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Francesco Fratini

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Non mi piace ragionare per schematismi, ed è per questo che mi ritrovo ad accostare tipi di musica completamente diversi, da Dave Douglas ai Radiohead.
Francesco Fratini studia al Conservatorio di Santa Cecilia, a Roma, ma nel frattempo l'amore per il jazz - sbocciato in tenera età - lo ha portato a conoscere e collaborare con diversi protagonisti del panorama nazionale. Abbiamo intervistato il trombettista durante la sua partecipazione al Parco della Musica Jazz Lab, il progetto diretto da Enrico Rava teso a dar luce ai giovani musicisti più interessanti del panorama nazionale. Uno snodo cruciale del suo, ancor breve, percorso artistico.

All About Jazz Italia: Raccontaci come è andato il primo incontro con la tromba e con il jazz.

Francesco Fratini: Il primo incontro in assoluto con la tromba è stato piuttosto casuale; avevo otto anni e qualche volta, dopo la scuola, andavo a casa di un mio compagno che aveva il padre insegnante di tromba. Dopo averlo sentito più volte suonare da una stanza all'altra della casa mi sono prima incuriosito, e poi, provando a suonarla, definitivamente appassionato alla tromba. L'incontro con il jazz è avvenuto sostanzialmente su due fronti: da una parte, insieme ad altri generi, un po' di jazz a casa c'è sempre stato; dall'altra, ho iniziato con un approccio, allo strumento e più in generale alla musica, piuttosto ludico, che forse nessuna musica meglio del jazz realizza attraverso la sua spontaneità ed estemporaneità. In questo senso l'incontro con il jazz e con la tromba è avvenuto contemporaneamente anche se posso dire di aver cominciato ad ascoltare, capire e amare questa musica, solo più tardi.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione?

F.F: Ho iniziato in una scuola di musica di quartiere per poi trasferirmi più tardi a studiare alla scuola popolare di musica di Testaccio, a Roma, che ha tra i meriti più grandi quello di avermi fatto incontrare gli straordinari musicisti e amici con cui, da allora fino ad oggi, porto avanti un quintetto che costituisce una delle mie più importanti esperienze di formazione e crescita artistica. Qualche anno più tardi ho iniziato a studiare musica classica entrando al Conservatorio di Santa Cecilia, dove ancora oggi continuo gli studi. Nel 2007 ho cominciato a frequentare i seminari estivi organizzati dalla fondazione Siena Jazz che ha ricoperto e ricopre tutt'ora un ruolo formativo, per il sottoscritto e per molti altri, che non esiterei a definire fondamentale. Sempre a Siena ho avuto la fortuna di frequentare il corso "InJam": un'esperienza unica, didatticamente parlando, nonché punto di incontro tra musicisti di jazz di tutta Italia.

AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?

F.F: Cerco di fare più cose possibili. La pratica probabilmente rimane tra le strade migliori per imparare la musica. In quest'ultimo anno mi è capitato di prendere parte a diversi progetti: suono spesso nei diversi gruppi di Paolo Damiani, conosciuto al conservatorio a Roma; faccio parte dell'ottetto del contrabbassista Francesco Ponticelli con cui abbiamo da poco registrato un disco; mi capita spesso poi di suonare in big band (M.Raja, M.Corvini, P.Jodice), altra esperienza importante per conoscere un approccio completamente diverso al jazz e per imparare a leggere come si deve! Altro ensemble di cui faccio parte è l'Ibrido Hot Six, un sestetto da camera con sax/clarinetti, tromba, flauto, oboe e due contrabbassi, con cui abbiamo registrato un disco uscito per la Dodicilune (L'Eclisse, N.d.R.). Gli arrangiamenti, di Antonio Apuzzo, rielaborano brani di grandi compositori di jazz come Mingus, Coltrane e Coleman fino ad arrivare al rock progressive dei Gentle Giant. PentaRei è il nome del quintetto di cui ho accennato qualcosa nella risposta precedente, cinque musicisti (Federico Pascucci, Enrico Morello, Simone Tocco, Luca Fattorini) incontrati nelle aule della scuola popolare di musica di Testaccio, con i quali, dopo diversi anni di reciproci stimoli e comune crescita artistica, portiamo avanti un progetto fatto di brani originali e continua ricerca.

AAJ: Dall'esperienza con il Parco della Musica Jazz Lab quali insegnamenti stai traendo?

F.F: Aver preso parte al progetto del PM Jazz Lab ha significato per me diverse cose. Innanzi tutto ho avuto l'opportunità di conoscere, viaggiare e lavorare con ottimi musicisti. Altra cosa per me significativa è aver suonato con Enrico Rava, da cui c'è sempre molto da imparare. Ho conosciuto Enrico a Siena, ero stato inserito nel gruppo di musica di insieme da lui tenuto. All'epoca avevo 17 anni, ero piuttosto nervoso e ciò che mi aspettavo era una situazione di freddezza e diffidenza, cosa che sarebbe stata anche normale per una prima lezione; invece, quando sono entrato, tutto era molto rilassato, tranquillo e mi sono sentito subito a mio agio, come se quella fosse stata una delle tante volte che suonavo con Enrico e con gli altri musicisti. Quando poi ho rincontrato Enrico nel PM Jazz Lab ho capito che quella che pensavo fosse un' impressione momentanea è in realtà una sua caratteristica: Enrico sul palco determina un'atmosfera particolare, difficile da spiegare, che crea tutti i presupposti per un ascolto reciproco di ogni musicista verso gli altri. Un altro aspetto di quest'esperienza è quello che concerne il "mestiere" del musicista: stare attenti alle date dei vari concerti, suonare in festival importanti in tutta Italia, avere a che fare con musicisti che suonano molto meglio di te, significa capire molte cose, cambiare mentalità, acquisire maggiore consapevolezza.

AAJ: Come è il tuo rapporto con l'improvvisazione?

F.F: Penso all'improvvisazione come a una forma di espressione. È un atto creativo e la musica, esattamente come la parola, può essere usata in direzioni diverse. Buona parte del percorso artistico di un musicista è dedicata alla ricerca di una propria forma di espressione, alla ricerca di un proprio suono. Il jazz, con l'improvvisazione, regala un'ampissima gamma di possibilità espressive e - attraverso queste - permette al suo esecutore di esprimere la propria interiorità, che non è altro che la sua formazione, la musica che ama, il suo modo di essere. Tutto questo viene fuori grazie all'improvvisazione e contribuisce, forse più di ogni fattore tecnico, alla definizione di un suono proprio. Il mio rapporto con l'improvvisazione è lo stesso che c'è con tutta la musica: curiosità, ricerca, scoprire più cose possibili, selezionarle e filtrarle attraverso il proprio gusto per poi sintetizzarle in una personale soluzione di espressione, in un proprio vocabolario.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

F.F: Gli aspetti su cui concentrarsi per progredire in una qualche direzione sono pressoché infiniti e costituiscono una lunga lista che quotidianamente si impone alla coscienza di ogni musicista. Per quanto mi riguarda, ad esempio, non sono minimamente soddisfatto del modo in cui suono, o meglio, ci sono delle buone cose, affiancate però da una lunga serie di problemi da risolvere. Entrando nel dettaglio, in questo periodo (e immagino per molto ancora) sto cercando di concentrarmi sull'aspetto tecnico strumentale: la tromba è uno strumento difficile, ostico e poco gratificante, e questo crea non pochi problemi all'espressione musicale: avere delle idee e allo stesso tempo problemi con il mezzo di comunicazione utilizzato può rivelarsi particolarmente fastidioso e frustrante ed è per questo che mi sto concentrando più sulla tecnica piuttosto che sulla scrittura o sul portare avanti miei progetti. Sono cose che comunque, non vedo l'ora di fare.

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

F.F: Molti artisti diversi tra loro. Cerco di ascoltare più cose possibili per il semplice fatto che più conosci, più strumenti hai per fare ciò che vuoi fare. Quello che troverai sempre nel mio iPod è la musica dei miei punti di riferimento più importanti: non mancherà mai qualcosa di Davis o di Hubbard, ci sarà sempre il sax di Coltrane o di Shorter, Monk, Mingus, l'orchestra di Ellington, insomma gli "imprescindibili" della cultura jazzistica. Per il resto ascolto tutto ciò che mi piace, che abbia qualcosa da dire, che mi comunichi qualcosa, senza troppo badare a generi e classificazioni: non mi piace ragionare per schematismi, ed è per questo che mi ritrovo ad accostare tipi di musica completamente diversi, da Dave Douglas ai Radiohead, dai Pink Floyd a Roy Hargrove, da Johsua Redman a Jimi Hendrix, tanto per citarne alcuni.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

F.F: Posso parlarti degli interessi che mi piacerebbe coltivare! La musica, almeno in questo momento, rappresenta per me passione, lavoro e studio allo stesso tempo. È un attività piuttosto totalizzante che, tra Conservatorio, prove ogni giorno con gruppi diversi, concerti, corsi e seminari, non lascia molto spazio né molte energie per altre attività. Mi piacerebbe molto avere una buona cultura su quelle che sono le mie passioni oltre la musica. Sarebbe bello ritrovare la serenità e la concentrazione indispensabili per la lettura di un buon libro, trovare il tempo per studiare la storia o la filosofia, fare sport, riscoprire l'importanza dell'essere parte attiva della politica del quartiere, della regione, del paese in cui vivi. Sarà che ho appena finito il liceo e vengo da ritmi di lavoro e di riposo comodamente scanditi e ben definiti, o forse perché coniugare la "patologia" della passione verso la musica con attività di altro tipo, è semplicemente difficile? Non so. L'unica cosa di cui mi rendo conto è che ora come ora, le uniche attività extramusicali in cui riesco a impegnarmi, sono attività che non richiedono un particolare contributo intellettuale, e dunque uscire il sabato sera con gli amici non musicisti, giocare a calcetto, lavorare in campagna con i miei genitori.

Foto di Claudio Casanova


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