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Composizione istantanea? No: improvvisazione - Riflessioni sulla creazione musicale estemporanea

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Per la rubrica Déjà lu riproponiamo un saggio di notevole importanza teorica, scritto da Maurizio Franco e pubblicato sul periodico Musica/Realtà n. 78, novembre 2005. Si ringraziano per l'autorizzazione l'autore e l'editore.

Improvvisazione è termine che suscita fantasie: per i musicisti che non la praticano è una sorta di magia con cui si libera l'immaginazione indirizzando la creazione in territori sempre nuovi. Per gli ascoltatori il suo farsi è un mistero inesplicabile, per gli storici e i musicologi accademici è un aspetto comunque subordinato all'idea di composizione, spesso erroneamente assimilata al concetto di musica di tradizione orale.

Tutti, però, quando abbinano il termine a un genere musicale, pensano istintivamente al jazz, al punto che questo aspetto è diventato l'elemento chiave di molti discorsi relativi a questa musica, un cardine della sua stessa estetica.

Intorno a una tematica così importante sono così fioriti studi di ogni tipo, in particolare (e non a caso) nell'ambito cosiddetto etnomusicologico (basti ricordare i lavori di Bruno Nettl o di Lortat Jacob), anche se nessuno ha il carattere della completezza.

Anche nel campo jazzistico, che dovrebbe teoricamente presentare una grande ricchezza di contributi, facendo le dovute eccezioni occorre sottolineare la prevalenza di visioni stereotipate e limitative dell'improvvisazione, considerata più come alternativa alla musica scritta che per le sue caratteristiche intrinseche, quindi vissuta in maniera romantica, a volte percepita in maniera diversa da ciò che realmente è, o comunque affrontata come un generico aspetto di libertà espressiva, da idealizzare ben oltre la sua reale sostanza.

I musicisti di jazz, del resto, hanno spesso lasciato credere che l'improvvisazione fosse qualcosa di inspiegabile, un atteggiamento dell'anima piuttosto che un preciso modo di fare e sentire la musica.

Perché questa riflessione sull'improvvisazione? Perché viene sollecitata dal volume di Vincenzo Caporaletti, pubblicato nei quaderni di Musica/Realtà: I processi improvvisativi nella musica - Un approccio globale (Lim, Lucca 2005).

Approccio globale, appunto, con uno sguardo che contempla tutte le culture in cui si rintraccia il fenomeno improvvisativo e con un taglio metodologico differente da tutti gli studi precedenti, che si pone come base per ogni successivo approfondimento in materia.

Il punto centrale dell'analisi di Caporaletti apre infatti nuove, ampie, prospettive di analisi, andando direttamente al cuore del problema poiché, in seguito a una serrata disamina del concetto di improvvisazione in chiave di antropologia filosofica, scinde il rapporto che lega, come coppia dialettica, il termine improvvisazione a quello di composizione, rompendo un plurisecolare rapporto di subordinazione della prima alla seconda.

Non è fatto di poco conto: l'autore, infatti, parte dalla considerazione che prima del 1477, cioè sino alla pubblicazione del liber de arti contrapuncti di Johannes Tinctoris, il termine/concetto di "composizione" non esisteva, così come non esiste in molte culture extraeuropee, anche in quelle più sofisticate.

Esisteva invece, in Europa, una pratica diffusa soprattutto nell'ambito vocale e basata sulla realizzazione estemporanea della musica o di parte di essa, che si rifaceva alle consuetudini esecutive dei tempi e dei luoghi in cui essa venne prodotta.

Dopo l'introduzione dell'idea di composizione e lo sviluppo della musica scritta, l'improvvisazione, intesa anche come completamento di parti opposte, divenne concettualmente una composizione "meno equilibrata" perché realizzata in tempo reale e senza supporto della revisione, della correzione a tavolino, quindi imperfetta per natura e "inferiore" all'altra, quella scritta, nella gerarchia musicale.

Oggi, ogni nuova visione nel concetto di improvvisazione deve di conseguenza distinguerla dall'idea di composizione, evitando quindi di considerarla una "composizione istantanea," una formulazione utilizzata soprattutto nell'ambito degli studi jazzistici che, alla luce delle argomentazioni di Caporaletti, andrebbe accantonata. E per una serie di ragioni, di cui la più importante è quella di slegarla, concettualmente, dal legame con l'idea compositiva di stampo accademico maturata nella musica euro colta, ma non applicabile a tutte le esperienze musicali. Mettere in relazione la creazione estemporanea, che non è sinonimo di improvvisazione, come vedremo più avanti, con l'idea di composizione pone però un aspetto di differenza non solo produttiva e contingente, ma di tipo costitutivo.

Se la lunga durata operativa e l'utilizzo di strutture mentali logico-combinatorie e segmentalizzanti, proprie del comporre secondo schemi mediali "visivi," consente infatti al compositore di esprimere, con approssimativa esattezza, la sua idea musicale, e di oggettivarla attraverso una logica derivante e dipendente da quei principi mediali, la creazione musicale nel corso della performance non può che evidenziare un disequilibrio, dato da alternativi utilizzi di divergenti facoltà (la medialità di tipo audio tattile), tale da togliere all'improvvisazione quella "dignità" d'opera assegnata invece alle composizioni notate in partitura (in particolare, come specifica Caporaletti, nel periodo della Werktreue: della fedeltà "moderna" alla partitura).

Secondo questo criterio "visivo" culturalmente presupposto, paradossalmente, la pratica improvvisativa diventerebbe tanto più interessante e riuscita quanto più rispondente ai canoni formali della musica euro colta. Ma proprio perché costituzionalmente divergente rispetto all'atto compositivo, dal punto di vista operazionale ed epistemologico, essa non potrà mai raggiungere tale "tipo" di perfezione, restando, sotto l'aspetto "logocentrico" del modello creativo euro colto, sostanzialmente incompleta, "intuitiva" (per usare un termine di Stockhausen).

Caporaletti rintraccia questa dinamica culturale a partire dalle fondamentali acquisizioni della civiltà occidentale, col costituirsi di un'ontologia oggettuale anziché evenemenziale. E, per inciso, è proprio attraverso questa via che perviene a una originale e innovativa spiegazione dell'annosa questione dell'eclissi delle pratiche creative estemporanee all'interno della tradizione euro colta, a metà Ottocento.

Chi scrive ha usato per anni il termine "composizione istantanea" con l'intento di specificare la diversità del processo creativo basato sulla performance da quello costruito a tavolino secondo procedure del tutto differenti, e molti musicisti e critici di jazz lo utilizzano ancora sia per questo motivo, sia per sottolineare che di processo compositivo complesso, e quindi "colto," pur sempre si tratta.

In realtà, restando nell'ambito del pensiero tradizionale, non si può parlare di un errore terminologico tout court, e infatti il punto risiede proprio nel collocare l'improvvisazione in un universo espressivo differente, per atteggiamento e concezione estetica, da quello della musica scritta della tradizione occidentale.

Questo universo si può considerare quello delle musiche audio tattili, elaborato da Caporaletti in un precedente volume (La definizione dello swing - I fondamenti estetici del jazz e delle musiche audiotattili, Ideasuoni, Teramo 2000).

L'universo di queste musiche appartiene infatti a un altro campo della creazione musicale, recupera aspetti quali la fisicità nel rapporto con il proprio strumento, l'idea di interplay, di ascolto reciproco tra i musicisti che assume funzione determinante per la configurazione della musica e l'espressione individuale, offre la possibilità di utilizzare tipologie sonore e timbriche non codificabili e micro ritmi che la non certo evoluta notazione del ritmo nella musica euro colta non è in grado di riprodurre. E del resto non avrebbe senso farlo, in quanto nella musica audio tattile la performance e il ruolo del musicista è ben diverso da quello consolidatosi in ambito accademico nell'ultimo secolo e mezzo. Proprio in questo territorio si può collocare l'improvvisazione.

La separazione netta tra mondo della musica scritta, legato a un messaggio visivo, mondo della tradizione orale, legato alla memoria e all'apprendimento "sul campo" degli schemi, e mondo audiotattile, che nel caso del jazz presenta anche aspetti visivi oltre a determinare componenti di oralità, comporta quindi una radicale revisione di alcuni principi stabilizzatisi nel tempo come fossero dei veri e propri luoghi comuni.

Per esempio, citandone uno, il fatto di considerare le musiche di tradizione orale come musiche improvvisate, quando invece lo sono raramente poiché operano all'interno di schemi rigorosi, che vengono principalmente interpretati all'interno di un disciplinatissimo lavoro individuale o di gruppo, come dovrebbe risultare evidente per il fatto che si tratta di musiche in cui il rapporto profondo con la società impedisce di andare al di fuori dai comportamenti che costituiscono la competenza musicale comune.

Sulla scorta di queste considerazioni, Caporaletti opera poi una distinzione profonda tra gli aspetti della vera creazione improvvisata e l'elaborazione dei brani presente nel fenomeno dell'interpretazione, sviluppando il concetto di estemporizzazione, in grado di risolvere le problematiche terminologiche che sorgono quando, per esempio, si vuole spiegare cosa facesse un musicista come Liszt quando improvvisava delle varianti su composizioni preesistenti, o Louis Armstrong quando interpretava con atteggiamento da improvvisatore una melodia scritta, ma anche il tipo di elaborazione che un percussionista africano attua intorno a schemi ben definiti, o come il maestro indiano di sitar costruisce le sue interpretazioni dei raga.

Il concetto di estemporizzazione viene così a collocarsi in una fascia intermedia tra quella della pura interpretazione letterale e l'improvvisazione vera e propria, che risponde a una creazione ex-novo, a una invenzione del momento con caratteri ben più ampi di quelli della semplice interpretazione creativa.

Una fascia, però, che rispetto agli aspetti visivi sottostanti alla realizzazione della musica scritta ci proietta in un altro ambito di pensiero: quello delle musiche in cui è presente una concezione audio tattile.

Questo punto appare da subito centrale per l'evoluzione degli studi in materia e apre un nuovo universo di indagine che rende improvvisamente datata la bibliografia intorno all'argomento, perché invece di portare una distinzione intorno al più o meno ampio grado di individualità all'interno di strutture e parti di rigidità variabile, distingue addirittura il tipo di campo e di abilità fisiologiche poste in gioco.

E' un'idea rivoluzionaria, della quale occorre tenere conto, anche perché porta risposte logiche alle quali, intuitivamente, ci si era avvicinati cercando di risolvere il nodo sulle differenze tra comporre con carta e penna davanti agli occhi oppure nel corso dell'esecuzione; o, anche, tra lettura rigida della partitura e un'ampia procedura interpretativa, oppure tra composizioni di tipo prescrittivo e descrittivo.

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L'acquisizione del principio audio tattile (principio in quanto agente attivo nella realizzazione della musica) comporta il passaggio da una scrittura e una esecuzione basate su aspetti visivi a un modo di fare musica che presenta una dimensione legata all'ascolto reciproco, alla performance, quindi al campo estemporizzativo e a quello improvvisativo.

Questo implica la riconsiderazione della storia della pratica musicale a tutti i livelli e latitudini, perché anche la musica euro colta ha vissuto epoche in cui era presente in maniera determinate la componente audio tattile, progressivamente sparita soprattutto a partire dall'età romantica. Audiotattilità che investe invece l'universo delle musiche tradizionali, in cui l'improvvisazione è quasi sempre estranea dal modo di fare e pensare la musica, anzi non esiste nemmeno come concetto.

Di questi argomenti si occupa in maniera dettagliata il volume dello studioso abruzzese, le cui conseguenze sono tangibili nel modo di affrontare le problematiche dell'improvvisazione.

Se passiamo al dominio del jazz, ci rendiamo conto che questa impostazione consente di chiarire meglio la natura di una musica difficile da collocare e da comprendere in quanto frutto di un intreccio tra culture diverse, che nel loro insieme ne formano una nuova, fondamentalmente audio tattile, ma non priva di elementi legati alla cultura visiva. In tal senso, il jazz si colloca in una via diversa sia da quella delle musiche tradizionali, sia dal mondo della musica euro colta e da quello delle musiche cosiddette popular.

Dalle prima eredita il senso della tradizione, che non si riferisce tanto all'uso di schemi rigidi, bensì all'atteggiamento espressivo, alle dinamiche interne del fare musica, al modo di trattare ritmo e suono, e infatti la storia del jazz (che è una storia autentica, con una sua autonomia, e presenta costanti trasformazioni linguistiche) è l'esempio di come gli schemi, pur restando fedeli a un canone "profondo," si siano trasformati nel corso del tempo attraverso le modificazioni che hanno dato vita al percorso storico del jazz.

Dalla musica euro colta il jazz prende, al di là degli aspetti tecnico linguistici strettamente musicali, sia gli elementi visivi rappresentati dalla scrittura, che in parte vi è presente (seppure plasmata dalla mentalità audio tattile) e amplia la dimensione percettivo sensoriale a un livello che non mi sembra riscontrabile in nessun'altra musica, sia l'idea di opera d'arte, di realizzazione artistica basata sull'originalità creativa dei singoli.

Cioè presenta il concetto di autorialità, che però non gli deriva dalla presenza di opere legate a partiture prescrittive o ad "oggetti" concreti e sostanzialmente immutabili nel tempo, come un quadro o un romanzo, ma dalla presenza dei mezzi di riproduzione sonora, che rendono "testo" ciò che, a stretto rigor di logica, è invece manifestazione di un momento caduco per sua natura: la performance. Anche in questo caso il volume della Lim offre un contributo al dibattito che investe, in campo jazzistico, il ruolo del disco (un ruolo che, a livello generale e in relazione ai primi decenni di vita della discografia, ha trattato con il consueto equilibrio e acume Marcello Sorce Keller nel numero 76, del marzo 2005, di Musica/Realtà).

Nel corso del tempo, il dibattito si è concentrato soprattutto intorno alla possibilità che il supporto sonoro possa considerarsi una vera e propria partitura, oppure sia soltanto la testimonianza di un particolare, e irripetibile, momento creativo.

Ciò che Caporaletti invece evidenzia è un ruolo differente, e ben più profondo, assunto dal disco nell'ambito jazzistico, e per questo ha coniato un neologismo: processo neoauratico, ispirato anti frasticamente da Walter Benjamin, con il quale assegna al supporto sonoro il ruolo di codificatore di una serie specifica di qualità estetiche, che conferiscono all'immagine sonora che ne deriva i caratteri di una specifica creazione artistica che ha un autore ben identificato e in grado di fare scuola.

La storia del jazz si è del resto sviluppata per questo motivo, altrimenti si sarebbe configurata soltanto come adattamento di una tradizione esecutiva. Nel momento in cui, invece, il disco diventa la primaria fonte di diffusione della musica fissa per sempre la performance in un oggetto simile al quadro, al libro o alla partitura, tramutandola in testo. Seppure non utilizzabile come partitura, a meno di non usarlo per la trascrizione di parti scritte di cui si sono perduti gli originali, il disco jazzistico diventa però un riferimento per lo studio dello stile di un musicista, l'ambito privilegiato su cui i musicisti concentrano la loro attenzione, il mezzo indispensabile per sviluppare l'idea di originalità individuale che nasce dalla differenza.

I musicisti di jazz lo hanno compreso subito, e infatti l'uso del disco è rivelatore di quanto i jazzisti abbiano concepito (almeno per decenni perché oggi non sempre è così) in maniera molto spesso diversa la dinamica di un disco da quella di un concerto.

L'autorialità che il disco produce ci conduce allora direttamente al titolo di questo intervento, poiché se è vero che l'improvvisazione o l'estemporizzazione (nel jazz esistono entrambe, così come in forma minore esiste anche una sorta di interpretazione rigorosa) realizzate da un musicista diventano "testo," e se è altrettanto vero che questo nasce all'interno di regole precise, di atteggiamenti espressivi e strutturali definiti, ma diversi da quelli delle opere "scritte," il termine composizione istantanea va, almeno per il momento, accantonato.

E' la logica conseguenza delle intuizioni di Caporaletti e delle riflessioni che ha suscitato la lettura del suo imprescindibile volume, per cui è in primo luogo importante scindere il concetto di improvvisazione da quello di composizione, superando il modello degli opposti gerarchicamente ineguali; un aspetto che scinde le due modalità di creazione musicale in ambiti che sono differenti tra loro, cioè non rispondono perfettamente agli stessi meccanismi creativi.

Restando all'ambito del jazz, che ha sviluppato l'improvvisazione al più alto livello di complessità, l'affermazione di composizione istantanea serviva e serve sia per far comprendere la non aleatorietà del fenomeno, ma la sua appartenenza alla sfera della creazione "organizzata," sia per dare legittimità alla pratica improvvisativa assimilandola a quella della musica colta per antonomasia.

Oggi questa necessità non c'è più, l'accademia sta rapidamente perdendo il suo ruolo egemonico nel decidere cosa vale o non vale in ambito musicale, quindi si possono fare i doverosi distinguo, evitando la subalternità di una procedura rispetto a un'altra e superando così la ricerca della legittimazione, che è un'assurdità e una volontaria scelta di subordinazione culturale.

Non solo di questioni di forma si tratta, perché un secondo aspetto è invece di sostanza, riguardando proprio il modo in cui si realizza la creazione estemporanea. Un'ulteriore differenza tra la composizione, che è un procedimento visivo, e l'improvvisazione, legata invece agli aspetti audiotattili, riguarda infatti la relazione del musicista con l'esterno, sia esso il pubblico o siano essi gli stessi musicisti con cui sta suonando.

Nel primo caso, lo sviluppo del pensiero creativo avviene in un ambito di relazione dell'autore con se stesso, in una situazione di indipendenza dal pubblico (e dalle competenze del pubblico), dal contesto (il luogo della esecuzione), dal rapporto con altri musicisti che non siano semplicemente degli esecutori materiali dell'opera, ma siano portatori dell'interazione tipica delle musiche audio tattili.

Infine, il compositore usa il suo bagaglio di conoscenze, costituito da schemi, moduli, dalla cultura di chi scrive, in un arco temporale non condizionato dai tempi della performance o da quelli della registrazione discografica. Una composizione può così nascere in un lasso di tempo breve, oppure subire un processo di elaborazione che può essere anche lunghissimo e prevedere continui rimaneggiamenti, mettendo in gioco stati d'animo contrastanti eppure tutti concorrenti alla costruzione di un testo che rimarrà immutato, definitivo.

L'improvvisazione, e anche l'estemporizzazione, risente invece del luogo, del rapporto con il pubblico e le sue conoscenze, con la tradizione, gli schemi e i modelli costituenti il fondo comune dei vari generi e stili.

Poi, c'è l'incidenza fondamentale del cosiddetto interplay, cioè il gioco relazionale tra i musicisti, che in forme molto meno vincolanti e strutturali, è presente anche nella musica scritta, ma in forma minore rispetto a quanto non avviene nelle musiche non accademiche e, soprattutto, nel jazz, poiché nell'ambito delle espressioni musicali basate essenzialmente sull'oralità, il rapporto con gli altri musicisti risponde principalmente alla logica dell'estemporizzazione di moduli pre-esistenti, che trova la sua unità nell'esecuzione collettiva della musica.

Nel caso del jazz, l'interplay rappresenta il motore della musica, determina la sua forma, influenza l'espressione, mette in gioco al più alto livello l'audiotattilità del genere.

Tralasciando la questione, in questo caso di dettaglio, legata a chi improvvisa e chi estemporizza durante l'esecuzione di un brano jazzistico, occorre sottolineare che il pensiero di colui che chiameremo il solista è condizionato da quello dei suoi partner, con regole simili a quelle di una conversazione.

Appare quindi evidente che se non si riduce l'improvvisazione a una elaborazione in astratto di schemi e moduli, ma la si colloca nella realtà della performance, con tutto ciò che questo comporta, si comprende quanto sia differente la sua realizzazione rispetto a quella di una composizione scritta.

Anche nel caso in cui il musicista si trovasse a suonare da solo, il rapporto con l'uditorio, con il luogo, la dia logicità stessa del pensiero jazzistico (in questo caso corrispondente a un dialogo con se stesso) continueranno ad agire in maniera significativa.

Per questo è opportuno chiamare i due processi creativi in maniera differente tra loro, collocandoli nella specifica sfera espressiva ed estetica a cui appartengono.

Non solo di sottigliezze terminologiche si tratta, bensì di un passo in avanti verso la comprensione di fenomeni musicali sino a ora non sufficientemente chiariti e che, grazie all'opera teorica di Vincenzo Caporaletti, cominciamo a comprendere meglio nella loro essenza.


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