciso, dopo anni di titubanza, di studiare due linguaggi di programmazione. Ho provato vari metodi per evitare di iniziare qualcosa di cosí complesso, ma tutti i vari tentativi sono falliti: la mia idea musicale consiste nel creare composizioni in cui i tasti del pianoforte siano delle voci indipendenti, e per controllare 88 voci - che seguono ritmi e dinamiche individuali - è necessario programmare degli algoritmi, la quantità di informazioni è semplicemente troppo grande per essere gestita nel dettaglio senza il computer, mentre è un lavoro assolutamente adatto a essere realizzato con un linguaggio di programmazione. Il Disklavier è uno strumento incredibile, perchè associa alle possibilità timbriche del pianoforte acustico il poter creare un linguaggio musicale estremamente complesso, ineseguibile da un esecutore umano, sebbene non sia di sicuro questa impossibilità il mio interesse principale. Ho recentemente realizzato un concerto in cui ho suonato musiche di Nancarrow, Tenney e due mie trascrizioni di due studi di Ligeti per il Disklavier, mentre altri brani venivano eseguiti da un vero pianista, e il risultato è stato molto interessante e in un certo senso connesso con i miei ultimi lavori, attraverso le connessioni tra le possibilità offerte dalla macchina e quelle offerte dal musicista.

AAJ: Il tuo modo di approcciare la materia musicale in maniera così innovativa da quale tipo di esperienze deriva?

L.M.: "Innovativa" è una parola così grossa! Ho fatto tante esperienze nella musica, ho suonato pop, jazz, musica classica, musica contemporanea, elettronica, improvvisazione, ho lavorato come pianista, compositore, fonico, arrangiatore, produttore, copista. Purtroppo e probabilmente non ho mai imparato a fare niente veramente bene, ma di certo ho una buona praticità con il fare musica nel senso più ampio. Dentro di me c'è comunque una distinzione tra quello che faccio per lavorare e quello che mi interessa intimamente. Il secondo non è legato a nessuna necessità quotidiana, ed è basato su una ricerca personale. Non so se il mio sia un modo innovativo, veramente non ci penso. Quello che cerco è di essere me stesso, di seguire quello che credo essere interessante a prescindere da quanto tempo possa essere necessario per realizzarlo.

AAJ: Cosa c'è oggi nel mondo musicale che si può considerare nuovo?

L.M.: Non lo so. Ci sono molti approcci diversi. Per esempio nel campo della musica elettronica non accademica, ma i risultati non mi sembrano ancora convincenti. Allo stesso tempo sembrano esserci enormi e quasi illimitate possibilità, ma non ho ancora visto qualcosa che sia allo stesso tempo nuovo e destinato a durare e quindi a incidere radicalmente nel modo di fare musica.

AAJ: Pensi che il futuro del jazz sia inevitabilmente indirizzato verso l'utilizzo dell'elettronica?

L.M.: Credo che innanzitutto bisognerebbe definire che cosa sia il jazz adesso. Ci sono molto forme espressive basate sull'improvvisazione, in molte realtà underground, ma l'assenza di un linguaggio e di strumenti condivisi le rende incapaci di incidere oltre il livello dell'avanguardia. Credo anche che il jazz sia in parte tuttora basato su un sistema armonico / ritmico condiviso, o almeno su di un background comune tra i musicisti, su un certo contesto. L'uso dell'elettronica di per sé non è così importante. Forse stiamo assistendo al principio di un grande cambiamento stilistico, dove nuove forme sostituiranno gradualmente quelle precedenti, per adesso posso dire che il tutto mi sembra sia caratterizzato da una nuova semplicità, il che è successo già nel passato. A volte penso che gli stili cambiano in un modo difficile da percepire al momento, solo a posteriori la percezione del cambiamento diventa chiaramente comprensibile e a posteriori sembra che tutto sia avvenuto molto in fretta e in maniera radicale.

AAJ: Credi che il passaggio di testimone tra il supporto fisico e la "musica liquida" cambierà anche il modo di proporre musica?

L.M.: Probabilmente sì. Sono onesto, non sono un grande sostenitore della fine del supporto fisico e dell'avvento del digitale in genere. L'atteggiamento di alcuni a volte mi sembra rappresentare l'ultima frontiera del consumismo più estremo, l'avere tutto, subito e gratis. Dall'altra parte la commercializzazione estrema della musica degli ultimi decenni ha ridotto la musica a merce. La situazione è complessa, non ho risposte precise in merito.

AAJ: Come vivi questo cambiamento?

L.M.: Io sono nato con i vinili, e comprare un disco voleva dire ascoltarlo fino a conoscerne i piú piccoli dettagli. In Finlandia la gente ascolta su iTunes, Spotify, ma anche CD, noleggiandoli nelle fornitissime biblioteche. Il download illegale non è così diffuso, e la locale Società degli Autori tutela veramente il lavoro degli artisti. Nei miei sogni vorrei ci fosse in futuro la possibilità di realizzare musica sperimentale e di qualità ad alto livello, usando studi di registrazione professionali, non dovendo come musicista sempre spendere più della metà del proprio tempo in cose che non hanno niente a che fare con la musica. Probabilmente è impossibile, e si sta andando nella direzione opposta.

AAJ: Tra i tuoi interessi ci sono anche le installazioni audio-video. È un'attività costante?

L.M.: Non veramente, ma potrebbe diventarlo nel futuro. Quello che mi interessa è il rapporto con il pubblico; rapporto che è diverso rispetto alla situazione del concerto. Mi interessa sperimentare l'interattività, a patto che il contenuto musicale e artistico sia originale e di alto livello. Gli strumenti per realizzare installazioni interattive sono veramente alla portata di tutti, sono economici ed è bello lavorare in un ambiente diverso da quello puramente musicale.

AAJ: Sei produttore del NYKY Ensemble, un gruppo nato sotto l'egida della Sibelius Academy di Helsinki e costituito da studenti dell'accademia stessa. L'ensemble esegue regolarmente una serie di concerti di musica contemporanea da camera sotto la guida di insegnanti diversi, specializzati nel repertorio contemporaneo. In che modo e quanto tempo dedichi a questo progetto?

L.M.: Sono il produttore dell'Ensemble, non decido i programmi, ma mi occupo di tutto il resto, reclutamento dei musicisti, delle partiture/parti, organizzare il calendario delle prove, la pubblicità, fare lo stage manager, seguire le prove. È un lavoro a volte estremamente stressante, ma mi ha insegnato tanto, su come si gestisce un gruppo numeroso di persone, su come ridurre lo stress, sui rapporti interpersonali. In più posso vedere da vicino come i musicisti provano le più svariate partiture contemporanee, le loro difficoltà, il che è sempre utile, come compositore. Dedico circa due ore al giorno al progetto, anche se in prossimità dei concerti dedico tutto il mio tempo: ogni dettaglio non seguito può essere potenzialmente un piccolo disastro, e il mio compito è cercare di ridurre al minimo i possibili problemi. Sono comunque fiero del lavoro svolto, l'Ensemble comincia a essere conosciuto e gli ultimi concerti hanno registrato una più che buona affluenza di pubblico, il che per la musica contemporanea non è una cosa così ovvia.

AAJ: A che punto è l'attività con il Chant Trio, con Cristiano Calcagnile e Antonio Borghini?

L.M.: Al momento il progetto è fermo, spero veramente che si riattivi nel futuro prossimo.

AAJ: Antonio Borghini l'ha definita un'esperienza tra le più forti e significative. È così anche per te?

L.M.: Assolutamente sì. È difficile da descrivere la portata dell'esperienza con lo Chant Trio, veramente difficile. Totalizzante, esilarante, commovente, divertente, sperimentale, ecco forse la descriverei così. Aggiungo solo che per me suonare con un batterista vuol dire suonare con Cristiano e suonare con un bassista vuol dire suonare con Antonio!

AAJ: Il trio si è distinto come una delle più convincenti realtà capaci di staccarsi dalle consuetudini del piano trio. Come si elude un canone così radicato?

L.M.: Non credo che ce ne siamo staccati in realtà! Il piano trio ha sempre rappresentato una formazione capace di sperimentare i più diversi equilibri. Però credo sicuramente che con lo Chant Trio abbiamo cercato di mettere sullo stesso piano i tre strumenti, senza che ci fosse un ruolo particolarmente predominante del pianoforte o delle tastiere. Ci siamo anche concentrati sul suono complessivo del gruppo, attraverso l'uso delle tastiere, del basso elettrico, con gli arrangiamenti. Ma credo che dentro tutti noi tre non ci fosse l'idea di scardinare il canone del piano trio, ma solo di rappresentarlo a modo nostro.

AAJ: Che utilizzo fai dello studio di registrazione? È un elemento che interagisce con il processo compositivo?

L.M.: Con lo Chant Trio sì, credo le nostre produzioni siano fortemente influenzate dall'utilizzo estensivo che abbiamo fatto dello studio di registrazione, le sovraincisioni, l'editing, il missaggio.

AAJ: Per descrivere il tuo modo di suonare il piano, potremmo usare l'aggettivo "nervoso"?

L.M.: Forse sì, ma è qualcosa che non mi appartiene piú, nell'ultimo anno ho cercato di eliminare questa caratteristica, semplificando il linguaggio, usando meno note.

AAJ: Sul tuo Facebook troviamo tuoi post riguardanti musica dei Beatles, ma anche di Beethoven. I tuoi ascolti che traiettorie seguono?

L.M.: Le stesse dei miei studi, seguono le musiche che mi interessano e che mi piacciono. Sicuramente tanta musica classica, probabilmente oggi molto di più della musica contemporanea. Giocherò a fare l'eclettico: negli ultimi giorni sto riascoltando le musiche composte da Tim Follin per i giochi del Commodore 64. Seriamente, lo considero uno dei compositori piú interessanti che ho ascoltato recentemente. Ha scritto tantissimi piccoli capolavori, perfetti nella loro forma ciclica (la musica, a un certo punto, deve ricominciare dall'inizio, all'interno del gioco), utilizzando una tecnologia ridotta all'osso, ma riuscendo a convogliare un'espressivitá impressionante. E poi sto riascoltando tanto Webern.

AAJ: A quale progetto ti dedicherai prossimamente?

L.M.: L'estate la passerò a studiare il finlandese e la programmazione. Dal prossimo autunno voglio sicuramente riprendere a suonare, e mettere un po' la composizione in secondo piano, vorrei per la prossima estate avere pronto il mio trio finlandese, ho già trovato i musicisti. Negli ultimi anni ho scritto alcuni brani che vorrei suonare con questo trio, la caratteristica comune è forse il fatto che armonicamente sono molto consonanti sebbene non necessariamente tonali, ci sono molte parti scritte, ma gli assoli sono quasi sempre liberi.

AAJ: Oltre che per la musica, non ti fai mai mancare il tempo per cosa? O chi?

L.M.: D'estate a Helsinki è letteralmente un crimine non avere il tempo di andare al mare, nei parchi o nelle terrazze dei bar, quando finalmente c'é il sole e fa "caldo"! A parte la musica ci sono gli amici, che sono la cosa piú importante che si possa avere.

Foto di Anni Laukkanen (la prima), Jan Ahlstedt (la seconda), Egle Oddo (la terza e l'ottava), Roberto Cifarelli (la quarta, la quinta e la settima).


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