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Fabrizio Ottaviucci

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Area Sismica - Forlì - 2.2.2008

Dopo l'ottimo concerto di Stefano Scodanibbio, il secondo capitolo della minirassegna “Musica inaudita” dell'Area Sismica ha avuto per protagonista un nome in rapida ascesa nel panorama internazionale della musica contemporanea: Fabrizio Ottaviucci.

Ottaviucci ha collaborato con nomi di spicco del panorama contemporaneo, come lo stesso Scodanibbio (che è stato uno dei suoi “scopritori”), Rohan de Saram e Markus Stockhausen; ha studiato con compositori come Giacinto Scelsi e Fernando Mencherini, approfondendo la loro opera pianistica. Inoltre, come altri fra i più significativi protagonisti attuali della scena contemporanea, Ottaviucci ha alle spalle una solida formazione sia come interprete che come compositore.

Ma l'elemento forse più rivelatore del valore e delle doti di Ottaviucci è un piccolo dettaglio che si legge nel suo curriculum: "Vive ad Assisi dove dirige il laboratorio di musica intuitiva”. Questo accento posto sull'”intuitività” dell'approccio alla musica è forse ciò che più lo caratterizza e lo differenzia rispetto a un ambito musicale in cui - almeno fino al passato recente - la dimensione concettuale ha nettamente dominato sulle altre. Al contrario, il rapporto di Ottaviucci con la musica - sia la propria che quella altrui - è profondo, intimo ed emotivo, e non puramente intellettuale.

Ciò risulta particolarmente evidente, ad esempio, oltre che nelle sue stesse composizioni, nel modo in cui Ottaviucci interpreta la musica di John Cage, a cui ha dedicato la prima parte del concerto. Dalla musica del compositore americano (di cui di solito viene sottolineata e celebrata la portata rivoluzionaria per il pensiero e la concezione musicale novecenteschi) Ottaviucci è invece capace di estrarre e di portare alla luce gli accenti più nascosti e intimi, rivelandone le sfumature di colore più delicate e raffinate che, come in un caleidoscopio cangiante e policromo, si mescolano per formare la tinta e il suono complessivo, ma che, sotto le dita di interpreti meno empatici, sono andate spesso perdute, messe in ombra dal disegno programmatico e intenzionale del compositore. Il che poi è in realtà un tradimento della volontà dello stesso Cage, che col passare del tempo cercò sempre più di liberare la musica dall'intenzionalità tanto del compositore quanto dell'esecutore (anche su questo si concentrò, ad esempio, la polemica con Glenn Branca).

Detto banalmente, Ottaviucci ha il grande dono di riuscire a far emergere (o a donare) il cuore anche là dove abitualmente regna la testa, e d'infondere il calore dell'emotività e dell'immediatezza anche nei territori solitamente sferzati solo dal vento freddo della mente.

Per la scelta del programma Ottaviucci si è ispirato al titolo della rassegna e ha scelto musica che, per lo meno nel contesto di tempo e luogo in cui è stata composta, negli ultimi decenni è risultata “inaudita” rispetto al canone della musica accademica.

Il concerto si è così aperto con uno dei primi brani che John Cage scrisse per pianoforte preparato, “Mysterious Adventure”, risalente alla metà degli anni '40. All'epoca, una simile drastica modificazione della sonorità del pianoforte dovette sicuramente risultare “inaudita”. Fu senz'altro un forte gesto di rottura rispetto alla tradizionale iconografia dello strumento di ascendenza romantica, ma non solo, perché in realtà fino a quel momento nessun musicista e compositore, per quanto innovativo, radicale o sperimentale che fosse, aveva mai messo in discussione in quel modo l'identità timbrica e la stessa “natura” dello strumento. Con le sue preparazioni, invece, Cage lo trasformava radicalmente, lo faceva diventare qualcosa daltro, o forse semplicemente attualizzava una potenzialità insita nella sua stessa origine e nella sua natura di strumento a percussione.

Il pianoforte diventa dunque uno strumento percussivo, ma il modello di riferimento - ammesso che ce ne sia uno - non è certamente nessuno strumento della tradizione occidentale, ma semmai un ensemble della musica gamelan; sia le sonorità metalliche ottenute dalla preparazione, sia le figure ritmiche della composizione evocano distintamente questo immaginario sonoro.

Ma come si è detto, la capacità più grande di Ottaviucci è quella di non fermarsi alla provocazione intellettuale e allo scandalo formale che poté rappresentare all'epoca un pianoforte trattato in questo modo, ma di andare oltre per rivelare i tratti emotivi nascosti dietro questa facciata. Così da quei rintocchi cangianti, ora metallici, ora legnosi, emerge un aspetto di giocosità, una musicalità ingenua e quasi infantile, un sentimento di stupore e di scoperta, come quello di un bambino che scopre il mondo o un nuovo giocattolo, e che poté forse essere quello di Cage che aveva scoperto una nuova e affascinante via espressiva per la sua musica.

Risulta anche molto evidente la funzionalità della musica alla danza, per la quale era effettivamente stata scritta, con una vocazione ritmica molto forte e una dinamica molto contrastata fra i momenti di stasi e le riprese della pulsazione martellante.

Col secondo brano, “In A Landscape”, siamo invece trasportati in un paesaggio dell'anima, assorti nella contemplazione di un orizzonte in continuo ma lieve movimento, come un lago solcato da piccole increspature, o un cielo percorso da nuvole leggere. Lo sguardo è fermo, estatico, ma l'animo che è oggetto della contemplazione è acceso di emozioni, si muove, ma non sono movimenti ed emozioni “forti” e violente, ma piccoli cambiamenti, piccole sfumature di tonalità, che soltanto un'osservazione attenta può cogliere e rivelare. E l'interpretazione di Ottaviucci sembra proprio uno sguardo che scruta attentamente l'animo del compositore, e grazie alla sua attenzione ricettiva ne riesce a cogliere gli aspetti e le sfumature più intime ed essenziali. Nella sua interpretazione, Ottaviucci dà voce a un calore sotterraneo nascosto in questo pezzo, ma non un calore avvampante, una fiamma, ma piuttosto un tepore diffuso, una sensazione di tiepidezza, un dolce languore che parte dal cuore e si diffonde per tutto il corpo.

Arpeggi fragili come grappoli di gocce d'acqua, che tessono una trama scarna e leggera, sospesa attorno a una tonalità a volte ambigua, ma fortemente presente.

Il concerto è proseguito con altri due brani di Cage, tratti dai “Jazz Studies” del '42. L'approccio qui si fa più distaccato, l'interesse di Cage è in questo caso più rivolto alla forma, ovvero alla trasfigurazione e al superamento di una forma data e dei suoi limiti.

Il jazz a cui qui fa riferimento Cage è quello pianistico degli esordi, di New Orleans, di Jelly Roll Morton: un jazz ingenuo e facile rispetto agli sviluppi successivi, ma anche pieno di vivacità ed esuberanza. Sembra che Cage provi un misto di affettuosa simpatia e di distaccata ironia per questa ingenua vitalità, che nei suoi studi viene enfatizzata, sottolineata, a volte un po' caricaturata e perturbata con l'inserimento brusco di cluster e “scorie sonore”, come per voler incrinare e disturbare la rassicurante facilità di una musica che veniva impiegata soprattutto per l'intrattenimento, mettere in discussione proprio la dimensione di prodotto per il consumo attraverso cui veniva fruita dal pubblico.

E' interessante riflettere sul fatto che con questi “Studies” Cage ha precorso di diversi decenni quanto fatto da musicisti successivi come Jaki Byard, fino ad arrivare a nomi contemporanei come Uri Caine, che hanno esplicitamente recuperato lo stile pianistico del jazz degli esordi lacerandolo con sciabolate di cluster e dissonanze.

Dopo John Cage, Ottaviucci ha eseguito due pezzi di composizione propria, tratti da un ciclo di prossima pubblicazione a cui ha dato il nome di Raga, non perché abbiano alcuna attinenza formale con la musica indiana, ma perché - proprio come nel significato originario del termine sanscrito -, vogliono essere espressioni e rappresentazioni di specifici stati d'animo o di tonalità emotive.

Il primo, “Raga notte d'oriente”, trae dalle scale e dall'”aroma” della musica orientale una grande potenza espressiva ed emotiva, un caldo pathos che dà forma a sentimenti di languore e dolce struggimento. Il mood di sottile malinconia e di assorta immersione dentro di sé ricorda anche le atmosfere del trio di Anouar Brahem.

Il successivo “Raga delle metamorfosi” rimane su tinte calde e d'intensa emotività, ma espresse questa volta utilizzando moduli più propri della tradizione occidentale, rifacendosi anche a canoni di ascendenza romantica. Si nota anche un'assonanza con lo stile degli autori neotonali come Nyman o anche Einaudi, soprattutto per l'uso degli arpeggi, ma priva di quella leziosità in cui sovente cadono questi compositori.

Il programma si è chiuso con una rielaborazione del “Keyboard Study n. 2” di Terry Riley, riarrangiato da Ottaviucci per pianoforte acustico e piano digitale registrato, presentato qui in una versione abbreviata.

Il pezzo - risalente alla metà degli anni '60 - fa parte del canone del minimalismo e dei lavori che hanno contribuito a crearne la fisionomia e a metterne a punto i tratti stilistici e gli strumenti tecnici impiegati. Così, qui si ascoltano le tipiche iterazioni di semplici cellule ritmico-melodiche e la loro lenta trasformazione, impercettibile nella sua gradualità, che rimarranno il tratto più caratteristico di questa scuola. Si sentono anche in embrione quegli effetti di “phasing” che diventeranno poi un marchio di fabbrica di Steve Reich, qui sottolineati dall'uso dei due pianoforti, quello dal vivo e quello registrato.

Anche in questo caso, l'interpretazione di Ottaviucci riesce soprattutto a dar voce alle dimensioni più profonde, emotive ed estatiche, della musica, non riducendola solamente a un gioco razionale e matematico.

Nel bis, Ottaviucci presenta un altro suo pezzo, il “Raga del cuore”, concepito e inteso come una “canzone”, di cui utilizza la forma e le strutture metriche.

Ancora una volta, in primo piano ci sono le emozioni: l'armonia e le melodie fluenti sono intrise di struggimento e di una profonda venatura di tristezza; dalla musica trasuda un sentimento di forte e vitale passione, che per quanto positiva pare però anche profondamente sofferta. Un epos drammatico che, insieme al tocco classico applicato alla forma di tipo jazzistico, fa tornare alla mente le ultime intense e accorate composizioni di Luca Flores.

Questa dedica conclusiva al “cuore”, intenzionale o meno che fosse, è parsa la più degna conclusione di un concerto che nella centralità dell'emozione ha avuto il suo filo conduttore e la sua dimensione più coinvolgente.

Foto di Claudio Casanova

Altre immagini di questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.


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