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Fiemme Ski Jazz - X Edizione

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Val di Fiemme - 10-18.03.2007

Il festival Fiemme Ski Jazz ha compiuto dieci anni. Siamo sempre felici quando una manifestazione jazzistica raggiunge questi traguardi. E' segno che ha saputo creare un legame con il territorio, con i musicisti, con il pubblico. Fare sistema, come si suol dire. Cosa che, nel corso degli anni, il Fiemme Ski Jazz ha saputo fare benissimo.

Fare sistema con gli impianti di risalita ed i rifugi, grazie a concerti sulle piste da sci, come di consueto di puro intrattenimento, e quest'anno focalizzati non tanto sul jazz quanto sui territori ad esso limitrofi (il funk, il blues, l'etno, la world).

Fare sistema con tutti i paesi della valle, coinvolti con concerti serali nei teatri (di cui parleremo in seguito), nei pub (tra cui i concerti del trio di Andrea Pozza, un habitué del festival ed ormai entrato - grazie alla sua collaborazione con Enrico Rava - nel giro dei grandi) e con jam sessions fino a tarda notte.

E soprattutto, ed è questa forse la parte più significativa e meritoria, la rassegna ha saputo fare sistema con i musicisti del territorio, invitati ad esibirsi sul palco del festival, e con i ragazzi delle scuole, cui viene data l'occasione di avvicinarsi al jazz in modo fresco, diretto e divertente. A questo proposito, segnaliamo in particolare i concerti della Blackout Big Band, l'orchestra dell'istituto musicale di Merano diretta da Helga Plankensteiner e composta da ragazzi dai 14 anni in su, rivolti specificatamente ad un pubblico di bambini e ragazzi.

Ma veniamo ai concerti serali, il primo dei quali dedicato al giornalista Dario Beretta, amico del festival e di chi vi scrive. Un amico scomparso troppo presto, del quale ci mancherà la leggerezza e l'ironia. In questo primo concerto abbiamo ritrovato Helga Plankensteiner alla direzione dell'orchestra Sweet Alps dell'organista Michael Lösch, con ospite il sax di Florian Bramböck. Musica ispirata alle forme espressive delle valli tirolesi, rivisitate in chiave jazz. Brani gioiosi e divertenti, spesso su ritmi ternari (come accade sovente quando l'ispirazione è di matrice popolare), interpretati con spirito jazzistico (molti i riferimenti a Carla Bley o alle marching bands), ma ricchi anche di riferimenti circensi, bandistici, classici.

E' stata poi la volta del quartetto del saxofonista Seamus Blake (con David Kikoski al piano, Danton Boller al contrabbasso, Rodney Green alla batteria). La musica di Blake attinge direttamente alla tradizione jazzistica, con un linguaggio però aperto a mille influenze, da Claude Debussy a John Scofield. Sulla carta, si trattava del concerto più significativo della rassegna e, finché il quartetto si è esibito nella configurazione strumentale sopra esposta, le cose sono andate bene. Molto bene. Musica energica, dinamica, di forte presa emotiva, assolutamente contemporanea, con Kikoski in grande evidenza (sembra quasi che sia lui il leader del quartetto). E però, inspiegabilmente, dopo qualche brano Blake ha abbandonato il sax per imbracciare la chitarra e cantare, mentre Kikoski ha abbandonato il pianoforte per imbracciare il sax. La musica, uscita dai binari del jazz, entra in quelli della canzone. Premesso che le canzoni sono abbastanza belle, occorre anche rilevare che Blake è assai modesto come chitarrista e decisamente penoso come cantante. Un filo meglio Kikoski al sax, ma comunque sui livelli di qualunque studente di una qualunque scuola civica.

Chissà, forse l'intento dell'operazione è ironico. I testi delle canzoni sembrano confermarlo. Ma il gioco è bello quando dura poco. Qui un terzo del concerto (e, fatto imperdonabile, il bis di chiusura) è stato imperniato su questa configurazione strumentale, penalizzante sia per il pubblico che per i musicisti stessi. Blake non è un grandissimo che può permettersi qualche atteggiamento istrione o sardonico. E' un giovane musicista che suona molto bene, ma che deve fare ancora parecchia strada.

E se invece l'intento dell'operazione non è ironico (lo ripetiamo, musicalmente le canzoni sono di buona fattura), allora perché non inserire in organico un chitarrista ed un cantante? Per quanto ci riguarda, preferiamo ricordare la parte “seria” del concerto, davvero ottima, e fingere che questa digressione canora sia stata solo un brutto sogno.

Nei due concerti successivi il festival è rientrato su binari più vicini alla tradizione. Eccessivamente vicini con il trio del batterista Eliot Zigmund (Paolo Birro al pianoforte, Lorenzo Conte al contrabbasso), che ha proposto una musica incentrata su standard e su composizioni originali comunque aderenti a quell'estetica. Più aperti all'attualità con il trio di Phil Markowitz (Jay Anderson al contrabbasso, Adam Nussbaum alla batteria), che, affiancato dai sax di Maurizio Giammarco, ha dato vita ad un concerto godibilissimo, grazie soprattutto alla creatività ritmica del leader ed al tiro possente della batteria di Nussbaum (memorabile il pedale in sette che ha aperto il concerto).

Per la serata successiva era previsto un concerto in piano solo di Franco D'Andrea. Concerto che non si è tenuto a causa di un dolore alla mano che ha impedito al pianista di suonare (approfittiamo per fargli i nostri auguri di una rapida guarigione). D'Andrea ha comunque onorato la serata, incontrando il pubblico per una conversazione sulla sua musica, e per presentare “Franco D'Andrea - Jazz Pianist”, film realizzato da Andrea Pichler, che racconta il percorso musicale del pianista meranese dagli anni sessanta ad oggi.

La nostra cronaca finisce qui. Il festival è invece proseguito per altri due giorni, che hanno visto come protagonisti il trio di Andrea Lombardini ed il quartetto di Kurt Rosenwinkel. Non abbiamo assistito ai loro concerti, ma ce ne hanno parlato molto bene.

Foto di Luciano Rossetti [ulteriori immagini tratte dal festival sono disponibili nelle gallerie dedicate ai concerti di Andrea Lombardini e Eliot Zigmund]


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