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Joe Henry e il "suo" jazz

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Così come far l'amore e cucinare ottimo cibo, il jazz è uno dei migliori modi per celebrare la vita contro l'incombente, inevitabile, morte.
Di recente acclamato all'unisono dalla stampa specializzata di mezzo mondo grazie all'album Blood from Stars, uscito a due anni dal capolavoro Civilians, Joe Henry ci parla del "suo" jazz frugando nella memoria fino ai tempi delle scuole superiori, fra vecchi dischi e soffitte polverose di pugili dalle insospettabili passioni.

Vera e propria leggenda e figura di culto tanto nel mondo del rock d'autore quanto nell'universo jazzistico che guarda alla canzone, Henry si è confrontato da musicista con il rock, il jazz e l'alt country. Nella sua carriera di autore e produttore ha incrociato la via dei Jayhawks, Daniel Lanois, Brian Blade, Marc Ribot, Solomon Burke, Ramblin' Jack Elliot, Brad Mehldau, Allen Toussaint, Me'shell Ndegeocello, Don Cherry e Ornette Coleman (accadde nel 2000 nell'album Scar).

I più attenti al pettegolezzo mondano - ci perdoneranno gli intransigenti - lo conosceranno anche per la parentela con la signora Ciccone. Henry è infatti il cognato di Madonna (con lei ha collaborato in "Don't Tell Me," pubblicato in Music). Insomma, un pantheon musicale che metterebbe i brividi a chiunque. Ecco cosa ha raccontato ad All About Jazz Italia, accettando l'invito di "Osmosi".

All About Jazz: Ricordi la prima volta che hai ascoltato musica jazz?

Joe Henry: Avevo 15 anni, vivevo a Rochester, nel Michigan, a nord di Detroit. Un mio grande amico delle superiori, Phil Kelly era - ed è ancora - un valido pianista jazz. Era anche un grande fotografo. Una domenica pomeriggio dell'autunno 1976 andai a casa dei suoi e mi misi a osservarlo mentre stampava foto in bianco e nero nella sua camera oscura allestita in cantina. Mise sul piatto Criss-Cross di Thelonious Monk, e già dalla prima traccia ("Hackensack") ero andato... una persona cambiata. Non sono nemmeno sicuro di aver pensato a quella musica come "jazz," nel senso di genere. So soltanto che la musica era viva e che ne ero incantato. Da allora ne sono un devoto ascoltatore.

AAJ: Ricordi il primo disco jazz che hai acquistato?

J.H.: Credo sia stato un disco di Monk, forse Monk's Dream, poi subito dopo Bill Evans Alone, Kind of Blue di Miles Davis e Giant Steps di Coltrane.

AAJ: Chi è il tuo artista preferito?

J.H.: Questa è dura... ma quelli che mi vengono subito in mente, diciamo quelli che ascolto costantemente, sono Thelonius Monk, Duke Ellington, Charlie Parker, Charles Mingus, Johnny Hodges, Louis Amstrong, Lester Young, Django Reinhardt, Ornette Coleman e Bill Evans. Troppi? Se è così... i primi tre insieme a Louis per me sono in cima.

AAJ: Se tu fossi stato un jazzman americano, di quale corrente avresti fatto parte?

J.H.: Forse mi sarebbe piaciuto essere un Johnny Hodges... quell'incredibile sensibilità che dà "voce" alla scrittura sublime di Duke. Ma dall'altra parte, al di là dei problemi esistenziali, fare quello che Charlie Parker stava facendo sarebbe stata la cosa più eccitante... creare un nuovo linguaggio per la musica.

AAJ: In che misura pensi che il jazz abbia influenzato la tua musica?

J.H.: Beh, la liberazione insita in quella musica ha influenzato me, e tutta la musica che è venuta dopo. Così come quel senso di esplorazione, il fatto che ogni canzone è opportunità di rivelazione. Quello potrebbe essere l'eccezionale contributo del jazz.

AAJ: Come mai hai sentito l'esigenza di coinvolgere jazzisti nei tuoi dischi? Cosa cercavi che non potevi trovare in un musicista "non jazz"?

J.H.: Anche in questo caso la loro tendenza ad affrontare la mia musica non con una sensibilità specifica di un genere, ma con un occhio disposto a esplorare. Questa è la cosa più significativa per me.

AAJ: Quale musicista jazz (vivente oppure no) ti piacerebbe che suonasse in uno dei tuoi dischi?

J.H.: Fra i viventi direi Sonny Rollins o Hank Jones. Se potessi riportare in vita qualcuno dall'aldilà, Jackie McLean, Charlie Mingus o Elvin Jones.

AAJ: Un bambino di 6 anni ti chiede: «Cos'è il jazz?». Tu cosa rispondi?

J.H.: Direi così: "Un approccio filosofico alla musica, basato sulla scoperta e l'illuminazione. E usa pure il dizionario dei tuoi per trovare il significato della parola "illuminazione," ragazzino. Perché è davvero una buona parola".

AAJ: Dalle bettole di New Orleans a raffinati jazz club. Il jazz oggi è ancora pop music, nel senso di "popular"?

J.H.: Credo non sia considerata musica pop oggi, ma solo perché il termine è stato fagocitato dal significato di 'big business.' Ma il jazz è pop in quello, sia che venga suonato in un club raffinato o in una bettola, mantiene la sua funzione di veicolo di esperienza condivisa. Parla sempre di una comunità.

AAJ: Fra le tante ricadute del jazz sulla popular music, quale pensi sia la più significativa?

J.H.: L'idea di celebrare le invenzioni più audaci. "Bird" era sull'onda per aver oltrepassato le frontiere della sua musica prima della venuta di Elvis. E Bob Dylan fu molto influenzato da Miles e dalla sua sensibilità lontana dalle convenzioni.

AAJ: Credi che il jazz storicamente sia stato più reattivo (nel senso che ha seguito e incorporato trend lanciati da altri generi musicali) o attivo (nel senso che ha lanciato trend poi seguiti da altri generi musicali)?

J.H.: Senza dubbio attivo. Ha sfidato se stesso più di quanto sia stato influenzato o sfidato da altre forme musicali.

AAJ: Frank Zappa pensava che il jazz non fosse morto, ma che avesse semplicemente «un odore un po' curioso». Tu che odore senti?

J.H.: Come l'interno di un elegante ma polveroso cilindro nella soffitta di un ex pugile professionista al quale piaceva segretamente ballare, anche se nessuno lo sapeva.

AAJ: Il jazz salverà il mondo?

J.H.: Non si tratta di "salvare il mondo," ma di celebrare la vita contro l'incombente, inevitabile, morte. Così come far l'amore e cucinare ottimo cibo, il jazz è uno dei migliori modi per farlo.

Foto di Lauren Dukoff


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