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Lorenzo Frizzera

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Quando suono vado totalmente a orecchio, nel bene e nel male. È una scelta: preferisco usare la mia energia in senso espressivo e creativo piuttosto che in modo intellettuale.
Folgorato sulla via del jazz durante un workshop con Pat Metheny nel 1991, Lorenzo Frizzera è arrivato da non molto alla realizzazione del suo primo album da leader: Everything Can Change. Nel frattempo c'è stato uno studio e una ricerca costante in ambito musicale, che lo ha portato ad avere una concezione ben precisa del suo modo di improvvisare e comporre, al punto da riversare le proprie forze anche in un recente disco di solo chitarra. Non ha intenzione di fermarsi, vedremo quale sarà il suo cammino, ma certamente da uno che ha in playlist i King Crimson quanto Pierluigi da Palestrina ci si può aspettare di tutto.

All About Jazz Italia: Raccontaci come è andato il primo incontro con la chitarra e con il jazz.

Lorenzo Frizzera: Ho iniziato a suonare la chitarra a nove anni, seguendo le orme dei miei tre fratelli maggiori: litigavamo spesso per poterla suonare, poi un giorno i miei genitori hanno comprato una chitarra tutta per me e così, tra una costruzione con i Lego e un giro in bicicletta - a cui avevo naturalmente applicato una carta da gioco sui raggi per avere l'effetto "motore" - ho iniziato a suonare i brani della musica che allora preferivo: gli Eagles, gli America, Neil Young e John Denver. Il jazz è venuto più tardi: avevo quattordici anni ed ero totalmente assorbito dal fingerpicking di Jorma Kaukonen, Leo Kottke e Gary Davis quando uno dei miei fratelli tornò da Padova, dove studiava, con due LP Nice Price: uno era un bootleg con B.B. King su un lato e Pat Metheny sull'altro (nei bootleg succede di tutto), l'altro era The Wes Montgomery Trio, il terzo disco di Wes. A distanza di anni mi impressiona molto constatare quanto di quello che suono oggi sia in fondo una fusione di questi tre differenti stili chitarristici. Forse sarà un caso, mi piace pensare che non lo sia e mi rendo conto di quanto abbia influito sul mio percorso musicale la vivacità musicale dei miei fratelli. Li ringrazio di questo, oltre che degli infiniti passaggi in macchina che mi davano quando iniziai a suonare nei locali, a quindici anni.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione?

L.F.: Ho frequentato tre anni una scuola privata di chitarra classica, poi un paio d'anni di lezioni da due differenti insegnanti di chitarra jazz e infine l'ultimo anno del CPM di Milano, dove mi sono diplomato quando avevo diciassette anni. In seguito ho frequentato vari workshop di specializzazione a Ravenna, Siena, Perugia e Milano.

AAJ: Quando hai capito di essere diventato musicista a tutti gli effetti?

L.F.: Durante un workshop tenuto da Pat Metheny a Ravenna nel 1991 ho avuto la fortuna di ricevere i suoi consigli. Suonammo assieme qualche minuto e al termine mi fece i complimenti e mi disse che ero "un chitarrista al 90%". Inoltre mi disse esplicitamente che avrei fatto bene a pensare di diventare un musicista professionista, se già non lo avevo considerato. Tornai a casa incredibilmente felice, ma anche impaurito: l'idea di fare della musica una professione non era ancora matura dentro di me. Poche sere dopo ero nel mio letto e pensavo guardando il soffitto della mia stanza: "Se lo dice anche Pat Metheny ci deve davvero essere qualcosa di bello nel mio modo di suonare". Così quella sera pregai Dio di proteggermi e decisi che sarei diventato un musicista.

AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?

L.F.: Il progetto principale è quello legato al mio trio con Heiko Jung alla batteria e Matthias Eichhorn al contrabbasso: ad oggi è la mia formazione ideale nella quale posso esprimere la mia vena compositiva e improvvisativa potendo contare su una sezione ritmica energica e vivace. Quando suoniamo assieme provo sempre qualcosa di realmente intenso, profondo. Inoltre ho appena pubblicato il mio disco di solo chitarra, in cui suono alcune mie composizioni per chitarra acustica, classica, chitarra preparata e live electronics. A parte i miei progetti, però, amo collaborare con altri musicisti ed entrare nel loro mondo musicale, confrontarmi e scoprire cose nuove. Così da tempo suono con gli Organ Logistics dell'organista Alberto Marsico, una formazione di jazz più tradizionale, e con il batterista Carlo Alberto Canevali nel duo Godzilla in Wonderland, un progetto di ricerca nell'ambito dell'improvvisazione libera.

AAJ: Il tuo album in trio Everything Can Change contiene nove brani originali. Come si è sviluppato il processo compositivo?

L.F.: Mi spiace farne sempre un aneddoto, ma è andata davvero così: una sera ero stanchissimo, ma nonostante questo andai a sentire il concerto di un musicista di fama mondiale. Durante il concerto mi addormentai, probabilmente per la stanchezza, ma anche per la noia: era un musicista tanto impeccabile quanto cerebrale, come spesso accade ai musicisti jazz. Al ritorno decisi che avrei realizzato un CD con le mie composizioni poiché, con presunzione, ritenevo che non sarebbero state più noiose di quelle che avevo appena sentito. Il giorno dopo cominciai a scrivere i brani, alla media di uno ogni due giorni, e dopo circa un mese avevo quindici composizioni. Mi impegnai a scrivere brani di una pagina, massimo due: brani semplici che seguivano il canone jazzistico tema/improvvisazione/tema. Poi, con l'aiuto di Heiko e di Matthias, durante le prove e i concerti di preparazione alla registrazione, ho scartato sei brani e sono rimasti i nove che ci sembravano più efficaci. Il risultato è un primo passo di cui vado fiero, vista anche la partecipazione di Joey DeFrancesco all'organo Hammond. Tuttavia, ora che conosco le potenzialità di questo trio e ho maturato una visione musicale più chiara, nel prossimo album intendo rischiare molto di più, sia compositivamente che timbricamente.

AAJ: Un titolo che lascia intendere dei cambiamenti. Qual è la direzione che la chitarra deve intraprendere per rinnovare il suo ruolo nel contesto jazz?

L.F.: Domanda davvero difficile! Credo che ogni innovazione sia il risultato di un lungo processo di maturazione collettiva in cui alcuni individui riescono prima degli altri ad intuire la nuova forma che è già nell'aria. Dico forma poiché, in campo strettamente artistico, ritengo che ogni innovazione sia un cambiamento formale rispetto a un'essenza che rimane immutabile e, in fondo, inspiegabile. Certamente le forme che incarnano il nostro tempo, e che quindi possono informare l'arte rinnovandola, hanno a che fare con la rivoluzione digitale e con la partecipazione collettiva. Non credo che siano ancora maturi i tempi per una Musica 2.0 in cui gli artisti, oltre a seguire il loro percorso di ricerca personale, contribuiranno spontaneamente e gratuitamente, tramite la tecnologia, a composizioni musicali collettive infinitamente ramificate e liberamente utilizzabili, ma credo che la musica vada inevitabilmente in questa direzione. In ogni caso riducendo il discorso al jazz e, ancora più in piccolo, alla chitarra, credo che si debba utilizzare la tecnologia digitale, le influenze di altri generi musicali e una maggiore libertà rispetto a un modo di intendere l'improvvisazione principalmente come applicazione di regole armoniche e di espedienti logico-matematici lasciando molto più spazio all'ignoto, al rischio e allo stupore creativo.

AAJ: Qualcuno ti ha definito il "Metheny trentino". È una definizione che ti gratifica o preferiresti essere riconosciuto per un modo di suonare più personale?

L.F.: Pochi artisti hanno il grande dono di uno stile personale già formato in giovinezza e Metheny è indubitabilmente uno di essi. Io no, perciò questa definizione, che spesso viene data più per simpatia che con un intento denigratorio, mi porta semplicemente a riconoscere questo limite. Certamente l'influenza di Metheny, oltre che quella di Wes Montgomery, John Scofield, Ralph Towner e di molti altri, che considero un po' come i miei genitori musicali, è forte; ma, se è vero che le fragole maturano presto e il vino novello è ottimo, anche l'uva e il vino d'annata non sono male. Spero quindi che il tempo giocherà a mio favore nello sviluppo di uno stile personale del quale già ora intravedo alcune peculiarità.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

L.F.: Credo che il mio punto di forza principale sia l'inconsapevolezza di quello che suono: sebbene la teoria musicale e l'armonia siano un mio hobby - ho una chitarra a 19 toni per ottava, ho scritto un metodo di armonia, so chi sia gente come Ervin Wilson e Harry Partch e cosa sia la banda critica - , quando suono vado totalmente a orecchio, nel bene e nel male. È una scelta: preferisco usare la mia energia in senso espressivo e creativo piuttosto che in modo intellettuale. Questo mi porta magari a sbagliare di più, oppure a suonare scale e arpeggi meno elaborati, ma ne vale la pena per ciò che sento dentro di me mentre suono. Per progredire credo che debba davvero capire chi sono, da dove proviene la mia musica e perché. Capire la mia storia personale e tradurla in musica senza lasciarla influenzare da aspetti accidentali. È difficile. L'unico modo per riuscirci è semplicemente quello di continuare a comporre e suonare ed è quello che intendo fare.

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

L.F.: Sul mio iPod puoi trovare molte cose tra cui Mozart, i King Crimson, Erykah Badu, Benjamin Britten, Brad Mehldau, Dave Holland, Eric Dolphy, James Taylor, Igor Stravinsky, Michael Brecker, George Benson, Joni Mitchell, John McLaughlin, Niccolò Fabi, Paco De Lucia, Ry Cooder, i Beach Boys, i Beatles, gli Who, Pierluigi da Palestrina, gli Yes. Oltre all'ascolto integrale di album specifici mi piace lasciare andare il player in modo casuale cercando di tracciare dei paralleli o delle divergenze tra ascolti consecutivi. In questo modo imparo sempre qualcosa e ogni ascolto mi sorprende.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

L.F.: Ho un fantastico orto di dieci metri quadri in cui metto pomodori, melanzane, lattuga, zucchine, zucche e altre cose. Poco, davvero poco, di tutto. Oltre che mangiare le verdure mi piace constatare la semplicità e la forza della vita, formiche comprese. A parte l'orto, la musica e qualche corsa lungo il fiume, mi piace stare con le persone. Credo che tutto sia accidentale e non fondamentale tranne l'incontro con le persone, in primo luogo Ornella: la mia vera passione.

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